La politica di Aristotele

Aristotele, sotto diversi aspetti, sembra arretrare rispetto alla concezione politica di Platone. D’altra parte l’epoca di riflusso in cui è costretto a vivere lo porta a sviluppare una concezione politica che sarà il prototipo del realismo anti utopistico. Del resto solo ricalibrando mezzi e fini del proprio agire politico, in un’epoca così sfavorevole, era possibile teorizzare e praticare un modello politico in contro tendenza, in quanto decisamente progressista.


La politica di Aristotele

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Per Platone, rampollo per quanto ribelle della classe dirigente ateniese, la politica deve essere il fine principale della filosofia e dell’attività dell’intellettuale, per Aristotele, un immigrato figlio di un medico, la politica è una scienza tra le altre. Per Platone i filosofi devono mirare a dirigere lo Stato, per Aristotele devono dedicarsi alla conoscenza, cioè allo studio e all’insegnamento. Mentre Platone, con una impostazione più filosofico-matematica, si sforza di dedurre dal sommo buono i lineamenti fondamentali di uno Stato ideale (comunista), come modello cui i veri politici dovrebbero ispirarsi per assicurare uno sviluppo in senso progressista, Aristotele invece, con una attitudine filosofico-scientifica, seguendo il metodo induttivo, raccoglie e analizza tutte le costituzioni delle principali poleis greche per ricavarne delle coordinate generali e una classificazione delle forme di società politica, che consenta di stabilire quale forma di governo è migliore a seconda del livello di sviluppo di una società storica. In tal modo, riflettendo sui problemi e sui vantaggi di ogni ordinamento istituzionale realmente esistente, Aristotele giungerà a delineare le caratteristiche preferibili affinché una società politica possa garantire la felicità tanto materiale che morale ai suoi cittadini. D’altra parte, di contro all’utilitarismo opportunista e fondamentalmente qualunquista dominante nella seconda generazione dei sofisti, tipica progenie di un mondo greco sempre più prigioniero di una crescente crisi irreversibile, tanto per Aristotele, quanto per Platone, deve necessariamente esserci uno stretto legame, una forte correlazione tra etica e politica: l’individuo a loro avviso deve essere subordinato al bene comune e collettivo della comunità, della società e perciò la cosa pubblica deve svolgere un compito pedagogico nei confronti dei propri cittadini.

L’uomo è un animale sociale

Per Aristotele l’uomo è un animale naturalmente sociale, anzi politico, tanto che chi non è parte della comunità, della società, o è una belva o è un dio. La prima unione naturale fra gli uomini è costituita dalla famiglia, che comprenderebbe essenzialmente i coniugi, i figli e gli schiavi. Si tratta di una concezione avanguardista rispetto alle famiglie allargate della sua epoca, più vicine ai clan che alla famiglia borghese moderna. D’altra parte, a differenza degli aspetti più rivoluzionari della filosofia politica utopista di Platone, la schiavitù è considerata dal realista Aristotele un fatto naturale. Allo stesso modo, al contrario del rivoluzionario Platone che si batte temerariamente in una società del tutto patriarcale e maschilista per l’eguaglianza e le pari opportunità fra donne e uomini, per il più realisticamente moderato Aristotele, figlio di un’epoca di compiuta crisi e di riflusso, la donna è ritenuta naturalmente inferiore all’uomo, cui spetta il comando della casa, visto che alla donna mancherebbe la capacità di direzione. D’altra parte Aristotele pone la donna, in modo comunque progressista, su di un piano più vicino all’uomo che allo schiavo, il quale rischierebbe di rimanere, senza un saggio padrone capace di formarlo, un eterno bambino. 

L’economia

Dell’analisi della famiglia derivano in Aristotele delle estremamente significative e incredibilmente moderne riflessioni sull’economia quale scienza necessaria a una saggia amministrazione della casa. Aristotele distingue due tipi di acquisizione dei beni: quello dei beni necessari alla riproduzione dell’uomo e la crematistica, cioè l’acquisizione di beni al di là del necessario, ovvero i beni di lusso che Aristotele condanna da un punto di vista etico-politico insieme alla loro ricerca. Aristotele arriva a comprendere la duplice natura dialettica delle merci, il valore d’uso proprio dell’oggetto in sé, la sua utilità in quanto tale e il valore di scambio che consente la sua potenziale scambiabilità con qualsiasi altra merce, favorendo lo sviluppo dei commerci.

Dalla famiglia, al villaggio alla polis

Dalla dimensione collettiva e sociale, in quanto tale superiore alla sfera particolaristica dell’individuo, ancora naturale della famiglia si passa alla loro superiore unione etica in un villaggio e, infine, con la fusione di più villaggi si giunge alla città stato, cioè alla polis. Dunque anche se la polis, che ricomprende in sé ciò che noi moderni distinguiamo in società civile e Stato, dal punto di vista di una logica cronologica è l’ultima a formarsi, rimane, d’altra parte, la prima dal punto di vista logico valoriale, in quanto è soltanto il tutto che dà significato alle parti e dunque la società/stato verso i cittadini svolge una decisiva funzione etico-pedagogica, indirizzandoli verso la virtù indispensabile alla realizzazione del bene comune, sociale.

Le diverse forme della società politica

La costituzione è la forma della società politica che Aristotele classifica nelle sue differenti configurazioni. Quando è sovrano un singolo, che governa e utilizza il potere per l’interesse comune si ha la monarchia. La forma degenerativa di quest’ultima è la tirannia, che si afferma quando il singolo sovrano sfrutta il potere di cui è investito per i propri scopi particolaristici, privati. Quando sovrani sono alcuni, se utilizzano il loro potere per il benessere collettivo abbiamo una aristocrazia nel senso letterale del termine, cioè un governo su basi meritocratiche dei migliori. Anche tale forma di sovranità è costantemente a rischio e deve, quindi, guardarsi dal degenerare in una forma di oligarchia, dove al posto dei più competenti e altruisti gestiranno il potere per i propri fini privati, necessariamente egoistici, gli oligarchi, cioè i più abbienti, i più ricchi. Infine abbiamo la forma più sviluppata e adeguata a un popolo evoluto di gestione del potere e di esercizio della sovranità che è la politia, dove non sono più alcuni, cioè pochi, a gestire il potere, ma sono molti che lo gestiranno avendo come fine il benessere collettivo, il bene comune. Anche tale forma di buon governo rischia sempre di degenerare perché mentre quando a governare sono pochi, sono tendenzialmente i più ricchi e potenti e non i più competenti, quando a governare sono molti, questi ultimi sono generalmente i non ricchi. In tal caso avremmo la democrazia quale potere dei non possidenti sui possidenti. Una forma degenerativa secondo Aristotele in quanto a governare non saranno molti scelti fra i migliori, ma molti solo in quanto non possidenti e che governeranno non per il bene collettivo, ma per il proprio vantaggio o al massimo a vantaggio dei meno ricchi, dei non possidenti.

La medietà della Politia

La costituzione, la forma di governo, di sovranità preferibile è, dunque, nelle società più evolute e civili, secondo Aristotele, la politia. Si tratta di una tipologia di società politica in cui i cittadini affidano le cariche pubbliche ai migliori, soprattutto dal punto di vista morale, i quali lo eserciteranno in vista del bene comune, collettivo. Tale forma è in un certo senso la migliore possibile, in astratto, cioè nel caso di una società civile e matura, in quanto costituisce il giusto mezzo (criterio fondamentale del buono, secondo il giudizioso Aristotele) fra due estremi opposti, in quanto tali necessariamente negativi, che sono l’oligarchia quale governo dei più ricchi e potenti e la democrazia quale governo dei meno ricchi di contro ai più ricchi. La politia è anche la forma di costituzione, di governo preferibile in quanto distribuisce il più possibile il potere, al contrario delle forme autoritarie di sovranità quali la tirannia. La caratteristica della politia è la medietà, in quanto è caratterizzata dal dominio della classe media (che dispone di schiavi e non deve, dunque, svolgere il lavoro agricolo); la polis deve essere di medie dimensioni demograficamente e territorialmente. Aristotele sottolinea tale esigenza in quanto la polis deve rendere possibile la partecipazione di tutti i cittadini, anche se dalla cittadinanza sono esclusi gli schiavi, le donne, i meteci e gli operai e lo Stato deve essere a misura d’uomo.

La costituzione deve rispondere alle esigenze specifiche di un popolo

In ogni caso, non esiste secondo Aristotele una costituzione migliore in assoluto, perché la costituzione deve essere in primo luogo adatta ai popoli, ad esempio Aristotele ritiene che per i barbari sia meglio la monarchia, perché gli individui – non solo i molti ma nemmeno i pochi – hanno ancora sviluppato le caratteristiche necessarie per partecipare direttamente alla gestione dello Stato.

Contro la divisione in classi dei cittadini

La posizione realista, saggia e assennata di Aristotele, la sua attitudine giudiziosa da scienziato della politica lo porta a sostenere che nella società greca, la più avanzata della sua epoca, i contadini, gli operai e i commercianti non debbono, per il bene comune, essere considerati cittadini, perché le loro occupazioni gli impedirebbero, necessariamente, di coltivare la virtù, indispensabile per il buon governo di una politia, dove il potere è gestito comunemente da molti. I cittadini si dovranno occupare, a parere di Aristotele, della difesa della res pubblica durante gli anni della giovinezza, l’età più appropriata per poter svolgere nel modo migliore la funzione di guardiani, di pretoriani della cosa pubblica. Dovranno, invece, occuparsi dell’amministrazione della società politica da adulti, in quanto è l’età più adatta per svolgere la funzione di governanti. Alle funzioni legate ai culti dovrebbero invece provvedere i più anziani, in quanto avranno raggiunto l’età più adeguata a svolgere il ruolo di sacerdoti. 

Dunque, Aristotele è certamente privo, anche per la sua condizione storica e sociale, della carica utopistica rivoluzionaria di Platone, ma al contempo è più giudizioso, maturo e meno estremista del suo maestro. Il suo realismo lo porta a porre come forma di governo migliore della società politica una forma di sovranità che, pur non esistendo, potrebbe essere realisticamente raggiunta, se i più progressisti avessero la meglio sui conservatori. Quindi da scienziato politico Aristotele assume un’attitudine critica verso gli aspetti più utopisti, più rivoluzionari, ma per l’epoca anche più estremisti, più radicalmente in contrasto con il senso comune, come l’abolizione della proprietà privata, il libero amore fra uomini e donne, ma anche la rigida suddivisione in ceti sociali propria del modello di Stato platonico. Gli aspetti più rivoluzionari della concezione politica di Platone, sarebbero irrealizzabili e non utili a migliorare realmente le cose, in quanto il loro estremismo non li renderebbe praticabili. Peccherebbero, secondo Aristotele, di settarismo, in quanto rischierebbero di rinchiudere i filosofi politici rivoluzionari in una ristretta cerchia, incapace di ottenere l’egemonia sul senso comune. In tal modo i migliori, invece di porsi al servizio della comunità e di contribuire a governarla per il bene comune, si estranierebbero in una ristretta cerchia avanguardistica, i membri della quale nel momento di passare, necessariamente, dalla teoria alla prassi, finirebbero per rovesciarsi, a causa del loro estremismo, in uomini del corso del mondo, pronti a cercare di conquistarsi la fiducia dei tiranni, per trovare il momento opportuno per sostituire al loro potere rivolto al proprio interesse particolare, una sorta di monarchia o al massimo di aristocrazia rivolta al bene comune. Mirando poi a una impossibile e irrealistica perfezione astratta, finirebbero per eliminare completamente la possibilità per tutti di autodeterminare realmente il proprio destino, in quanto ognuno sarebbe indirizzato, secondo le sue inclinazioni personali, a un determinato gruppo sociale, senza la possibilità di una mobilità sociale. Peraltro tale forma di governo, secondo Aristotele, sotto determinati aspetti finirebbe per essere più distopica che utopistica, in quanto i guardiani essendo destinati per tutta la vita ad avere il monopolio del potere militare, ma essendo esclusi dal potere politico, mirerebbero necessariamente a tentare di conquistare con la forza quest’ultimo. In tal modo al governo dei filosofi – che a rotazione dovrebbero gestire nel modo più breve e distaccato possibile il potere – si sostituirebbe una dittatura militare. Al contrario nel modello di Aristotele, che in realtà era stato sviluppato almeno in potenza già da Platone, i guardiani sarebbero solo stati esclusi dal potere politico da giovani, quando avevano in cambio il potere militare. D’altra parte, come obiettava certamente Platone, nei dibattiti che si svolgevano nell’Accademia, il rischio di degenerazione del suo modello di Stato, deriverebbe dalla smisurata ambizione – virtù peraltro propria dei giovani guerrieri-guardiani – che non avrebbero la necessaria paziente lungimiranza di aspettare il proprio turno e l’età adatta per svolgere il ruolo di direzione, ma ambirebbero a bruciare i tempi.

Infine, al di là delle differenze di accenti, di attitudini, di formazione, di classi e status sociale, che provocavano una divergenza anche significativa di vedute, rimanevano preminenti i motivi di fondo comuni, come ad esempio la concezione che lo Stato deve educare alla virtù e svolgere un ruolo formativo verso i cittadini. Inoltre resta un motivo egualitario, proprio del socialismo pedagogico dei grandi filosofi, che hanno anche grandi ambizioni, come l’idea che l’educazione deve essere monopolio pubblico e deve essere impartita gratuitamente e in modo egualitario a tutti i cittadini. Eccezionale utopia rivoluzionaria per la loro epoca anche se, come sappiamo, non solo nella realtà, ma anche nelle loro concezioni utopistiche per l’epoca il diritto di cittadinanza non era esteso erga omnes.

02/06/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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