Negli scritti di Brecht non si parla mai di dialettica in astratto, per poi mostrare come essa possa essere applicata nella risoluzione di problemi determinati: la dialettica appare sempre in situazione, in atto. La dialettica, infatti, per Brecht si può cogliere unicamente nella soluzione di problematiche concrete, nell’interpretazione della realtà che si dà solo volta per volta, in quanto ha sempre una determinazione storica. La dialettica, dunque, non può mai essere impunemente estrapolata dal suo contesto di applicazione e definita, sistematizzata una volta per tutte. La dialettica, in effetti, sfugge costantemente a questi tentativi, si nega a ogni sforzo compiuto dall’intelletto per immobilizzarla, e se è costretta in qualche astratto schema si dissolve in un vano dogmatismo. Per Brecht, allora, essa è la struttura stessa su cui si costruisce il reale, è il ritmo su cui la realtà si scandisce, la grammatica in cui si viene articolando ed è quindi da essa indissociabile. La dialettica rappresenta il modo stesso in cui l’uomo interagisce con il reale, il modo in cui interviene su di esso trasformandolo, trasformandosi a sua volta e concrescendo con esso.
Occorre, però, chiarire meglio che cosa comporti questa concezione della dialettica per la riforma teatrale di Brecht e, in particolare, in che modo essa svolga una funzione positiva nel tentativo di sviluppo-superamento del teatro epico.
Ora, un primo elemento utile alla soluzione di questo problema ci è offerto proprio nella breve introduzione che Brecht scrive alla Dialettica nel teatro [1]. In essa Brecht indica nel paragrafo 45 del Breviario di estetica teatrale [2] il brano riflettendo sul quale egli ha avvertito l’esigenza di andare, in qualche modo, oltre il teatro epico. Certo anche questo paragrafo non offre delle facili e pronte soluzioni. Qui, infatti, Brecht sembra non occuparsi affatto di teatro epico e tanto meno di un suo superamento. Egli si limita a indicare nell’effetto di straniamento lo strumento indispensabile per poter utilizzare al meglio nella struttura drammatica il metodo dialettico. Un metodo, e si tratta di uno dei più preziosi chiarimenti di Brecht al riguardo, che permette al teatro di rappresentare la società non più staticamente, ma nel suo movimento contraddittorio, che consente di considerare al suo interno le relazioni sociali tra gli individui (e ciò vale, come si precisa subito, anche “per i sentimenti, le opinioni, i comportamenti degli uomini”) non più come un che di dato, di naturale, ma come dei processi osservabili dallo spettatore in tutta la loro complessa contraddittorietà; un metodo che, soprattutto, permette di mostrare che il “tutto esiste solo in quanto si trasforma, dunque in antinomia con se stesso” [3].
L’effetto di straniamento è per Brecht uno strumento decisivo per il suo scopo: indurre il pubblico a un radicale scetticismo nei confronti di tutto ciò che è dato, noto, scontato, sì da rendere possibile una comprensione in grado di rompere la percezione superficiale del reale. Per mezzo di questo effetto all’interno dell’opera ogni aspetto del mondo fenomenico può essere presentato in una dimensione “straniata” che consente di metterne in luce i diversi e contraddittori aspetti, potenziandone in tal modo la significanza. Tutto ciò che appare ovvio, gli enti e gli avvenimenti che sono presupposti generalmente come noti dagli spettatori sono resi incomprensibili, estranei, sono isolati da quelle coordinate abituali di senso che ne assicurano la comprensione, affinché divengano intelligibili in tutta la loro complessità. È la stessa valutazione assiologica del fenomeno che lo spettatore non può più presupporre come data, come garantita, dovendola riconsiderare di volta in volta, come l’opera gli ha mostrato esemplarmente, all’interno di un determinato orizzonte di senso. L’effetto di “straniamento” non si limita, però, a rimettere in questione la cattiva effettività alla quale si è abituati, ma deve assumere la funzione eminentemente critica di rendere lo spettatore in grado di cooperare coscientemente allo sforzo di ricomposizione della molteplicità del mondo fenomenico nella totalità architettonica dell’opera.
Mirando con questo effetto a impedire al pubblico di abbandonare il distacco critico indispensabile alla comprensione dell’evento rappresentato, Brecht riconosce tutta l’importanza che ha il momento della sospensione nell’ambito denotativo dell’opera. La nuova arte drammatica, in effetti, non può più sottrarsi al compito di palesare la natura illusionistica del gioco scenico se intende coinvolgere attivamente lo spettatore nel suo sforzo di ri-composizione degli elementi del reale.
A questo scopo era necessario reimpostare radicalmente il rapporto palcoscenico-platea, rendendo innanzitutto perspicuo il rapporto interprete-personaggio. Brecht intende rendere il pubblico consapevole del dualismo di fondo insito nella funzione stessa dell’attore, quale veicolo segnico scenico per eccellenza. Mentre il teatro fondato sull’immedesimazione dell’attore nel suo personaggio e del pubblico nell’attore tende di necessità a occultare la presenza fisica e sociale dell’attore nella sua funzione simbolica di semplice organo di trasmissione del testo dell’autore, nel teatro epico egli deve mettere ben in evidenza la sua funzione rappresentativa, segnica. In altri termini, benché l’interprete debba rappresentare sulla scena il suo personaggio, ne deve al tempo stesso narrare le gesta. Egli non deve nascondere allo spettatore la maggiore coscienza che ha del corso dell’azione rispetto a quella del personaggio che rappresenta. L’attore per non restare mero veicolo scenico del testo drammatico deve, allora, trasmettere il testo mettendone ben in evidenza le virgolette, deve, cioè, evidenziare in tutta la sua pregnanza quel processo di semiotizzazione implicito necessariamente in ogni rappresentazione scenica. Questo processo ha permesso a Brecht di spezzare quel circolo vizioso d’immedesimazioni che finiva per deresponsabilizzare del tutto il pubblico rispetto a quanto era rappresentato sulla scena. Affinché lo spettatore venga messo nella condizione di comprendere ciò che gli è mostrato e non si debba limitare a rivivere ciecamente un qualche destino a lui estraneo, l’attore deve presentare l’evento scenico e i suoi personaggi come un che di storico, di avvenuto, rispetto ai quali sia possibile assumere un atteggiamento distaccato, riflessivo. In questo modo l’interprete può affrancarsi dai vincoli della causalità del gioco scenico e portare lo spettatore a metterne in dubbio l’assoluta legalità.
L’effetto di straniamento, allora, mettendo a nudo le strutture portanti dell’opera, permette al processo di strutturazione interna di questa di non compiersi più a priori, all’insaputa dello spettatore. In questo modo costringe il pubblico non solo a mettere in questione l’atteggiamento di ricettività passiva che è solito assumere nei riguardi degli eventi rappresentati sulla scena, ma a riconsiderare criticamente la stessa percezione “naturalistica”, fatalistica che ha della realtà. Attraverso l’effetto di straniamento, invece, lo spettatore può osservare coscientemente e farsi parte attiva della funzione che ha l’arte di trasfigurare il reale nella nuova dimensione di senso istituita dall’opera. Il godimento prodotto da un’esperienza estetica di questo genere deriva, dunque, dalla stessa funzione didattica che ha l’opera, in quanto media al suo pubblico dei significativi strumenti concettuali e rappresenta il mondo fenomenico superando il livello dell’immediatezza in cui è normalmente percepito, aprendolo così a una più piena comprensione.
Lo straniamento, dunque, ha una funzione determinante per inserire la dialettica nel teatro [4], ma allo stesso tempo non può essere considerato un elemento estraneo alla teoria del teatro epico, di cui costituisce, anzi, il naturale compimento, la piena esplicitazione del concetto [5]. Inoltre la teoria dello straniamento non poteva essere considerata sufficiente per il progetto di potenziare, di esplicitare la dialetticità insita nel teatro epico, in quanto la sua diffusione aveva avuto il negativo effetto di inasprire ulteriormente le diffidenze e le incomprensioni di molti critici nei confronti della riflessione brechtiana sul teatro e del suo stesso lavoro di regista nel Berliner Ensemble. L’effetto di straniamento è stato, infatti, spesso interpretato come un ulteriore aggravamento del razionalismo e dell’intellettualismo che già affliggevano, secondo i suoi critici, il teatro epico. Per salvare almeno in parte il suo radicale progetto di riforma del teatro a Brecht era necessaria una brusca inversione di rotta che gli consentisse di venire incontro, in qualche modo, alle esigenze genuine che dovevano certamente celarsi anche dietro le critiche meno generose. A questa esigenza è indissolubilmente legato un altro aspetto fondamentale della riflessione brechtiana di questi anni: la categoria del naïf.
Note:
[1] Si tratta di un corpus di brevi scritti composti tra il 1951 ed il 1956, riuniti e pubblicati dopo la morte di Brecht dagli editori della prima edizione delle opere complete brechtiane sotto il titolo di La dialettica nel teatro. Cfr. Brecht, Bertolt, Scritti teatrali, 3 voll., a cura di Castellani, E., Einaudi, Torino 1975, vol. II, pp. 235-296.
[2] Ivi, pp. 155-91, in particolare p. 171.
[3] Ibidem.
[4] Brecht, in un testo databile al 1955, dichiara di non conoscere altri mezzi, al di là della tecnica dello straniamento capaci di “rappresentare la vita, la convivenza degli uomini, nella sua contraddittorietà e nel suo sviluppo” in grado di “fare della dialettica una fonte di esperienza e di piacere.” B. Brecht, Scritti… op. cit., vol. II, p. 271.
[5] Tanto che Brecht stesso, in riflessioni come la seguente, definisce elementi epici degli aspetti che hanno, evidentemente, a che fare con l’effetto di straniamento: “comincio a introdurre cautamente nelle prove elementi epici. Subito le scene risultano articolate in quanto diventano visibili i cardini. Bildt capisce subito che quello che conta è impedire la metamorfosi totale”. Annotazione del Diario di lavoro del 12/12/1948.