La parabola dell’economia politica – Parte XXI: Il controverso rapporto fra Keynes e Marx

Nonostante Keynes, per reticenza o per ignoranza, non lo abbia mai ammesso, buona parte delle sue “scoperte” erano state anticipate da Marx oltre mezzo secolo prima.


La parabola dell’economia politica – Parte XXI: Il controverso rapporto fra Keynes e Marx Credits: https://puntodevistaeconomico.files.wordpress.com/2018/03/keynes_marx.jpg

 

Abbiamo già rilevato il complicato rapporto fra le idee di Keynes e quelle di Marx. La critica feroce e sgarbata verso il principale teorico del socialismo nasconde l’ignoranza della teoria marxiana, appresa indirettamente attraverso i suoi collaboratori e tramite un libretto riassuntivo di un personaggio minore. Il galateo ci suggerisce di non insinuare la malafede, pertanto occorre attribuire a questa ignoranza il mancato riconoscimento di un debito verso la teoria marxiana, anche se, andando al nocciolo delle questioni molte delle idee dei due sono chiaramente sovrapponibili. E questo testimonia a vantaggio di chi le ha elaborate per primo.

Riassumiamo in dieci punti queste somiglianze.

1. In merito alla legge di Say, Keynes sostiene che essa sia applicabile solo alle sole economie di baratto, non a un’economia monetaria; altrettanto, meglio di lui e molto prima, fa Marx.

2. L’idea della crisi da carenza della domanda è comune ai due e risale, addirittura, oltre che a Marx, ai sottoconsumisti a quest’ultimo anteriori e anche al reazionario Malthus, che utilizzava questo punto di vista come una clava per giustificare i consumi improduttivi della nobiltà. Più serio è il discorso sulla carenza di domanda per investimenti ma anch’esso è pienamente contenuto nella teoria marxiana.

3. Per entrambi le decisioni di investimento risentono del confronto fra il tasso di interesse e il rendimento del capitale. Per Marx tale tasso oscilla fra un massimo pari al saggio del profitto che tende ad affermarsi in periodi di boom e zero, cioè il valore a cui tende il saggio nei periodi di depressione. Ciò perché l’interesse non è che una quota del plusvalore di cui si appropria il capitale finanziario. Keynes, che non dispone di una valida teoria del valore, si ferma a considerare gli aspetti fenomenici.

4. Entrambi considerano la moneta non nella sola sua funzione di intermediario degli scambi ma nelle molteplici sue funzioni: mezzo di pagamento, riserva di valore, ecc. Inoltre, sia per Marx che per il Keynes del Trattato, la moneta è endogena, ossia trainata dalla domanda delle imprese, non fissata esogenamente dalla banca centrale. Tuttavia Keynes fa un passo indietro nella sua Teoria Generale Keynes in quanto torna a ricorrere all’ipotesi di comodo della fissazione esogena.

5. Entrambi sono critici verso la teoria quantitativa della moneta. Constatano infatti che per la validità di tale teoria, cioè perché si verifichino solo variazioni del livello dei prezzi, lasciando tutto il resto inalterato, a seguito di variazioni della quantità di moneta, sarebbero necessarie condizioni aggiuntive assai difficilmente realizzabili. Il carattere endogeno della moneta fa infatti dipendere la sua quantità anche dai prezzi, esattamente al contrario di questa teoria che fa dipendere i prezzi dalla quantità di moneta.

6. Abbiamo visto anche che l’idea del moltiplicatore, almeno in stato embrionale era già presente in Marx.

7. Idem per la trappola della liquidità. Per Marx, quando la redditività è bassa, il denaro viene accumulato o impiegato in attività finanziarie piuttosto che investito in attività produttive. Aggiunge che con la tendenziale caduta del saggio del profitto la finanziarizzazione e la pletora del capitale fittizio sono destinate a crescere.

8. Keynes, nel Trattato sulla moneta, suddivide il sistema economico nel settore che produce mezzi di produzione e quello che produce mezzi di consumo, per mostrare la possibilità di uno squilibrio fra i due settori. La stessa cosa aveva fatto Marx nei suoi schemi di riproduzione.

9. Prescindendo dal diverso significato politico della cosa, elementi in comune fra i due riguardano anche le prospettive economiche a lungo termine, in quanto esse includono la progressiva riduzione del peso del lavoro nella produzione e riproduzione umana.

10. Anche sul metodo vi sono somiglianze. Certamente è estranea a Keynes la dialettica, ma altri aspetti sono comuni ai due. a) L’abbandono del paradigma dell’individualismo metodologico tipico dei neoclassici, per cui l’agire indipendente di più individui indifferenziati determina il risultato sociale. Marx e Keynes, al contrario, considerano il diverso comportamento delle classi sociali, aggregati ben distinti per interessi. b) La della graduazione dei livelli di astrazione. Marx inizia con l’analisi della merce, “cellula elementare” del modo di produzione capitalistico, per introdurre successivamente sempre nuove complessità, passando così alla circolazione della merce, al denaro, al capitale in generale, alla sua circolazione e riproduzione, alla concorrenza, al credito e al capitale fittizio, in maniera da avvicinare per gradi la ricostruzione delle categorie alla “percezione fenomenica” che ne hanno gli operatori. Anche Keynes inizia isolando alcuni elementi che ritiene abbiano un’influenza prevalente su determinati fenomeni, per prendere in esame in momenti successivi altri fattori presenti nella complessità del sistema economico.

Marco Veronese Passerella, in un’intervista rilasciata a Lucio Gobbi nell’ottobre del 2018, riferisce che Michal Kalecki abbia svolto un ruolo anticipatore rispetto alle politiche keynesiane e abbia nello stesso tempo espresso la sua convinzione dell’incompatibilità fra indirizzi espansivi della domanda e la pulsione del capitale di tenere a freno le rivendicazioni dei lavoratori, convinzione che condividiamo pienamente e su cui ci siamo soffermati nel precedente articolo. Ma di questa intervista ci preme sottolineare l’affermazione secondo cui Kalecki abbia subito l’influsso di Rosa Luxemburg che gli ha fatto recepire alcune intuizioni di Marx. Poiché Kalecki, a sua volta, ha influenzato in modo rilevante il lavoro di Keynes, non è da escludere che in maniera molto indiretta e inconsapevole anche Keynes sia influenzato da Marx e ciò spieghi la sua assunzione di elementi fondamentali della teoria marxiana che non poteva avere acquisito dalla lettura del “bignamino” del Capitale. Naturalmente piegando certe intuizioni all’obiettivo di salvaguardare il capitalismo.

Passarella, inoltre, individua la presenza altri importanti elementi in comune fra Keynes e il vituperato Marx in aggiunta a quelli prima elencati. Per esempio il saggio di interesse come “una variabile monetaria slegata dalla dinamica del mercato dei risparmi”, l’instabilità e la crisi come regola e non eccezione del sistema capitalistico, la “scienza economica come analisi degli aggregati sociali e delle loro tendenze o leggi di movimento”.

È legittimo pertanto chiedersi se, in assenza della “dottrina stupida” di Marx, anche se assimilata indirettamente, Keynes avrebbe potuto giungere ai risultati che lo hanno reso una pietra miliare del pensiero economico borghese.

La crisi del Welfare State è chiaramente una conseguenza dei limiti delle politiche keynesiane dal punto di vista capitalistico, per il quale le politiche neoliberiste sono una necessità in quanto ostacolano la tendenza alla caduta del saggio del profitto. Il crescente debito pubblico è una ripercussione sia dell’impegno finanziario dello Stato per arginare tale caduta, per esempio riducendo le imposte sui profitti, distribuendo incentivi o facendosi carico del debito privato, come prescritto da Draghi in epoca Covid, sia, nel caso di opposte politiche, dell’insostenibilità dello stimolo della domanda, tramite deficit pubblico, oltre i limiti di sostenibilità. Col procedere della crisi, inoltre, diminuisce il gettito fiscale che fa crescere il debito in assoluto e a maggior ragione in rapporto al Pil. Un risultato analogo viene prodotto da un tasso di interesse troppo elevato. Alla luce di tutto ciò il debito pubblico, di per sé non un male, quando risulti fuori controllo può essere considerato una manifestazione fenomenica delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico i cui effetti vengono scaricati sui beni pubblici in senso lato.

Veniamo all’affermazione del Keynes del Trattato sulla moneta in cui emenda parzialmente il paradosso di Walras (e di Schumpeter) secondo cui in un equilibrio di lungo periodo non ci sono profitti, sostenendo invece che gli imprenditori possono avere un profitto purché “il valore monetario degli investimenti [... sia] superiore al risparmio”, cosa giusta nel breve periodo. Ma, a dimostrazione del carattere parziale di questa teoria, vengono ignorati gli effetti dell’accumulazione di capitale sul saggio del profitto di lungo periodo, che Marx ha messo in evidenza, e perfino la correlazione negativa, sia pure per motivi diversi da quelli esposti da Marx, fra profitti e stock di capitale evidenziata da Kalecki. Il merito di avere previsto alcuni esiti dello storico aumento della produttività è sminuito dall’incapacità di distinguere fra l’espansione della ricchezza in termini di valori d’uso, cioè materiale, e quella in termini di valore, che è ciò che conta per il capitale. L’assenza di una teoria del valore gli ha impedito di vedere che la situazione in cui si potrebbe lavorare di meno, in cui c’è un rilievo decrescente del lavoro nella produzione dei valori d’uso, comporta la riduzione, almeno in termini relativi, rispetto al capitale accumulato, del neovalore. Se questo sarebbe un esito fausto per la vita dei lavoratori in una società da essi autogestita, lo stesso esito è incompatibile con il modo di produzione capitalistico che vede nel saggio del profitto la stella polare che lo guida. Pertanto, un secolo dopo le profezie keynesiane, questo esito positivo è ben lontano dal realizzarsi, mentre i grandi poteri economici vanno proponendo politiche opposte a quelle riformiste e oggi l’orrore della guerra, mai estromesso dalla storia, si fa ancora più minaccioso.

Contrariamente alle aspettative di Keynes, la storia sta dimostrando che, mentre si stanno concretizzando le potenzialità – l’aumento poderoso della produttività – per l’esito ottimistico da lui prospettato, e con diversi accenti prospettato da Marx, lo sfruttamento e l’intensificazione del lavoro si vanno facendo, invece sempre più brutali. Sarà così fintanto la molla che aziona l’economia rimarrà l’accumulazione di denaro fine a sé stessa e non la consapevole organizzazione della produzione, sulla base dei reali bisogni, da parte dei produttori associati.

Le politiche riformiste, tendendo alla piena occupazione e a maggiori tutele, potrebbero rendere i rapporti di forza più favorevoli ai lavoratori. Ma sarebbe illusorio pensare che sia sufficiente allo scopo la battaglia teorica dei keynesiani per la loro affermazione, perché il capitale cercherà di respingerle in ragione della loro incompatibilità con il pieno dominio capitalistico. Oggi, come in passato, tali rivendicazioni dovrebbero invece accompagnarsi alla presa di coscienza dei loro limiti e a una prassi indirizzata al rivolgimento dei rapporti sociali.

09/09/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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