L’aspirazione di Bertolt Brecht a ricostruire la classica unità organica dell’opera si scontra con quella necessità tutta romantica – che si esprime di preferenza attraverso l’ironia – di rendere manifesta la scissione, la tragica lacerazione di una modernità in cui l’arte è costretta a farsi autocosciente e dichiarata allegoria. L’arte moderna è, in un certo senso, condannata a essere allegorica in quanto ha perduto per sempre la possibilità che aveva l’opera classica di trovare in sé la propria compiutezza. L’allegoricità dell’arte moderna consiste, dunque, in questo suo continuo rinvio al di là di se stessa, in questo aver assimilato nella sua stessa struttura la scissione del mondo moderno [1].
Quindi anche Brecht, come Benjamin nel Dramma barocco tedesco, avvertiva il bisogno di rivalutare l’allegoria di fronte al simbolo della tradizione classicista e romantica, riportato in auge dall’espressionismo [2]. Caratteristica fondamentale dell’allegoria è, infatti, la sua non-trasferibilità. “Mentre un simbolo sta per qualcosa d’altro e quindi non sta per se stesso, dunque «significa» qualcosa, l’allegoria sta per se stessa ed ogni tentativo d’interpretarla unilateralmente e di risolverla non si cura della sua essenza” [3]. Tuttavia, l’allegoria non dovendo portare in sé come il simbolo la predisposizione ad accogliere l’universale, assume il significato di una sfida lanciata a quel “profano mondo borghese” in cui al dettaglio non è riconosciuto più nessun valore. Solo conservando la sua ineliminabile autonomia il particolare può proporsi come cifra, come modello di un universale altrimenti irrappresentabile. Il particolare è così salvato e permette al fruitore di cogliere l’universale. Solo in questo modo la ricchezza metaforica dell’opera non perde quell’immediatezza che gli consente di attenersi al piano del concreto, del singolo che porta in sé sensibilmente il suo “significato” [4].
L’opera, dunque, deve mantenere viva l’aspirazione a ricostruire, in qualche modo, la semplicità e l’immediatezza dell’opera classica, a riconquistare nell’orizzonte di senso della forma la verità della natura, a conciliare l’allegoricità del suo universo poetico con la Naivität [il naïf]. La rifunzionalizzazione dell’elemento del naïf doveva permettere, a parere di Brecht, di abbattere la barriera che nel teatro tradizionale divideva il palcoscenico dalla platea. La Naivität, però, doveva essere inseparabilmente connessa all’effetto di straniamento, che aveva la funzione opposta di impedire allo spettatore di confondere lo sguardo ingenuo con una presunta visione diretta, assoluta, metafisica della rappresentazione scenica. Non essendo neppure immaginabile un puro guardare, che non sia stato già coniato e formato da visioni e da idee precedenti, per Brecht è indispensabile che il pubblico tenga sempre ben presente il suo patrimonio di visioni e di idee, per poterle confrontare criticamente con quelle che gli sono proposte sulla scena. “Le menti impreparate concepiscono la contraddizione fra il recitare (dimostrare) e il vivere una vicenda (immedesimarsi) come se nel lavoro dell’attore ci fosse posto per una soltanto delle due cose (come se si limitasse a «recitare» attenendosi al Breviario, o a «immedesimarsi» attenendosi all’antica maniera). In realtà si tratta, naturalmente, di due procedimenti contrari che però si conciliano nel lavoro dell’attore. L’attore ottiene i propri effetti ricavandoli dalla tensione, come pure dalla profondità, dei due elementi in contrasto. Responsabile del malinteso è almeno in parte, lo stile del Breviario che spesso trae in inganno forse perché è troppo impaziente ed esclusivo nel designare il «lato più importante della contraddizione»” [5]. La Naivität è, dunque, strumentale alla presentazione d’immagini il cui godimento sia possibile in maniera ingenua, cioè immediata, benché essa sia il risultato di un processo estetico molto complesso in grado di mediare elementi conoscitivi [6].
Quest’opera deve tendere, pur nella coscienza della irrealizzabilità di questa aspirazione, a liberarsi, in qualche modo, di ogni estrinseca metaforicità e programmatica riflessività, a eliminare ogni effetto ed artifizio, per poter restituire la vita a un’immagine in grado di dare rappresentazione immediata a tutta la complessità del suo contenuto conoscitivo, togliendo la preminenza assunta dalla forma che la esprime e la veicola. Deve, cioè, riportare la forma alla sua originaria funzione di semplice strumento, di mezzo di cui l’artista può disporre completamente per dare rappresentazione immediata al suo pensiero, in grado di raggiungere nonostante la sua complessità una limpidezza e una nobile evidenza tutte classiche [7].
È proprio dalla presa di coscienza del tramonto dell’arte all’interno della prosa estraniata del mondo moderno che deve sorgere, allora, l’esigenza di una qualche conciliazione estetica che sia in grado di salvaguardare, in vista di tempi meno oscuri, la poesia. Si tratta, certo, di una conciliazione estremamente fragile, dotata di una essenziale instabilità dato che la ragione, servendosi dell’ironia, non può che smascherare l’artificialità del mondo ideale, dell’orizzonte di senso che l’opera mira, per quanto criticamente, a riproporre [8]. Non appena nell’opera moderna l’ideale si dà un’immagine, si fa reale e sensibile, si incarna e individualizza, esplode inevitabilmente la latente contraddizione; non appena la fantasia dà vita a questo ideale insorge, infatti, la ragione che con l’ironia lo pone in dubbio, ne mette a nudo l’artificialità delle strutture e lo dissolve. In certi momenti questa ironia sembra avere un carattere puramente distruttivo, in grado di corrodere ogni vitalità dell’opera, ogni bellezza che provi timidamente a risorgere in un mondo che sembra averla bandita per sempre.
Tuttavia essa, allo stesso tempo, denuncia tutta l’aridità di questo mondo “scientifico”, smaschera implacabilmente tutti i limiti di una ragione puramente utilitaristica, manifestando così, spesso inconsapevolmente o solo negativamente, la segreta aspirazione alla poesia che anima anche l’opera più “moderna”. Per Brecht, quindi, l’artista non deve abdicare al proprio ruolo di fronte alla prosaicità del mondo, anzi con la sua attività deve preservare l’importanza della sua funzione, l’irrinunciabile necessità di salvaguardare un credo poetico capace di rimettere in discussione lo scetticismo dell’intelletto, di impedire che “la ratio emancipata dei fisici, con il suo formalismo meccanico” [9] possa bandire per sempre ogni poesia dal cuore umano e con essa ogni speranza di riscatto, di palingenesi, di utopia [10].
Note:
[1] Il fatto che il Messigkauf [L’acquisto dell’ottone. Breviario di estetica teatrale, Einaudi, Torino 1975] sia stato lasciato da Brecht allo stadio di abbozzo non può essere considerato del tutto casuale. La sua pretesa di rappresentare una nuova concezione del teatro in grado di superarne la profonda crisi nel mondo moderno è frustrata dalla polemica unilateralità dell’esposizione. In essa, infatti, è data, in modo provocatorio, importanza unicamente alla necessità di un’arte tutta allegorica, intellettualistica, sentimentale ai limiti del prosaico. (Cfr. Brecht, Bertolt, Arbeitsjournal, a cura di W. Hecht, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973, 2 voll., tr. it. di Zagari, B., Diario di Lavoro, Einaudi, Torino 1976, p. 35). Questo dialogo non può, quindi, essere considerato, come troppo spesso è stato fatto, l’espressione più sistematica, insieme al Kleines Organon für das Theater [Piccolo Organon per il teatro], della concezione brechtiana del teatro e, più in generale, dell’arte. Anche perché, proprio il Kleines Organon rappresenta una precisa e puntuale critica di questo scritto. Una certa organicità e un minimo di equilibrio sistematico è forse possibile raggiungerlo solo considerando come un tutto inseparabile questi due scritti che, nella loro insanabile contraddittorietà, denunciano reciprocamente le proprie debolezze e unilateralità, indicandone, spesso solo negativamente, i possibili antidoti.
[2] Cfr. Id., Gesammelte Werke, Suhrkamp in collaborazione con Hauptmann, E., Frankfurt a.M. 1967, 20 voll., vol. 15, p. 44 e anche vol. 16, p. 756.
[3] Ludwig, K. H., Bertolt Brecht. Philosophische Grundlagen und Implikationen seiner Dramaturgie, Bouvier Verlag Herbert Grundmann, Bonn 1975, p. 10.
[4] Cfr. Brecht, B., Gesammelte…op. cit., vol. 15, p. 455.
[5] Id., Scritti teatrali, 3 voll., a cura di Castellani, E., Einaudi, Torino 1975, vol. II, p. 187.
[6] A proposito del significato e del valore che assume la Naivität nell’opera e nell’estetica di Brecht si possono vedere: Wekwerth, Manfred, Auffinden einer ästhetischen Kategorie, in «Sinn und Form II. Sonderheft Bertolt Brecht», Berlin, 1957, Schöttker, D., Bertolt Brechts Ästhetik des Naiven, J. B. Metzler Verlagsbuchhandlung, Stuttgart 1989, e Nägele, R., Augenblicke: Eingriffe Brechts Ästhetik der Wahrnehmung, in The Other Brecht I. The Brecht Yearbook, n. 17, The International Brecht Society, University Wisconsin at Madison 1991.
[7] Se l’opera di Goethe era ancora in grado di adempiere a questa duplice esigenza, nell’epoca immediatamente seguente tale unità si è spezzata nei suoi opposti e gli elementi della complessità e dell’immediatezza tornavano a essere nuovamente contrapposti. Si veda, a questo proposito, quanto scrive Brecht nel suo diario a proposito dello sviluppo storico della lirica: “che decadenza! Subito dopo GOETHE si sfascia la bella unità piena di contraddizioni e HEINE prende la linea tutta profana, HÖLDERLIN quella tutta pontificale. Nella prima la lingua non fa che corrompersi successivamente sempre di più perché, per ottenere la naturalezza, è necessario ricorrere a piccole violazioni della forma. Inoltre l’arguzia è sempre piuttosto irresponsabile e l’effetto che il poeta lirico trae dall’elemento epigrammatico lo dispensa in genere dall’obbligo di ricercare l’effetto lirico; l’espressione diventa più o meno schematica, la tensione tra le parole scompare, in genere non si bada più molto, da un punto di vista lirico, alla scelta delle parole, in quanto la lirica ha un proprio corrispettivo per l’arguzia. Il poeta ora è il rappresentante solo di se stesso. Con GEORGE la linea pontificale, sotto la maschera del disprezzo per la politica diventa apertamente controrivoluzionaria, vale a dire non si limita ad essere essa stessa reazionaria, ma opera attivamente a favore della controrivoluzione. George è privo della dimensione sensibile e la sostituisce con una raffinata arte culinaria. Anche KARL KRAUS, il rappresentante della seconda linea, è privo della dimensione sensibile perché è puramente spirituale. L’unilateralità di entrambe le linee rende sempre più difficile un giudizio. Nel caso di GEORGE si ha un soggettivismo portato agli estremi che vorrebbe presentarsi come oggettivo per il fatto che si presenta in maniera formalmente classicistica. In realtà, con tutta la sua apparente soggettività, la lirica di KRAUS è però più prossima all’oggetto, regge più cose. KRAUS è più debole di GEORGE, questo è il guaio. Altrimenti gli sarebbe tanto superiore”. Brecht, B., Diario…op. cit., p. 153.
[8] Il carattere dell’intera opera lirica di Brecht può essere identificato alla luce di quella contraddizione che Walter Benjamin ha colto nel Breviario: “in parole alle quali, per la loro forma poetica, viene attribuita la facoltà di sopravvivere all’imminente fine del mondo, si fissa il gesto di tracciare una scritta su uno steccato, una scritta che il perseguitato butta giù in fretta”. Benjamin, W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di Filippini, E., Einaudi, Torino 1966, p. 157.
[9] Brecht, B., Diario…op. cit., p. 244.
[10] Su questa tematica e sulla sostanziale serenità dell’opera di Brecht, pur nella fedele riproduzione della tragicità della società moderna, cfr. Bloch, E., Il principio Speranza, vol. I, tr. it. di De Angelis, E., Garzanti, Milano 1995, pp. 475-496 e Zwerenz, G., Aristotelische und Brechtsche Dramatik. Versuch einer ästhetischen Wertung, Greifenverlag, Rudolstadt 1956.