Il giovane Hegel e la Rivoluzione francese

Questa indivisa sostanza della libertà assoluta ascende con la Rivoluzione francese al trono del mondo, senza che potere alcuno sia stato in grado di resisterle. Fu un’alba stupenda. Tutti gli esseri pensanti festeggiarono concordemente quest’epoca. Dominò in quel periodo una sublime commozione, l’entusiasmo dello spirito fece rabbrividire la terra, come se allora per la prima volta si fosse attuata la vera conciliazione dello spirito col mondo.


Il giovane Hegel e la Rivoluzione francese

La concezione di Georg, Wilhelm, Friedrich Hegel, per cui gli avvenimenti della Rivoluzione francese sono solo il primo momento di un processo più vasto, – cioè la prima realizzazione storica dell’ideale di una società umana libera, edificata su princìpi razionali – si verrà rafforzando con l’evolversi sempre più preoccupante degli eventi d’oltre Reno che porteranno all’affermarsi del Comitato di Salute Pubblica e, poco dopo, del “grande Terrore”.

Hegel, come del resto Hölderlin e Schelling, ma anche Goethe, Schiller, Herder e i principali intellettuali tedeschi dell’epoca non avrà dubbi nella condanna delle pratiche politiche della dittatura giacobina – che sembravano tradire i grandi ideali originari da cui era partito il processo rivoluzionario – ma, tuttavia, a differenza della maggioranza degli altri intellettuali, non abiurerà i princìpi fondanti la Rivoluzione, cui aderirà – con diverse sfumature – sino alla morte. A tal proposito ha osservato Joachim Ritter: “né l’esperienza del Terrore né l’esame critico della incapacità della Rivoluzione di giungere a positive e stabili soluzioni politiche, hanno potuto fare di Hegel un avversario del moto francese. Il positivo dominio dei problemi politici che con esso sono entrati nella storia, resta per lui il compito non eludibile a cui l’epoca è posta. Hegel ha sempre detto sì alla Rivoluzione francese” [1]. Anche in seguito, osserva lo studioso che più si è soffermato su tale problematica, “nella medesima sezione della Fenomenologia, che pone la Rivoluzione sotto il concetto del Terrore, Hegel mantiene ferma la tesi della sua necessità e del diritto storico che la rendeva ineluttabile: «Questa indivisa sostanza della libertà assoluta ascende al trono del mondo, senza che potere alcuno sia stato in grado di resisterle» [Hegel, G. W. F., Die Phänomenologie des Geistes, tr.it. di De Negri, E., Fenomenologia dello spirito, Nuova Italia, Scandicci 1993, vol. II. p. 126]” [2]. Del resto, anche Franz Rosenzweig – per citare un altro importante studioso non sospettabile di simpatie rivoluzionarie – ricorda, rifacendosi al primo biografo di Hegel Rosenkranz, come “ancora a Berlino – a quanto sembra – egli raccontava nella cerchia dei discepoli, che ogni anno, nella ricorrenza dell’assalto alla Bastiglia, brindava alle idee del 1789. Comunque sia, nei corsi universitari pubblicati nelle sue opere, troviamo queste parole: «Fu un’alba stupenda. Tutti gli esseri pensanti festeggiarono concordemente quest’epoca. Dominò in quel periodo una sublime commozione, l’entusiasmo dello spirito fece rabbrividire la terra, come se allora per la prima volta si fosse attuata la vera conciliazione dello spirito col mondo»” [3]. E ancora, per dirla con uno dei più grandi interpreti di Hegel, Bernard Bourgeois, il filosofo “non ritornerà mai sul suo entusiasmo per il «magnifico sorgere del sole» del 1789, che annunciava «la riconciliazione effettiva del divino con il mondo»” [4].

Dunque, di fronte alle violenze perpetuate dal Comitato di Salute Pubblica nel periodo del “grande terrore”, che gli appariva animato da un astratto spirito nichilistico, Hegel matura un atteggiamento critico nei riguardi di ogni pratica utopista volta a imporre con la forza la libertà a un popolo che, nella sua determinatezza storica, non si dimostra ancora capace di accoglierla e realizzarla concretamente. Inoltre, la consapevolezza dell’intima contraddittorietà che attraversa il processo rivoluzionario – come ogni significativo evento storico – doveva portare il giovane Hegel a considerare sempre più la necessità tanto di una maggiore gradualità nel suo svolgimento, quanto di un ampliamento sul piano culturale della rivoluzione politica. Ciò lo indurrà a riflettere realisticamente sull’esigenza che ha la ragione, per affermarsi sulla positività storica, di operare tanto sul piano sensibile della prassi quanto su quello della rappresentazione

Alla base delle considerazioni di Hegel su una nuova religione popolare [Volksreligion] vi è, dunque, il tentativo di far convergere in un nesso unitario l’esigenza della piena realizzazione degli ideali della Rivoluzione Francese in una comunità etica, la rivoluzione antidogmatica della concezione kantiana della religione, la nostalgia per un mondo anteriore alla lacerazione del corpo sociale – al moderno dualismo fra ragione e sensibilità, religione e morale e, in prospettiva, fra il piano universale della politica e gli interessi particolari dell’economia [5].  L’interesse per un’educazione religiosa del popolo, variante di non poco conto dell’educazione estetica dell’uomo teorizzata da Schiller, correlata a una mitologia della ragione in grado di incarnare nello spirito del popolo [Volksgeist] le conquiste dell’illuminismo e della Rivoluzione francese, portano Hegel a una spietata disamina critica del cristianesimo, degradato da religione rivelata a religione storica e non più sottratto alla critica del positivo.

Rispetto alla concezione kantiana della religione, dunque, egli radicalizza la critica dell’esistente, di un cristianesimo che, ponendo nell’al di là di un mondo sovrasensibile la realizzazione del regno di Dio, costituisce un oggettivo ostacolo alla sua realizzazione, alla sua attuazione intramondana [6]. Decisiva è anche in questo caso l’influenza di Rousseau, per il quale lo stesso cristianesimo primitivo, ricondotto allo spirito evangelico, resta inadeguato – per la sostanziale estraneità agli interessi mondani della vita politica – al suo ideale di una religione civile, capace di farsi carico dell’educazione del cittadino e di costituire il legame fondamentale su cui si fonda l’eticità dello Stato [7].

Inoltre, gli avvenimenti della Rivoluzione francese suscitano in Hegel, come in molti intellettuali tedeschi, l’ideale nazionale (al tempo rivoluzionario) che si traduce immediatamente – come mostrano chiaramente i primi scritti politici degli anni di Berna – nell’esigenza di reagire alla decadenza dell’impero germanico, i cui ordinamenti feudali hanno smembrato e dissolto il popolo in una miriade di staterelli, spesso retti ancora da prìncipi dispotici. Così Hegel, in radicale opposizione all’intimismo pietista e alla concezione soggettivistica che verrà sviluppando la scuola romantica, sostiene che “quando si parla di religione pubblica si intende con ciò parlare dei concetti di Dio e di immortalità, e di quel che è con essi in relazione, nella misura in cui costituiscono le convinzioni di un popolo ed hanno influenza sul suo modo di agire e di pensare; ne fanno inoltre parte i mezzi con cui queste idee sono insegnate al popolo e sono fatte penetrare nel cuore” [8].

La religione pubblica, popolare, concretizzandosi nella religione nazionale [9] di un determinato popolo storico, acquista una chiara connotazione politica di riscatto e lotta al dispotismo in tutte le sue forme. Per Hegel, dunque, essa consiste “(…) principalmente, nell’elevazione e nobilitazione dello spirito di una nazione, per cui il sentimento della sua dignità, così sovente sopito, viene risvegliato nella sua anima; ed allora il popolo non si umilia e non si lascia umiliare” [10]. Nella riflessione hegeliana, al di là degli stimoli offerti dagli avvenimenti storici, convergono sia gli ideali cosmopolitici e l’afflato antidispotico degli scritti storico-politici, che proprio in questi anni Kant veniva componendo, sia la Professione di fede del vicario savoiardo esposta all’interno del Contratto Sociale di Rousseau.

Note:

[1] Ritter, Joachim, Hegel und die französische Revolution, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1965, tr. it. di Gründer, K., e Cantillo, G., Hegel e la rivoluzione francese, Guida, Napoli 1970, p. 28.

[2] Ibidem.

[3] Rosenzweig, Franz, Hegel e lo stato [1920], ed. italiana a cura di Bodei, Remo, Il Mulino, Bologna 1976, p. 34.

[4] Bourgeois, Bernard, Hegel à Francfort. Judaisme, Christianisme, Hegelianisme, J. Vrin, Paris 1970, pp. 10-11. Sulla fedeltà di Hegel allo spirito della Rivoluzione francese rinviamo anche al più signficativo studioso italiano del giovane filosofo, cfr. Lacorte, Carmelo, Il primo Hegel, Firenze, Sansoni 1959, p. 176.

[5] Anche in questo caso sembra forte la presenza di motivi rousseauiani. “La denuncia della scissione di scienza e di morale, di civiltà e di cultura, e la conseguente descrizione del felice «stato di natura» – per altro esplicitamente inteso dallo stesso Rousseau come momento ideale e non storico della vita dell’umanità – si sviluppa via via, in connessione con l’esigenza di indicare il cammino per un recupero del retto sapere e per l’edificazione di una società fondata sulla giustizia e sulla virtù.” Ivi, p. 269.

[6] Come è stato giustamente osservato, dal traduttore italiano degli Scritti giovanili di Hegel: “ciò che unicamente diversifica Hegel da Kant, ma che pure in questa diversificazione pone Hegel come un kantiano più conseguente di Kant stesso, è la caduta dell’illusione (o piuttosto dell’ipocrisia) che la religione purificata da tutti gli elementi positivi possa ancora identificarsi con il cristianesimo.” Hegel, Georg, Wilhelm, Friedrich, Scritti giovanili I, tr. it. di Mirri, Edoardo, Guida, Napoli 1993, p. 47. Anche in questo caso, particolarmente importante sembra essere l’influenza di Rousseau che, nel Contratto sociale, aveva contrapposto tanto alla religione naturale, quanto a quella nazionale la religione del prete che ha a suo fondamento la dualistica contrapposizione di politica e religione e che viene più o meno fatta coincidere con il cristianesimo, storicamente responsabile di aver distolto l’uomo dagli interessi intramondani.

[7] La presenza di Rousseau nelle riflessioni hegeliane di questi anni è colta anche da Finelli, che ha parlato della “eco della tematica della «religione civile» di Rousseau, il quale com’è noto nel Contratto sociale scrive della necessità di una religione che abbia come scopo, non la venerazione, da parte del corpo politico nato da libero contratto, di un qualche Dio, bensì che ogni cittadino ami il proprio dovere e coltivi il sentimento di una virtuosa socialità.” Finelli, Roberto, Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel (1770-1801), Roma, Editori Riuniti 1996, p. 62.

[8] Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Gesammelte Werke, in Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, a cura della Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner dal 1968, vol. I, p. 86, Id., Scritti giovanili I, tr. it. di Mirri, E., Guida, Napoli 1993, pp. 171-72.

[9] Questa ulteriore concretizzazione della religione naturale e razionale è così descritta da Lacorte: “educatrice degli uomini alla vera umanità, e specchio di questa quand’essa è realizzata, la Volksreligion deve conciliare ed armonizzare insieme le esigenze del cuore con quelle della ragione pratica, l’intelletto e la memoria con la sensibilità e la fantasia, la riflessione col sentimento; espressione e guida della civiltà di un popolo, essa deve innestarsi al grado di sviluppo da questo raggiunto. Per riuscire ad essere tale, la Volksreligion si configura come una religione nazionale pubblica, il cui contenuto oggettivo deve essere costituito da dottrine razionali e da pratiche essenziali che soddisfino le esigenze del cuore, della fantasia e della sensibilità, contenuto che deve poter diventare patrimonio soggettivo, aderente ai bisogni degli uomini; esso deve poter inoltre rispondere a tutte le esigenze concrete della vita pratica di un popolo e in particolare a quelle politiche” Lacorte, C., Il primo…, op. cit., p. 312.

[10] Hegel, G.W.F., Gesammelte…, op. cit. vol. I, p. 86; Scritti…, cit., p. 172.

03/03/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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