“Cosa significa dire che una certa azione, un certo modo di vivere, un certo atteggiamento o costume sono «naturali» o che essi invece sono «contro natura»? Ognuno, nel suo intimo, crede di sapere esattamente cosa ciò significhi, ma se si domanda una risposta esplicita e motivata si vede che la cosa non è poi così facile come poteva sembrare” [1]. Antonio Gramsci non ritiene la spontaneità, la naturalità – intesa nel senso di immediatezza – un valore in sé, in quanto se non sono disciplinate esse possono scadere nell’individualismo e addirittura nell’idiotismo. Tuttavia ritiene l’esaltazione romantica per la naturalezza giustificata “storicamente in quanto nacque in opposizione con un certo conformismo essenzialmente «gesuitico»: cioè un conformismo artificioso, fittizio” (14, 61: 1719) al servizio degli interessi dei pochi.
Gramsci considera valida solo entro certo limiti l’opinione comune secondo cui: “tutto ciò che esiste è «naturale» esista” e, dunque, ogni tentativo di trasformazione non può interrompere “la vita, perché le forze tradizionali continueranno ad operare e appunto continueranno la vita” (15, 6: 1760). Gramsci critica tale opinione comune in quanto portatrice di una concezione determinista del processo storico che sottovaluta l’intervento della soggettività sociale organizzata. In realtà “niente di ciò che è, è naturale (nel senso bislacco della parola) ma esiste perché ci sono certe condizioni il cui venir meno non resta privo di conseguenze. Così il moto si perfeziona, perde i caratteri di arbitrarietà, di «simbiosi», diventa davvero indipendente, nel senso che per avere certe conseguenze crea le premesse necessarie e anzi sulla creazione di queste premesse impegna tutte le sue forze” (15, 6: 1760-61). Perciò Gramsci rigetta la “teoria fatalistica di quei gruppi che condividono la concezione della «naturalità» secondo la «natura» dei bruti” (16, 12: 1878), per cui l’ambiente sociale sarebbe la causa dell’agire umano. In tal modo, infatti, si occulta la responsabilità personale dietro l’“astratta e irreperibile responsabilità sociale” (ibidem), negando la possibilità stessa dello sviluppo storico, dal momento che il singolo potrebbe mutare solo se tale cambiamento fosse preceduto da quello dell’ambiente che lo circonda, il quale, non essendo prodotto dell’agire degli individui, sarebbe il prodotto di un destino provvidenziale. Se questo concetto fosse vero, il mondo e la storia sarebbero sempre immobili. Se infatti l’individuo, per cambiare, ha bisogno che tutta la società si sia cambiata prima di lui, meccanicamente, per chissà quale forza extraumana, nessun cambiamento avverrebbe mai. L’ambiente può spiegare il comportamento degli individui passivi dal punto di vista storico, ma non può giustificarlo, poiché a parere di Gramsci la storia è la “continua lotta di individui e di gruppi per cambiare ciò che esiste in ogni momento dato, ma perché la lotta sia efficiente questi individui e gruppi dovranno sentirsi superiori all’esistente” (ibidem). Egualmente Gramsci rifiuta ogni tentativo di naturalizzare la situazione d’arretratezza di un paese, deresponsabilizzando la classe dirigente in nome di “oggettive condizioni naturali”. Così, per fare un esempio emblematico, a suo avviso: “se è vero che i rapporti generali internazionali, così come si vengono sempre più irrigidendo dopo il 1929, sono molto sfavorevoli all’Italia (specialmente il nazionalismo economico ed il «razzismo» che impediscono la libera circolazione non solo delle merci e dei capitali ma soprattutto del lavoro umano), può anche essere domandato se a suscitare e irrigidire tali nuovi rapporti non abbia contribuito e contribuisca tuttora la stessa politica italiana. La ricerca principale pare debba essere in questo senso: il basso saggio individuale di reddito nazionale è dovuto alla povertà «naturale» del paese oppure a condizioni storico-sociali create e mantenute da un determinato indirizzo politico che fanno dell’economia nazionale una botte delle Danaidi? (…) la povertà relativa «naturale» dei singoli paesi nella civiltà moderna (e in tempi normali) ha una importanza anch’essa relativa tutt’al più impedirà certi profitti marginali di «posizione» geografica. La ricchezza nazionale è condizionata dalla divisione internazionale del lavoro e dall’aver saputo scegliere, tra le possibilità che questa divisione offre, la più razionale e redditizia per ogni paese dato. Si tratta dunque essenzialmente di «capacità direttiva» della classe economica dominante, del suo spirito d’iniziativa e di organizzazione. (…) L’emigrazione e la colonizzazione seguono il flusso dei capitali investiti nei vari paesi e non viceversa” (19, 6: 1990-91). È la forma stessa di sovrapproduzione che assume la crisi economica nelle società capitaliste a mostrare come il problema non sia “di ricchezza «naturale» (…), ma di organizzazione sociale e di trasformazione delle materie prime per certi fini e non per altri. Che si tratti di organizzazione e di indirizzo politico-economico appare anche dal fatto che ogni paese a civiltà moderna ha avuto «emigrazione» in certe fasi del suo sviluppo economico, ma tale emigrazione è cessata e spesso è stata riassorbita” (ivi: 1991).
Il problema è che, con il termine “naturale”, si intende generalmente qualcosa di eterno, di normale, in quanto, “i modi di vita appaiono a chi li vive come assoluti, «come naturali»” (14, 67: 1727). Si tratta in realtà di una “seconda natura”, dell’insieme dei costumi che in una determinata epoca divengono patrimonio comune di un popolo o strato sociale. In quest’ottica l’intera storia dello sviluppo tecnico e industriale è interpretabile come una lotta contro la natura immediata dell’uomo, “un processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell’industrialismo” (22, 10: 2160-61). Tale lotta può avere risultati duraturi solo se non è condotta meccanicamente dall’esterno, ma riesce a far sì che le proprie regole divengano una “seconda natura” per gli uomini che vi si sottomettono spontaneamente. L’attività industriale richiede, infatti, “un processo di adattamento psico-fisico a determinate condizioni di lavoro, di nutrizione, di abitazione, di costumi ecc. che non è qualcosa di innato, di «naturale», ma domanda di essere acquisito, mentre i caratteri urbani acquisiti si tramandano per ereditarietà o vengono assorbiti nello sviluppo dell’infanzia e dell’adolescenza” (22, 3: 2149). Tale sviluppo della società passa attraverso il regolamento o piuttosto la repressione degli istinti sessuali “naturali”. La contraddizione che tale processo, imposto dall’esterno, ha prodotto, lo fa spesso considerare “innaturale”, producendo di conseguenza l’appello a tornare alla natura. Gramsci considera la stessa psicoanalisi “un modo di criticare la regolamentazione degli istinti sessuali in forma talvolta «illuministica», con la creazione di un nuovo mito del «selvaggio» sulla base sessuale” (ivi: 2148).
Inoltre, Gramsci arriva a mettere in discussione l’esistenza stessa di una natura “prima”, immediata, poiché a suo modo di vedere la natura non è un che di “fisso, immutabile e oggettivo” (16, 12: 1874). Di contro al marxismo volgare, Gramsci considera la “materia” non “nel significato quale risulta dalle scienze naturali (…) né nei suoi significati quali risultano dalle diverse metafisiche materialistiche” (11, 34: 1442). Essa deve, al contrario, essere considerata: “socialmente e storicamente organizzata per la produzione e quindi la scienza naturale come essenzialmente una categoria storica” (ibidem), un rapporto fra uomini e classi sociali. Perciò si chiede se la riduzione crociana della natura a categoria economica, non potrebbe, depurata “dalle sue superstrutture speculative”, essere ridotta “in termini di filosofia della praxis” (ivi, 1443) ed essere dimostrata da essa storicamente dipendente. Gramsci si domanda, inoltre, se sia possibile parlare di “scoperta” in riferimento a forze naturali preesistenti l’attività umana o se piuttosto occorra considerarle ‘creazioni’ che sono strettamente legate agli interessi della società, allo sviluppo e alle ulteriori necessità di sviluppo delle forze produttive?” (ibidem). A suo avviso le proprietà di ogni tipo di materiale non resta sempre lo stesso e una forza naturale, prima di essere assoggettata ai fini dell’uomo è come se, in qualche modo, non esistesse. Ad esempio l’elettricità, “è storicamente attiva, ma non come mera forza naturale (…), ma come un elemento di produzione dominato dall’uomo” (ibidem). Come forza naturale, pur esistendo prima di divenire una forza produttiva per l’uomo, “non operava nella storia, ed era un argomento di ipotesi nella storia naturale (e prima era il «nulla» storico, perché nessuno se ne occupava e anzi tutti la ignoravano)” (ivi: 1443-44). Per cui ogni interpretazione causalista, sulla base del modello offerto dalle scienze naturali, della storia umana, è rigettata da Gramsci come arbitraria o ideologica.
Allo stesso modo, secondo Gramsci, “la filosofia non può essere ridotta ad una naturalistica «antropologia», cioè l’unità del genere umano non è data dalla natura «biologica» dell’uomo; le differenze dell’uomo che contano nella storia non sono quelle biologiche (…) e neppure l’ «unità biologica» ha mai contato gran che nella storia (l’uomo è quell’animale che ha mangiato se stesso, proprio quando era più vicino allo «stato naturale», cioè quando non poteva moltiplicare «artificiosamente» la produzione dei beni naturali)” (7, 35: 884).
La natura dell’uomo non è la stessa nelle differenti epoche storiche, in quanto “si può anche dire che la natura dell’uomo è la «storia» (…) se appunto si dà a storia il significato di «divenire», in una «concordia discors» che non parte dall’unità, ma ha in sé le ragioni di una unità possibile”. “Le concezioni di «spirito» delle filosofie tradizionali, come quella di «natura umana» trovata nella biologia, dovrebbero spiegarsi come «utopie scientifiche» che sostituirono la maggior utopia della «natura umana» cercata in Dio (e gli uomini – figli di Dio) e servono a indicare il travaglio continuo della storia, un’aspirazione razionale o sentimentale ecc.” (7, 35: 885).
Note:
[1] Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, Vol. III, p. 1874. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.