Da Ustica al carcere di Turi
Arrestato nel 1926, prima del processo Gramsci viene confinato con altri prigionieri politici, fra cui lo stesso Bordiga, a Ustica, dove con altri compagni lavora a organizzare dei corsi di formazione a tutti i livelli, destinati sia ai prigionieri che ai proletari dell’isola siciliana.
Nel 1928 inizia infine il processo di fronte al Tribunale speciale del fascismo che lo condanna a oltre vent’anni di carcere, per motivi essenzialmente ideologici, che trascorre nella casa penale di Turi in provincia di Bari. L’anno successivo riesce a ottenere, dopo una tenace lotta con le autorità carcerarie una cella individuale e la possibilità di scrivere su un numero limitato di quaderni che gli vengono via via concessi. Gramsci inizia così la stesura dei Quaderni del carcere cui dedicherà la quasi totalità delle proprie energie fino a che le condizioni fisiche, sempre più precarie, glielo consentiranno.
Il prigioniero si rende conto, ben presto, di avere poco tempo a disposizione visto che la sua salute già compromessa non può che, in tempi relativamente rapidi, sensibilmente peggiorare viste le pessime condizioni di vita nel carcere fascista. Perciò, Gramsci decide di utilizzare nel modo più razionale tutto il tempo che gli resta a disposizione per contribuire, come meglio può nelle nuove avverse condizioni in cui si trova, alla lotta per l’emancipazione del genere umano che, in quelle condizioni storiche di incipiente crisi del modo di produzione capitalistico, passa necessariamente attraverso un processo rivoluzionario.
I Quaderni del carcere
A tale scopo Gramsci non può che partire, secondo l’insegnamento di Machiavelli, dall’analisi più realisticamente spietata delle condizioni che hanno portato al fallimento del primo grande tentativo di realizzare una rivoluzione economico-sociale, funzionale alla realizzazione di una società socialista, nel mondo occidentale. Il che implica necessariamente una altrettanto spietata critica e, al contempo, autocritica della tattica seguita dal movimento rivoluzionario occidentale e, più nello specifico italiano, che si è dimostrata sotto diversi aspetti fallimentare.
Il peso della sconfitta non può che pesare sulle spalle di Gramsci, come di tutti i rivoluzionari in occidente, visto che la vittoriosa rivoluzione d’ottobre e tutto quanto ne era seguito era stato fatto in funzione di favorire l’affermazione del socialismo in occidente, ovvero in quei paesi a capitalismo più o meno avanzato, in cui sarebbe stato possibile realizzare una società realmente socialista. Tuttavia, mente i rivoluzionari dei paesi orientali, che daranno vita all’Unione sovietica, erano riusciti bene o male a praticare i loro obiettivi, in occidente – e in particolare in Germania, Austria e Italia dove vi erano le condizioni più favorevoli – il processo rivoluzionario è nei fatti stato sconfitto.
Gramsci inizia questo importantissimo processo di autocritica per rilanciare su basi più scientifiche la prospettiva della Rivoluzione in occidente, i cui risultati saranno miracolosamente sottratti al nemico fascista, messi in salvo in Unione sovietica e poi dopo la sconfitta del nazi-fascismo approntati per la pubblicazione a opera dei suoi eredi nel Partito Comunista italiano. In primo luogo, dopo la liberazione, usciranno in volume le Lettere dal carcere, che avranno un eccezionale successo non solo dal punto di vista filosofico-politico, ma anche letterario aggiudicandosi il più ambito riconoscimento in questo campo, tanto che persino il liberale, e fervente anti-comunista, Benedetto Croce si vedrà costretto a recensirle favorevolmente.
Negli anni immediatamente seguenti iniziano a uscire raggruppati tematicamente, secondo le indicazioni lasciate dallo stesso Gramsci, gli scritti carcerari, portando a termine quell’opera di risistemazione delle note sparsi e dell’infinita serie di citazioni e appunti presi nel periodo dello studio nei primi anni del carcere, per poi passare, quando le forze cominciavano a venir meno a rielaborarli in quaderni tematici, senza riuscire, a causa della malattia, a portare a termine l’opera. Così quest’opera di risistemazione sarà portata a termine sotto la supervisione di Togliatti e così i Quaderni potranno essere pubblicati nella prima edizione presso l’editore Einaudi fra il 1948 e il 1951.
Come si vedrà chiaramente – quando finalmente negli anni settanta verrà pubblicata l’edizione critica a opera dell’intellettuale comunista e marxista V. Gerratana – la maggior parte dei Quaderni, a parte quelli che Gramsci aveva cominciato a ordinare e rielaborare tematicamente, appaiono a prima vista un’accozzaglia asistematica di annotazioni sparse sui più svariati argomenti, generalmente legati alle molteplici e apparentemente disordinate letture che Gramsci faceva dei libri e riviste che riusciva a farsi recapitare in carcere. Il Partito, infatti, e più in generale l’Internazionale, favorì tale opera mettendo a disposizione del prigioniero – tramite il grande economista Sraffa suo amico e incaricato in incognito dal partito – un conto illimitato presso una importante libreria, anche se le opere richieste da Gramsci dovevano sempre fare i conti con la pesante censura operata, a monte e a valle, dalle autorità fasciste.
Tale censura, ovviamente, incide in modo pesantissimo sulla forma adottata da Gramsci nelle Lettere e nei Quaderni del carcere, in cui dovrà utilizzare al meglio il linguaggio degli schiavi, teorizzato da Lenin, per poter trasmettere – anche attraverso la necessaria autocensura, atta a evitare i colpi delle censura – in modo generalmente indiretto il proprio pensiero rivoluzionario. Ciò ha consentito a diversi intellettuali tradizionali di affrontare l’opera gramsciana da un puro punto di vista teorico, mirando a depoliticizzarla al massimo, giocando spesso sul fatto che Gramsci aveva scritto in una epistola che intendeva dedicarsi a un qualcosa che avesse valore eterno. Evidentemente con ciò Gramsci intendeva qualcosa che gli consentisse di lasciare un segno inestinguibile nella storia della lotta per l’emancipazione del genere umano, anche nella situazione disperata in cui si trovava una volta finito nelle grinfie dei suoi più feroci nemici e nonostante che, le già precarie condizioni di salute, gli facevano intuire l’avvento di una morte necessariamente prematura.
Tali intellettuali tradizionali così facendo tradiscono non solo lo spirito del pensiero di Gramsci, che non solo aveva abbandonato una possibile carriera universitaria per dedicarsi all’attività politica, ma aveva compreso che suo compito fosse essenzialmente il contribuire a formare intellettuali organici alla classe rivoluzionaria proletaria, proprio per sostituire alla direzione dell’organizzazione dei lavoratori gli infidi intellettuali tradizionali. Infine, oltre a tradirne lo spirito tali intellettuali tradizionali, nonostante amino ammirarsi la lingua discettando di filologia, tradiscono nel modo più palese la stessa lettera del testo gramsciano, dimenticando che Gramsci definisce il marxismo come filosofia della praxis, non solo in quanto è costretto a parlare il linguaggio degli schiavi, cosa che naturalmente gli intellettuali tradizionali tendono a dimenticare.
Dunque, sfogliando in particolare il primo volume dell’edizione critica, dove sono raccolte le note carcerarie in rigoroso ordine cronologico, e non logico come nell’edizione supervisionata da Togliatti, pare di trovarsi dinanzi una serie di annotazioni sparse, anche perché Gramsci pare interessarsi e pretendere di potersi occupare di quasi tutto lo scibile umano. Ma, in realtà, questo apparente spirito analitico enciclopedico è sempre portato avanti in un’ottica unitaria, ossia il suo riflettere anche sui più diversi aspetti della cultura è sempre ricompreso in un’unica prospettiva teleologica, la prospettiva rivoluzionaria, parola che farà sicuramente sobbalzare sulla sedia un incauto intellettuale tradizionale che si fosse inoltrato sino a questo punto dell’articolo. Al contrario, il piano sovrastrutturale, culturale, è per Gramsci decisivo – di contro alle concezioni meccanicistiche ed economiciste del marxismo, più o meno consapevolmente condizionate dall’ideologia dominante positivista – proprio perché ha nei paesi a capitalismo avanzato una funzione di indubbio rilievo per chi si interroghi sul motivo del fallimento della rivoluzione in occidente, con il fine di rielaborarne un concetto che potrebbe rivelarsi, nell’atto della sua traduzione pratica, vincente.
Quindi, è proprio questo lo scopo finale, verso cui tendono tutte le sue apparentemente così disparate riflessioni dal carcere. È questo, dunque. il filo d’Arianna che consente di orientarsi nella struttura apparentemente labirintica degli scritti della piena maturità composti in carcere. Sia che Gramsci si occupi di filosofia idealista, o di filosofia politica, di storia, economia, letteratura o costume, al fondo di tutte queste frammentarie e disparate riflessione c’è un fondamento comune che le tiene insieme, ossia condurre sino in fondo la critica e autocritica sui motivi del sostanziale fallimento della Rivoluzione in occidente, per poterla rilanciare da una nuova prospettiva, che sappia far tesoro dei successi e degli errori del primo e necessariamente fallito assalto al cielo. Tanto più che sbagliare è umano, mentre ostinarsi e perseverare nei propri errori è necessariamente diabolico, mentre solo riflettendo autocriticamente è possibile fare dei passi in avanti, dato che solo sbagliando l’uomo è in grado di imparare.
A partire dall’analisi anche analitica degli errori compiuti e assolutamente da non ripetere, Gramsci vuole sviluppare una nuova riflessione unitaria, dal momento che come osservava Lenin – che Gramsci intendeva tradurre ovvero ri-declinare nel contesto occidentale e più nello specifico italiano – “senza teoria rivoluzionaria non ci può essere una prassi politica rivoluzionaria”. Si tratta, dunque, di una riflessione teorica che, pur sviluppandosi nelle più diverse direzioni, mantiene un fine unitario, ossia comprendere come praticare l’obiettivo rivoluzionario non in astratto, come pensavano gli opportunisti di sinistra alla Bordiga, come se ci fosse un modello unico, quello bolscevico – che non a caso era il nome della rivista diretta da Bordiga – che sarebbe bastato applicare nel modo più fedele in ogni contesto per conseguire l’obiettivo.
Per Gramsci, proprio perché questo modello astratto non aveva per niente funzionato, occorre ripensare a fondo come va condotto il processo rivoluzionario nel contesto specifico in cui si opera. Non si tratta tanto del contesto nazionale – per quanto anche esso abbia le sue specificità – come crederà Togliatti portando alle estreme conseguenze il discorso della via nazionale al socialismo fino a tradire Gramsci incagliandosi in approdi revisionisti – ma, al contrario, riflettendo sempre in un’ottica internazionalista, per quanto da tradurre nel contesto del mondo occidentale, ovvero nel blocco storico dei paesi a capitalismo avanzato. In tali paesi, dove avrebbe dovuto diffondersi la rivoluzione per poter affermare a livello internazionale il modello socialista e poterlo realizzare compiutamente, dal momento che la Russia – come sapevano bene i bolscevichi e in particolare Lenin – era un paese arretrato e la maggioranza delle repubbliche socialiste sovietiche lo erano anche di più. Dunque lì il socialismo, almeno teoricamente, non si sarebbe potuto realizzare, se non passando attraverso un lungo e complesso processo di transizione mediante lo sviluppo di una forma inedita di capitalismo di Stato, che Lenin aveva cominciato a sperimentale durante la fase della Nep.