Dall’effetto di straniamento alla drammaturgia-non aristotelica

Lo sviluppo dell’estetica di Brecht dal teatro epico, passando per i drammi didattici, sino all’elaborazione di una drammaturgia non-aristotelica.


Dall’effetto di straniamento alla drammaturgia-non aristotelica Credits: https://www.teatrionline.com/2012/08/la-madre-di-bertolt-brecht/

Alla nuova funzione straniante che Bertolt Brecht assegna all’attore, fa corrispondere, sul piano strutturale del dramma, il montaggio. In effetti, il nuovo teatro epico di Brecht è contraddistinto da una messa in serie degli eventi opposta a quella del dramma naturalistico tradizionale. A dominare la serie non è più la rigida necessità evoluzionistica o la semplice contiguità casualmente empirica degli avvenimenti, ma la logica peculiare della costruzione drammaturgica. Tale logica è caratterizzata dalla rottura del flusso lineare degli eventi che, spezzato in più punti, può essere riconfigurato in base alle necessità dell’azione drammatica. È proprio il montaggio a permettere questa nuova configurazione. Ciò consente, in effetti, di realizzare quel procedimento per “salti”, a “curve” che, scardinando ogni concezione della temporalità meramente quantitativa, mette in evidenza l’insopprimibile carattere qualitativo del tempo della narrazione epica. Nella sua libertà di fronte alla sostanza, nella sua disponibilità accresciuta al commento alla considerazione razionale, la drammaturgia epica era particolarmente indicata a mediare al suo spettatore una visione del mondo (Weltanschauung). Tra scena e spettatore si interponeva, infatti, l’io epico, colui che sta al di sopra dell’azione drammatica: il cantore, il narratore, il regista etc. Egli domina gli avvenimenti, determina lo svolgimento epico dell’azione in quanto rende funzionali spazio e tempo alla dimostrazione della sua ipotesi, funge da termine medio tra scena e spettatori e, infine, da un punto sopraelevato può commentare l’azione scenica. Può, così, rivolgersi direttamente allo spettatore e portarlo a riflettere sul suo ruolo, la sua posizione e la sua funzione.

All’inizio degli anni Trenta, quindi, Brecht possedeva già i principali strumenti formali che saranno alla base delle sue opere mature. La sua rivoluzione teorica della forma del teatro è a grandi linee già compiuta. Tuttavia la fase sperimentale della sua produzione è ben lungi dall’essere conclusa. Le innovazioni messe a punto, grazie all’introduzione di elementi del genero epico all’interno del dramma, dovevano ora spingerlo a adeguare a esse la stessa drammaturgia tradizionale. Anche in questo caso la riflessione teorica sarà preceduta dalla produzione scenica che da un lato anticiperà sul piano empirico la teoria e dall’altro le indicherà, attraverso le sue mancanze, la strada ancora da percorrere. 

Attraverso questa radicale destrutturazione dei fondamenti su cui si basava la produzione precedente, una volta portata definitivamente a compimento, ha offerto a Brecht la possibilità di sperimentare una nuova strutturazione. All’abbondanza, alla prodigalità de L’opera da tre soldi fa seguito così una draconiana economia di vocabolario, un’implacabile rigidità nella costruzione. Nascono così i drammi didattici che vogliono essere dei modelli utili non solo alla formazione degli attori, ma anche a rafforzare le facoltà conoscitive del pubblico.

La concezione epica del dramma ha trovato, così, la sua prima cosciente applicazione nei Lehrstücke, che sono stati dei veri e propri esperimenti drammatici finalizzati a chiarire la nuova teoria non solo al pubblico, ma allo stesso Brecht. Essi, infatti, hanno anticipato sul piano scenico e hanno messo in opera esemplarmente la concezione epica del teatro. Ricostruire i legami tra lo sviluppo della teoria epica del teatro e la componente didattica, che ha costituito uno dei tratti costanti dell’intera produzione brechtiana, è compito della massima importanza. Troppo spesso questi due aspetti dell’opera di Brecht sono stati astrattamente separati, con il risultato di relegare la componente didattica della drammaturgia brechtiana a una semplice parentesi giovanile.

Questa fase è, nel bene e nel male, strettamente connessa con lo sviluppo in senso marxista della Weltanschauung brechtiana. Proprio questo continuo interscambio tra piano estetico e filosofico-politico ha causato notevoli incomprensioni nella Brechtforschung. La dialogica relazione di Brecht con il marxismo, infatti, è stata ridotta da molti critici al carattere prettamente sociologico che l’aveva contraddistinta negli anni venti. Il clima da guerra fredda in cui si è sviluppata buona parte della ricezione dell’opera brechtiana ha contribuito a favorire la dogmatizzazione di questa problematica relazione. Eppure il “maestro” di Brecht era stato proprio uno dei più esecrati e temuti “eretici” del marxismo: Karl Korsch. Da questi Brecht apprese un’interpretazione dialettica del marxismo, volta a ristabilire i nessi tra essere e coscienza, che gli permise di riscoprire l’importanza etico-politica dell’impegno sul piano sovrastrutturale della geistige Aktion che, agendo sulle coscienze, era in grado di intervenire sulla stessa realtà strutturale

Non si tratta allora, come troppo spesso si è detto, di un tentativo di rappresentare sulla scena la dottrina marxiana, ma della ricerca sperimentale di “mettere all’opera” quel pensiero critico che ne costituiva, a parere di Brecht, la caratteristica fondamentale. Alla base della drammaturgia didattica era la constatazione che una nuova forma del teatro aveva bisogno, per affermarsi, di una radicale trasformazione delle finalità dell’arte e, nello specifico, della funzione del teatro nell’epoca moderna. L’autore drammatico, secondo Brecht, è dipendente da uno stadio di sviluppo della tecnica che ha trasformato essenzialmente la struttura percettiva sia di colui che recepisce l’opera sia del produttore. Anche in questo caso si trattava, allora, di reagire a quella funzione “culinaria” cui era ridotta l’opera nella società consumistica. Ora, se i due precedenti lavori (L’opera da tre soldi e Ascesa e rovina della città di Mahagonny) avevano cercato di rompere dall’interno l’opera “borghese”, i Lehrstücke avrebbero dovuto costituire i primi sperimentali esempi di una forma non riproduttiva dell’arte

Tuttavia i drammi didattici, per il loro radicalismo formale e contenutistico, si tirarono addosso numerose critiche, anche da parte comunista. Venne, in effetti, totalmente frainteso il loro valore critico-pedagogico ed essi furono considerati pure e semplici esposizioni di una dottrina politica. La maggior parte degli attacchi si limitavano a una critica contenutistica della dottrina esposta dal dramma. Brecht pensò, allora, di dover aggiungere ai Lehstücke degli scritti esplicativi, volti a chiarire che nel dramma didattico non bisognava ricercare “delle tesi o delle contro-tesi, degli argomenti a favore o contro determinate opinioni, delle arringhe o delle requisitorie che mettessero in questione il proprio modo di vedere, ma degli esercizi d’elasticità destinati esclusivamente a quella sorta di atleti dello spirito che devono essere i veri dialettici”. [1]

L’esperienza dei drammi didattici si concluse nel 1932 con La madre. In questo dramma la funzione pedagogica si univa a un corso drammatico maggiormente lineare. Ciò permise a questo drama di uscire dal circuito ristretto in cui erano andati in scena i precedenti Lehrstücke. Hans Eisler, geniale autore delle musiche del dramma, ricorda così quell’esperienza: “un vero disastro. La traduzione era un disastro (…) è stata rielaborata. (…) Il testo fu tramutato in una serie di dialoghi naturalistici. Il regista era un imitatore in sedicesimo del grande Stanislavskij, ma senza averne il talento (…). La rappresentazione ebbe luogo senza di noi e fu un fiasco di dimensioni gigantesche. (…) Un miscuglio tra Cechov e chiacchiere in slang senza alcuna poesia”. [2]

Ancora una volta fu la totale incomprensione della sua opera a spingere Brecht a ricorrere alla teoria. Fu proprio nelle annotazioni [Anmerkungen] a La madre che egli usò per la prima volta l’espressione “drammaturgia non-aristotelica”, per indicare un complemento indispensabile alla teoria del teatro epico. Scrive a tal proposito Brecht: “il dramma La Madre è scritto nello stile dei drammi didattici, ma esige degli attori professionisti; esso appartiene alla drammaturgia antimetafisica, materialistica, non-aristotelica. Questa drammaturgia non fa, come quella aristotelica, un uso inconsiderato dell’immedesimazione dello spettatore, del suo abbandono alle suggestioni dello spettacolo, e di fronte a certi effetti psichici, come la catarsi per esempio, si pone in modo essenzialmente diverso. Così come non si propone di abbandonare il suo eroe al mondo come a un destino inevitabile, del pari non è nel suo intento abbandonare lo spettatore alla suggestione di emozioni teatrali”. [3]

È importante precisare, a scanso di equivoci, che, definendo non-aristotelica la sua drammaturgia, Brecht non intendeva contrapporsi tanto alla Poetica di Aristotele, quanto all’influenza che aveva avuto una sua pedissequa e dogmatica interpretazione sull’arte drammatica tradizionale. Brecht, del resto, ha sempre usato il termine drammaturgia non-aristotelica facendo ben attenzione a non servirsi mai dell’espressione “anti-aristotelica”, come ha fatto, invece, più di un critico. L’attacco era, quindi, rivolto a quella stantia tradizione teatrale che, con il suo dogmatico richiamarsi a presunti canoni aristotelici, nascondeva l’incapacità di tenere il passo con lo sviluppo storico della forma del dramma. A partire da Peter Szondi [4] diversi autori si sono sforzati di ricostruire la linea genealogica della drammaturgia non-aristotelica in opposizione alla drammaturgia tradizionale. Questa interessante problematica è, però, del tutto assente negli scritti brechtiani di questo periodo. Anche in questo caso il nuovo concetto è semplicemente introdotto da Brecht, che non si cura affatto di indicarne le origini, limitandosi a notare che “noi indichiamo una drammaturgia come aristotelica se questa produce l’immedesimazione; è del tutto indifferente se lo fa seguendo le regole indicate da Aristotele o senza il loro utilizzo”. [5]

Nella seconda stesura del suo scritto Che cos’è il teatro epico, Walter Benjamin introduce un’analogia tra la drammaturgia non-aristotelica e la geometria non-euclidea di Riemann. Questa analogia può servire a mostrare che Brecht, come Riemann, non aveva inteso attaccare una tradizione teorica nella sua totalità, ma si era limitato ad annullarne un presupposto. Come Riemann aveva eliminato le rette parallele, Brecht aveva eliminato la catarsi. Quest’ultima era interpretata da Benjamin e da Brecht come “scarica degli affetti tramite la partecipazione al commovente destino dell’eroe”. [6] In questo modo alla catarsi veniva direttamente riconnessa l’empatia, l’immedesimazione tra spettatore e personaggio tramite l’attore che, attraverso il “metodo” di Stanislavskij, dominava le scene del tempo. L’immedesimazione, che l’attore tradizionale imponeva al pubblico, era criticata in quanto “involgendo lo spettatore nell’azione scenica ne esauriva l’attività”. Il teatro non-aristotelico, al contrario di quello tradizionale dominato da un destino assolutamente indipendente dall’uomo, doveva rendere l’uomo cosciente del mondo e, quindi, in grado di modificarlo. Era, allora, necessario trasformare radicalmente la modalità con cui i mezzi strutturali dell’opera ne determinavano la fruizione da parte del pubblico.

 

Note:

[1] Dort, B., Lecture de Brecht, 2 ed., Édition du Seuil, Paris 1972, p. 90-91.

[2] Bunge, H., Con Brecht [1970], tr. it di L. Lombardi, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 254-57.

[3] Brecht, B., Scritti teatrali, 3 voll., a cura di E. Castellani, Einaudi, Torino 1975, vol. III, p. 85.

[4] Szondi, P., Teoria del dramma moderno, tr. it. di G. L., Einaudi, Torino 1962.

[5] Id., Große kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, Aufbau Verlag, Berlin und Weimar, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1989-1998, vol. 15, p. 240.

[6] Benjamin, W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1966, p. 130.

18/12/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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