Il superamento dell’eleatismo
Le idee occupano nella filosofia di Platone il livello che ha l’essere nel pensiero di Parmenide e sono oggetto della pura teoria. D’altra parte sono un oggetto non più indifferenziato e incapace di sviluppo, ma pluralistico e ordinatamente articolato come lo sono ormai le scienze in cui è suddiviso il campo della pura teoria, a partire dalle matematiche. Dunque Platone, pur riprendendo l’opposizione parmenidea fra verità/essere e opinione/apparenza, la sviluppa. Il piano della verità non è più qualcosa di immediato e indeterminato, ma si presenta come un insieme articolato di scienze, dalle matematiche al nuovo sapere etico-politico. Il mondo del divenire, dell’empirico, dell’opinabile se ha una realtà inferiore all’essere delle idee non è una mera parvenza o un non-essere come per Parmenide, ma ha un’esistenza intermedia fra le idee e il non-essere, come l’opinione è una forma di sapere intermedio fra la scienza e l’ignoranza. Si pone ora la questione di una mediazione per superare la scissione fra idee e cose, scienza e opinione. Tanto più che le questioni etico-politiche, al centro della riflessione platonica, si collocano proprio in tale spazio intermedio. Del resto l’efficacia scientifica ed etico-politica delle idee dipende dall’operare dei filosofi che le conoscono.
Più nello specifico, Platone distingue le idee-valore, corrispondenti quindi a principi etici ed estetici (il bene, il bello, la giustizia), dalle idee-matematiche corrispondenti ai principi matematici (il triangolo, il grande, l’eguale), A questa seconda categoria andrebbero aggiunte le idee relative agli oggetti di ogni scienza, ad esempio per la zoologia: l’idea di cavallo, quadrupede ecc. Vi sono idee di cose naturali (uomo, cane, fiore) ed idee di cose artificiali (finestra, porta). Le idee hanno, tuttavia, un ordine gerarchico-piramidale con al vertice l’idea di Bene. Le cose partecipano delle idee e le idee partecipano dell’idea di Bene. Alcuni interpreti hanno identificato il Bene con Dio in quanto realtà trascendente, ma il Bene non crea le idee, ma gli comunica la sua perfezione. Inoltre, il Bene non è persona, come il dio cristiano, ma pur essendo divino è impersonale.
La subordinazione delle idee degli oggetti delle scienze alle idee-valore
Platone ritiene che la verità sia finalizzata alla giustizia e al bene, ma questo è possibile solo se le idee relative agli oggetti delle scienze sono in qualche modo subordinate alle idee-valore. A tale scopo nella Repubblica la filosofia di Platone si organizzerà come dialettica proprio per costruire una teoria di questa subordinazione.
Gli oggetti empirici come imitazioni delle idee
L’uomo deve staccarsi dal mondo empirico per poter conoscere le idee, mediante l’intuizione intellettuale, utilizzando poi la deduzione razionale, per poi realizzarle nella prassi scientifica da una parte e politica dall’altra. Per quanto riguarda il rapporto fra le idee e gli oggetti empirici, Platone lo considera in analogia al rapporto fra modello e copia, ossia fra paradigma e casi di applicazione. Così un artigiano costruisce un letto perché ha in testa l’idea di letto. Oppure, se definiamo bello qualcosa, lo facciamo necessariamente in riferimento all’idea di bellezza. Ma come si fa a sostenere che una realtà naturale, come il cavallo, è una copia della propria idea?
La soluzione mitica: l’anima, la memoria, la morte, il demiurgo
Nei dialoghi Platone rappresenta le risposte, a questioni non ancora comprensibili teoricamente, con il ricorso al mito, come nel Fedone, nel Simposio, nella Repubblica e nel Timeo, in cui immagini e simboli anticipano i lenti e faticosi percorsi della teoria. I miti sono invenzioni di Platone, che utilizza in alcuni casi materiali orfici e pitagorici. Si tratta di allegorie che suggeriscono intuitivamente la soluzione di complesse situazioni teoriche.
La natura dell’anima
Al centro di diversi di questi miti vi è l’anima, nel suo rapporto con il corpo immerso nel mondo materiale del divenire. Platone eredita dalla tradizione orfico-pitagorica e da Socrate l’idea che l’anima sia un’essenza unitaria e che in essa risieda la dimensione del valore e del bene per l’individuo. Nel Fedone Socrate riprende la formula pitagorica secondo cui l’anima è vincolata al corpo come un prigioniero e, dunque, per conseguire la virtù bisogna annullare le esigenze e i desideri che provengono dal corpo. Una simile posizione comporta il rifiuto dell’elemento corporeo e finisce inevitabilmente per condurre a una concezione ascetica del conseguimento della virtù.
Platone opera una mossa teorica tanto spettacolare quanto sconvolgente dal punto di vista della tradizione orfico-pitagorica, infatti introduce le istanze della corporeità nel cuore dell’anima. L’anima è il motore delle nostre azioni, essa non può essere considerata come un’essenza unitaria, dal momento che è spesso portatrice di istanze opposte. Chi di noi non si è trovato in una situazione di conflitto con se stesso desiderando irrazionalmente qualcosa, ma valutando razionalmente contemporaneamente i rischi che comporta la soddisfazione di tale desiderio? Ad esempio desiderare di abbuffarci di fritti, ma poi valutare razionalmente i rischi per la salute.
Quindi l’anima è costituita da un elemento irrazionale, che ci spinge a soddisfare desideri connessi al corpo, e da un aspetto razionale che ci induce a valutare le conseguenze del nostro comportamento. Platone osserva, però, che non tutti i desideri irrazionali sono riconducibili al corpo, ci sono anche quelli collegati al riconoscimento sociale, all’ambizione, alla gloria (pensiamo ad Achille che cerca la gloria e il riconoscimento in battaglia). Quindi l’anima è costituita da tre centri motivazionali: 1) desiderante, cioè rivolta ai desideri corporei (irrazionale); 2) impulsiva (irrazionale), rivolta al riconoscimento sociale: 3) razionale-calcolativa. L'instaurarsi di una condizione virtuosa dell’anima è legata alla capacità dell’elemento razionale di imporsi sugli altri due.
Platone è consapevole che la ragione è costantemente soggetta alle pressioni dei desideri e rischia di soccombere. Tuttavia, può trovare un alleato nell’elemento irrazionale non desiderante che, se guidato dalla ragione, può tenere a freno le istanze della parte inferiore (ciò, vedremo, avrà una significativa ricaduta politica).
La differente natura dei due principi irrazionali (desiderante e impulsivo), in rapporto alla ragione emerge in tutta evidenza nella celebre immagine della biga alata. Il mito illustra il celebre viaggio dell’anima verso l’iperuranio, la sua struttura tripartita e la sua caduta.
L’immortalità dell’anima: il Fedone
Per Platone la vita giusta è preferibile a quella ingiusta in quanto paga in termini di felicità individuale, e questa è una prospettiva laica: l’uomo giusto è felice in quanto la giustizia consiste nell’armonia e nella salute dell’anima, e un’anima sana è anche un’anima felice. Ciò però non basta a garantire la vittoria della giustizia sull’ingiustizia. Occorre fare un passo ulteriore e chiarire che anche nell’aldilà il giusto riceverà premi meravigliosi mentre l’ingiusto è destinato a patire ogni sorta di castighi. Ovviamente per sostenere ciò bisogna anche dimostrare che l’anima è immortale. Nei dialoghi platonici si trovano numerosi tentativi di dimostrare l’immortalità dell’anima, ma non sempre sono convincenti ed è difficile stabilire quanto Platone li considerasse definitivi. Probabilmente ai suoi occhi le prove in favore dell’immortalità dell’anima hanno l’obiettivo di persuadere e indirizzare verso comportamenti virtuosi più che convincere razionalmente.
L’anima e il destino
Inoltre, Platone utilizza il tema dell’immortalità dell’anima per chiarire il problema del destino. Per Platone la sorte di ogni individuo dipende da una scelta precedentemente fatta dalla sua anima nel mondo delle idee. Ogni anima sceglierà la vita che incarnerà, quindi la scelta del destino è libera, la divinità non vi prende parte; tuttavia per Platone anche se l’uomo sceglie il proprio destino è comunque condizionato da quel che nella vita precedente ha voluto essere ed è stato. Inoltre, l’immortalità dell’anima, come abbiamo già visto, è necessaria per la teoria della conoscenza, che è anamnesi, in quanto per Platone portiamo dentro di noi una verità che è frutto della contemplazione delle idee da parte dell’anima.
Nel Fedone Platone prova l’immortalità dell’anima sostenendo che è affine alle idee. L’anima è eterna come la verità ideale che si presenta nell’intuizione intellettuale; il legame col corpo è destinato a rescindersi alla morte. L’anima liberata dal corpo potrebbe senza più limiti godere della visione pura e perfetta delle idee. Tuttavia, come mostra il mito del Fedro, la natura dell’anima è simile a l’auriga che guida una biga trainata da due cavalli alati, uno bianco, eccellente, che si dirige verso il cielo, l’iperuranio, sede dell’essere, della verità, ma che viene contemplata solo per poco dall’anima razionale (auriga), in quanto l’anima è tirata in basso dal cavallo nero, quindi si appesantisce, perde le ali e si incarna e va a vivificare il corpo di un uomo. Vi è, dunque, un elemento oscuro nell’anima stessa, che la spinge a ricongiungersi con il corpo. Se tale desiderio prevale l’anima è di nuovo presa nel ciclo delle nascite e delle morti. L’anima che ha visto di più va nel corpo di un uomo che si consacra al culto della sapienza e dell’amore, quella che ha visto meno si incarna negli uomini più alieni dalla ricerca della verità e della bellezza. Quindi il luogo originario dell’anima non è il mondo sensibile, ma il mondo sovra-sensibile, il mondo delle idee, dove l’anima ha fatto esperienza della verità, ma il cavallo nero l’ha fatta precipitare, imprigionandola nel corpo.
La conoscenza come reminiscenza (anamnesi) e il legame con la teoria dell’anima
Tuttavia permane nell’anima, sebbene solo in potenza, la memoria della visione ultraterrena delle idee. È su questa reminiscenza che si fonda la filosofia nel nostro mondo. Così quando parliamo di giusto o di bello, ci riferiamo alle loro idee che altrove abbiamo contemplato. Tale mito indica la conoscenza a priori delle idee.
Dunque, per Platone la conoscenza è anamnesi, ricordo. Per comprendere la teoria di Platone bisogna rovesciare l’affermazione socratica “so di non sapere”, per Platone “non so di sapere”, che vuol dire? Il sapere è in me, ma è occultato, sepolto, bisogna farlo riaffiorare. Questa teoria della conoscenza è legata alla teoria dell’anima: indagando la nostra anima e costringendola a guardare dentro di sé, con il logos e non fuori di sé attraverso i sensi, è possibile ritrovare in essa la forma (eidos), l’aspetto vero e dimenticato delle cose.
Ad esempio, nel dialogo Menone, uno schiavo digiuno di geometria, interrogato da Socrate, riesce a intuire il teorema di Pitagora. Secondo la maieutica socratica la verità è una nostra conquista, il filosofo, con il dialogo, ci stimola dall’interno e non ci offre una verità preconfezionata. Dal punto di vista di Platone, invece, lo schiavo ha risolto il teorema perché Socrate gli ha fatto ricordare il sapere sepolto in lui: noi portiamo dentro una verità che è il frutto di una precedente contemplazione delle idee da parte dell’anima.
La nostra anima, in base alla credenza orfico-pitagorica della metempsicosi, prima di calarsi nel nostro corpo, è vissuta, disincarnata, nel mondo delle idee, dove, tra una vita e l’altra, ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle cose. Una volta discesa nel nostro mondo, l’anima conserva il ricordo sopito di ciò che ha veduto, stimolata ricorda ciò che ha visto nell’iperuranio. Vi è, quindi, in Platone una sorta di innatismo, la conoscenza non deriva dall’esperienza.