La parabola dell’economia politica – Parte XVII: La filosofia sociale e politica di J.M. Keynes

John Maynard Keynes fu influente economista liberale inglese, vicino ai centri del potere e al mondo degli affari. Anticomunista, antisocialista, razzista e simpatizzante di regimi autoritari, prese atto che il capitalismo lasciato a sé stesso fosse destinato a produrre disoccupazione e crisi e si pose il l'obiettivo di indicare politiche in grado di di salvarlo da una rivoluzione di tipo socialista. Ma è incomprensibilmente un'icona dei riformisti.


La parabola dell’economia politica – Parte XVII: La filosofia sociale e politica di J.M. Keynes

Con questo articolo iniziamo, con uno sguardo sommario agli aspetti politici, filosofici e culturali, a trattare il pensiero di John Maynard Keynes, un personaggio indebitamente venerato da tanta sinistra riformista, ma anche da alcuni sedicenti comunisti. La sua teoria economica sarà invece oggetto di articoli successivi.

Il barone inglese John Maynard Keynes, fu probabilmente il più influente fra gli economisti del XX secolo sia per la sua teoria, che introdusse importanti elementi di novità rispetto al costrutto marginalista, da cui comunque non si distaccò, sia per avere svolto un ruolo di primo piano in alcuni tavoli in cui si decidevano le sorti del mondo. Per esempio fu rappresentante economico del Tesoro inglese alla Conferenza di pace di Versailles al termine della Prima guerra mondiale, incarico da cui si dimise in dissenso con le misure eccessivamente punitive nei confronti della sconfitta Germania, in quanto prevedeva che tali misure avrebbero sconvolto l’economia di quel Paese, come in effetti avvenne durante la Repubblica di Weimar. È noto che quel dissesto favorì la successiva ascesa al potere di Hitler.

Anche quando stava per concludersi, con la vittoria alleata, la Seconda guerra mondiale, fu alla guida della delegazione inglese ai negoziati di Bretton Woods, i quali partorirono il cosiddetto “gold standard” che ha regolato le vicende monetarie internazionali fino alla sospensione della convertibilità del dollaro da parte di Nixon negli anni ’70. Quell’accordo sancì la supremazia del dollaro negli scambi internazionali, oltre a dare vita agli istituti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Anche in tale contesto l'autorevolezza di Keynes non fu sufficiente a far fronte alla potenza economica e militare degli Stati Uniti. Egli infatti aveva proposto invano di utilizzare negli scambi internazionali un'unità di conto, il bancor, che avrebbe permesso alle nazioni, attraverso compensazioni fra debiti e crediti, di pareggiare la bilancia con l'estero, senza la necessità di utilizzare una valuta ancorata all'oro.

Maggiore fu il suo successo personale negli affari, in quanto poté effettuare operazioni borsistiche, sfruttando informazioni non di dominio pubblico, che gli consentirono, divulgandole dopo aver effettuato transazioni in borsa, di incidere nelle quotazioni dei titoli su cui aveva scommesso. Operazione che in gergo viene denominata insider trading.

Nell’ambito dell’economia borghese – pur seguendo anch’egli il paradigma fondamentale della scuola neoclassica – la sua analisi, a differenza di quanto avviene per il pur eterodosso Schumpeter, si discosta, per gli aspetti macroeconomici, da alcune ipotesi principali del paradigma neoclassico, senza sconvolgerne gli aspetti microeconomici. Formatosi sotto l’influsso della teoria dell’equilibrio marshalliano, si discosta gradualmente da alcune conseguenze di tale teoria, a partire dal suo Trattato della moneta [1], per accettare la possibilità di un equilibrio di sottoccupazione cui occorre porre rimedio attraverso l'intervento pubblico. L’idea edulcorata del mondo dei marginalisti, fatta di piena occupazione e di virtù indiscussa del libero mercato viene messa in discussione e tuttavia egli rimane un fermo oppositore delle idee socialiste. Sostiene infatti che la libera concorrenza avrebbe selezionato gli elementi migliori dell'umanità, un vero e proprio darwinismo sociale, e che avrebbe stimolato l'impegno a migliorarsi, mentre il socialismo, di cui fornisce descrizioni caricaturali, avrebbe portato a un disimpegno, a una burocratizzazione, a un appiattimento della società e a limitazioni delle libertà individuali.

Tuttavia, vista l’incapacità della smithiana “mano invisibile” del mercato di assicurare la piena occupazione dei fattori, si preoccupa di fornire un supporto teorico alle politiche pubbliche in grado di intervenire su questo difetto, con lo scopo di rendere il capitalismo, il cui superamento non auspica, socialmente sostenibile e in grado di confrontarsi con le temute economie socialiste. Egli suggerisce pertanto una serie di politiche per salvarlo rendendolo più vicino all’efficienza e al soddisfacimento dei bisogni umani. Per questo è un mostro sacro dei riformisti, anche se perfino negli aspetti più radicali della sua teoria, quale per esempio il ruolo dello Stato nell'economia, la sua stella polare rimane la salvaguardia del capitalismo.

Il principio in auge del laissez-faire, per lui, si basa sull'inconsapevolezza del contrasto tra interesse individuale e interesse sociale e su ipotesi irrealistiche rispetto alle caratteristiche delle moderne economie. L’intervento statale, nel caso che la domanda aggregata sia insufficiente a garantire la piena occupazione, dovrebbe consistere in misure di politica fiscale e monetaria espansive, praticando la spesa pubblica in disavanzo, il cosiddetto deficit spending. Il capitalismo di impronta individualistica deve essere quindi corretto attribuendo allo stato compiti volti ad attenuarne i caratteri negativi. A tale scopo Keynes è anche favorevole a un patto sociale tra imprenditori, lavoratori e Stato che garantisca piena occupazione e retribuzioni ʺadeguateʺ e per mirare a rendere compatibili le aspirazioni dei lavoratori con i principi liberali.

Per lui i difetti del capitalismo necessitano di interventi correttivi ma non implicano la necessità di un sovvertimento del sistema a scapito della “libertà”. La sua opinione su Marx è stata espressa in molteplici occasioni, in cui è stato fatto uso anche di espressioni di disprezzo, oltre che del marxismo, specie di quello orientale, della cultura socialista e operaia in genere, degli slavi e degli ebrei, mostrando una evidente continuità con la cultura librale, la cui pulsione razzistica è stata ben messa in evidenza da Domenico Losurdo [2]. Quanto a Marx, il suo giudizio sferzante è esposto in diversi suoi scritti, fra cui scegliamo il seguente:

Il socialismo marxista deve sempre rimanere un portento per gli storici del pensiero; come una dottrina così illogica e stupida possa aver esercitato un’influenza così potente e durevole sulle menti degli uomini e, attraverso questi, sugli eventi della storia” [3].

Molti altri aspetti della sua filosofia sociale e visione politica reazionarie sono puntualmente indicati in un recente lavoro di Gianfranco Pala [4].

Al posto del denigrato Marx, quindi, propone la filosofia sociale di Pierre-Joseph Proudhon e della sua proposta di riforma monetaria in cui vengano utilizzati dei certificati indicanti il tempo lavorativo come valuta, al fine di realizzare l'uguaglianza sostanziale fra i lavoratori. Da lui ricava anche l'idea che le ingiustizie sociali derivino dalla ricompensa che deve essere data ai detentori di denaro e terra, senza giungere alla famosa affermazione proudhoniana “la proprietà è un furto”. Tuttavia, aderendo al marginalismo, prevede che quando i capitali non saranno più scarsi, anche la loro ricompensa non sarà più una necessità e tutta la ricchezza prodotta andrà ai lavoratori che per lui sono gli operai, gli impiegati, i preti, gli imprenditori e tutti gli altri che operano per il bene della società, perfino il Re. Tutto ciò che non è rendita diviene compenso per il lavoro e scomparendo le rendite tutto andrà al lavoro (di tutti questi soggetti, intendiamoci). In tale contesto prevede che gli artigiani e la piccola borghesia, grazie alle virtù della concorrenza, saranno in grado di organizzarsi per non farsi surclassare dal grande capitale. Inutile sottolineare che su questo punto abbia colto il segno più Marx, con la sua previsione azzeccata della centralizzazione dei capitali che il blasonato Keynes.

La sua visione di uno Stato che con un'accorta politica impedisca la distruzione delle “forme economiche esistenti” e assicuri il successo dell'iniziativa individuale, che costituisce “la miglior salvaguardia della libertà personale” e la sua esortazione a mettere in atto patti sociali costituiscono una sorta di idea corporativa. Del resto, in pieno nazismo, si mise a disposizione degli economisti tedeschi e, nella sua prefazione all'edizione tedesca della sua opera maggiore, affermò che la sua teoria “si adatta assai più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario” [5].

Fu sostenitore anche di una particolare forma di teoria eugenetica, la selezione da parte della concorrenza che “può aprire all'umanità la via di uno sviluppo proficuo, la via dell'eugenetica” In tal modo l'umanità si scaricherà del “fardello degli esseri inferiori” [6]. Quanto al razzismo, esso emerge sia sul piano sociale, quando afferma che il marxismo “esalta il rozzo proletariato al di sopra della borghesia e dell'intellighenzia, le quali […] sono l'essenza della vita e portano in sé il seme di ogni progresso”, che su quello etnico quando considera i socialisti “instupiditi dagli errori di intellettuali slavi ed ebrei” [7], la cui natura ha “tratti bestiali” [8]. Addirittura, spezzando una lancia in favore del neocolonialismo, li si accusa di non avere “alcuna nozione di come fosse costruito o sia sostenuto il Commonwealth” [9].

Il suo rivolgersi sprezzante ai marxisti, senza il supporto di argomenti seri e persuasivi, nasconde la sua profonda ignoranza della teoria marxiana, cui accedette solo attraverso una sorta di bignamino di un certo Mc Cracken e, indirettamente, attraverso le discussioni con suoi collaboratori, tant'è vero che quando ne tratta offre versioni assai semplificate dell'idea di socialismo e comunismo che non riesce a distinguere dalle organizzazioni comunistiche delle società primitive. Deve essere dato atto, tuttavia, che, nonostante le sue idee conservatrici, Keynes si circondò anche di personaggi non ostili o addirittura vicini al marxismo quali Michal Kalecki, Maurice Dobb, Piero Sraffa e alcuni seguaci della scuola di Sraffa.

La circostanza di tale compagnia di viaggio e la pubblicazione dei suoi inediti, in cui, per esempio, effettua un richiamo non ostile al marxiano ciclo D-M-D', sia pure per attualizzare riferimenti proudhoniani, hanno indotto diversi commentatori a considerare non determinante l’antisocialismo di Keynes, dovuto anche al clima maccartista dell'epoca che imponeva forme di autotutela. Rimane il fatto che, considerato anche il suo grande prestigio, nessuno lo avrebbe obbligato a scrivere le volgarità di cui abbiamo offerto un limitato campionario. Non lo fecero i suoi collaboratori, tra cui Piero Sraffa che, oltre ad essere immigrato, era anche ebreo, e che si limitò a non ostentare le sue simpatie per Marx.

Nonostante la sua dichiarata ostilità al socialismo, alcuni intellettuali marxisti hanno riscontrato una sorta di compatibilità fra Marx e Keynes e tentato sintesi fra i due. Anche in ambito politico una parte della malmessa sinistra odierna, anche di quella che si denomina di alternativa e anticapitalista, si rifà più al primo barone di Tilton che al Moro e, di fronte al fallimento, delle politiche keynesiane, anziché indagare le radici materiali di tale fallimento, che cercheremo di indagare nei prossimi articoli, e con ciò ammettere la necessità di un ritorno a Marx, si impuntano a spiegare la cosa, presuntuosamente, con errori analitici dei nostri governanti e dei loro consiglieri. Come se decenni di politiche neoliberiste avrebbero potuto continuare a imporsi se avessero effettivamente danneggiato gli interessi della classe dominante.

In ambito borghese, sulle sue orme si è formata una scuola di pensiero che spesso ha utilizzato solo aspetti parziali della sua teoria. Ne è un esempio la cosiddetta sintesi neoclassica che, trascurando i contenuti più eterodossi, ha evidenziato quelli più compatibili con l’ortodossia.

In questa fase di crisi della mondializzazione, di accelerazione del processo di centralizzazione dei capitali e di contrasto di interessi fra la grande e la piccola borghesia, la filosofia sociale di Keynes è utilizzata più dal ceto medio spaventato, e quindi in senso sovranista e reazionario, che dal grande capitale finanziarizzato, meglio tutelato dalle politiche neoliberiste.

Note:

[1] J.M. Keynes, Trattato della moneta, traduzione di Piero Sraffa, Milano, Fratelli Treves, 1932.

[2] D. Losurdo, Controstoria del Liberlismo, Ed. Laterza, 2005.

[3] J.M. Keynes, La Fine del laissez-faire, in J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta e altri scritti, Ed. Utet, 1978, p. 123.

[4] G. Pala, Antikeynes. La “rivoluzione” della “filosofia sociale” compiuta da Lord John Maynard Keynes, La città del Sole, 2022.

[5] Citato in G, Pala, op. cit., p. 38.

[6] Ivi, p. 74.

[7] Ivi, p. 39.

[8] Ivi, p. 71.

[9] Ibidem.

 

12/08/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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