Ma Rainey’s black bottom di George C. Wolfe, drammatico, Netflix, Usa 2020, voto: 6,5; film interessante ma non riuscito cinematograficamente, in quanto trattasi della trasposizione di una piece teatrale. Al centro del film vi è lo sfruttamento della cultura musicale afroamericana, in particolare del blues, da parte della classe dominante caucasica. Il film allarga la sua denuncia alle condizioni di vita in cui erano costretti a sopravvivere gli afroamericani nel vero e proprio stato di apartheid vigente negli Stati Uniti negli anni trenta, anche nei confronti delle star musicali. Con significativi riferimenti ai linciaggi di afroamericani ancora in voga negli anni Venti. Nel film emerge anche la grande difficoltà degli afroamericani ad assumere coscienza di classe e a organizzarsi e battersi per la propria emancipazione collettiva, in quanto spesso prevale il tentativo individualista di fare carriera scendendo a compromessi con i dominatori caucasici. Il limite contenutistico del film è che tende a far apparire superiore proprio l’afroamericano che arriva a uccidere un suo compagno di lavoro, per sfogare la rabbia repressa per lo sfruttamento del suo genio musicale da parte dei caucasici. Mentre l’unico afroamericano dotato di un barlume di coscienza collettiva di classe è rappresentato da un vecchio e stanco personaggio di secondo piano. In tal modo, la pretesa di un sguardo “realistico” sulle contraddizioni interne ai subalterni, finisce per trasformarsi in una quasi “naturalizzazione” della loro condizione di subalternità.
La regina degli scacchi miniserie televisiva drammatica statunitense creata da Scott Frank e Allan Scott, distribuita in streaming il 23 ottobre 2020 su Netflix; voto: 6,5; la serie, in sette episodi, è basata sull'omonimo romanzo del 1983 di Walter Tevis. La regina degli scacchi mostra l’eccezionale determinazione di una bambina che, nonostante le gravi disgrazie che ha vissuto, riesce a emergere e imporsi in un mondo fino a quel momento essenzialmente maschile. Le sue capacità sono legate a una mentalità estremamente analitica e sembrano in qualche modo connesse agli psicofarmaci che usavano per sedare i bambini nell’orfanotrofio in cui è costretta a crescere, secondo una pratica negli anni Cinquanta piuttosto diffusa negli Stati Uniti. Tanto che non si capisce quanto le sue eccezionali doti in questo gioco dipendano dagli psicofarmaci di cui, fin da piccola, abusa. Interessante il ritorno in auge di un gioco che aveva conosciuto un eccezionale successo ai tempi della guerra fredda, per poi dissolversi come neve al sole insieme al blocco sovietico dove aveva conosciuto la sua massima fioritura.
Nel secondo e nel terzo episodio crescono i dubbi sul messaggio della serie e sulla sua costruzione formale che mira all’immedesimazione dello spettatore con la protagonista. Quest’ultima rappresenta il mito americano, ossia il puro sogno che anche il più povero può, con l’impegno, scalare rapidissimamente la scala sociale. Tanto più che passa anche il concetto che pur di arricchirsi al più presto i giovani impegnati ad affermarsi nel mondo del lavoro facciano bene a cercare, con ogni mezzo anche illecito, di sottrarsi al diritto all’istruzione. Dando l’idea che solo una preparazione ultraspecialistica e del tutto improntata alla sua spendibilità immediata nel luogo di lavoro possa permettere un’ascesa sociale dei ceti subalterni. I quali, per non perdere tale opportunità di riscatto sociale, farebbero bene a rinunciare del tutto alla socialità, alla libido e persino a sentimenti e passioni. Anzi, per riuscire a realizzare il sogno americano, sarebbe del tutto lecito servirsi di stupefacenti che consentirebbero al lavoratore di raggiungere standard di produttività sovrumani che gli permettano di vincere la concorrenza. Peraltro questa balorda idea è del tutto irrealistica e inverosimile per il caso in questione, in quanto nel gioco degli scacchi è particolarmente essenziale la lucidità e, da questo punto di vista, alcol e psicofarmaci non sono di nessunissimo aiuto. Peraltro il far credere il contrario, favorisce l’utilizzo del doping anche tra i più giovani per prevalere nelle gare agonistiche. Infine si fa passare la balorda rappresentazione per cui la donna, per poter superare il proprio gap di genere, in una società patriarcale e maschilista, dovrebbe sviluppare sino alle estreme conseguenze gli aspetti più negativi del maschio.
Nel quarto e quinto episodio emerge come la mania per gli scacchi sia una sorta di alienazione, utile per un asociale, ma che impedisce di stabilire rapporti reali con le persone. Inoltre, emerge anche come chi dedica tutte le proprie energie agli scacchi e non conduce una vita sana e saggia rischia di bruciarsi troppo presto. Tanto più che resta l’interrogativo di fondo, ovvero una volta che si è raggiunta la vetta a cosa altro si può aspirare se si è fatto solo il giocatore di scacchi? Infine emergono i soliti pregiudizi tipici degli americani verso i sovietici, che da una parte non sarebbero liberi, vivendo in uno Stato di polizia, dal quale i campioni dovrebbero essere sempre controllati per non fuggire. In secondo luogo sarebbero delle macchine, ossia degli esseri disumani. Peraltro anche l’eroina ci viene presentata come una sorta di macchina. In tal modo la rappresentazione si problematizza e diviene anche più interessante, anche se non si capiscono realmente i reali motivi di interesse della serie.
Nonostante tutto proceda abbastanza prevedibilmente verso lo hollywoodiano lieto fine, bisogna dire che inaspettatamente il film, a differenza dei consueti prodotti statunitensi, non solo non disumanizza l’avversario, ma finisce per riconoscerlo per diversi aspetti come addirittura superiore. Un vero e proprio miracolo, come il rilancio dello sport tipico dei sovietici, il gioco degli scacchi, proprio a partire dagli Stati Uniti che, vincendo la guerra fredda, lo avevano sepolto apparentemente per sempre. Molto significativo il fatto che, per poter vincere, gli statunitensi debbano seguire il modello di civiltà offerto dai sovietici, abbandonare l’individualismo e fare gioco di squadra. Quasi commovente la sportività e l’eleganza con cui i sovietici accettano la sconfitta e si complimentano con la rappresentante del paese nemico. Significativo il fatto che il Dipartimento di Stato statunitense invii, esattamente come aveva fatto precedentemente l’Urss, un rappresentante della Cia per evitare che la campionessa potesse avere qualsiasi rapporto con il nemico. Interessante, infine, come la protagonista non accetti nessun opportunistico divenire strumento della guerra fredda, per poter avere dei vantaggi personali. Anzi si sfila completamente da ogni tentativo di utilizzare la sua vittoria come una prestigiosa affermazione indiretta nella guerra contro l'impero del male”, che appare molto più umano sotto diversi aspetti di quello occidentale. Resta, però, il fatto che il film dia troppo per scontato e non evidenzi a sufficienza che solo una volta, in realtà, un sovietico fu sconfitto in una finale da uno statunitense. Evento che è divenuto storico proprio perché non era mai avvenuto prima.
Mr. Klein di Joseph Losey, drammatico, Italia 1976, voto 6,5; il film merita di essere visto per conoscere la profonda infamia della Repubblica di Vichy e il collaborazionismo delle classi dominanti francesi con i nazisti, con cui la classe dirigente si era alleata, in funzione subalterna, pur di non rischiare un nuovo governo del Fronte popolare. Il film è intrigante, bel realizzato e lascia al quanto di significativo su cui riflettere allo spettatore. Peccato per il finale in cui manca una catarsi all’altezza e una vera prospettiva di superamento, per cui finisce con l’essere la solita tragedia priva di conclusione, tanto cara all’ideologia dominante per il suo carattere sostanzialmente conservatore.
Soul di Pete Docter e Kemp Powers, animazione, avventura, Usa 2020, voto 5,5; merce dell’industria culturale ben orchestrata e confezionata a pennello come strumento di egemonia della classe dominante. Capace di ottenere il consenso dei subalterni dandogli a intendere che, per godersi la vita, basterebbe semplicemente vivere, senza alcun obiettivo, grande o piccolo che sia. Dunque, non solo i subalterni dovrebbero rinunciare ai grandi scopi, ovvero di trasformare in senso progressista il mondo, contribuendo alla lotta per l’emancipazione del genere umano, ma non avrebbe nemmeno senso inseguire le piccole ambizioni del successo nel mondo del lavoro, dal momento che tale ambizione è così precaria e momentanea che non varrebbe la pena puntarci troppo. Anche perché, se come spesso accade, il subalterno resta tale, potrebbe perdere il consenso attivo verso la classe dirigente e dominante che, peraltro, sarebbe sempre lì pronta a offrire, se ci si lascia completamente egemonizzare, una seconda possibilità.
Le streghe di Robert Zemeckis, avventura, commedia e family, Usa 2020, voto 4; prodotto ben confezionato dell’industria culturale che rilancia la caccia alle streghe, sostenendo che vivono in mezzo a noi e potrebbero nascondersi anche nella vicina di casa. Peraltro le streghe mirerebbero a eliminare i bambini. Produrre un film con un messaggio del genere proprio negli Stati Uniti d’America è quantomeno discutibile e appare sospettabile di rovescismo storico. Molto discutibile è, dunque, il massaggio che un film, peraltro decisamente per bambini, veicola. Invece di denunciare l’oppressione delle donne e delle persone di sinistra, si vuol far credere che le streghe esistano veramente.
Notturno di Gianfranco Rosi, documentario, Italia 2020, voto: 3,5; film insostenibile che rappresenterà degnamente questa Italia agli Oscar per il miglior film straniero. Rosi senza avere una visione del mondo alternativa a quella dominante, pretende di affrontare le molteplici problematiche del Medio Oriente. Il documentarista, però, non si documenta e non svolge un’analisi storica, politica, sociale, di classe, economica, filosofica della realtà, ma cerca esclusivamente delle immagini per valorizzare, dal punto di vista meramente formale, il proprio lavoro. Non avendo una visione del mondo alternativa, subisce in pieno l’ideologia dominante, a cominciare dal post-moderno, per cui non si fa nessuno sforzo per comprendere la realtà, ma ci si limita a metterne in evidenza degli aspetti fenomenici, peraltro staccati gli uni dagli altri, che non consentono nessuna comprensione più profonda della sostanza storica. Si tratta di un film elitario, cosmopolita, pensato a esclusivo beneficio dei cinefili.
Un lungo viaggio nella notte di Gan Bi, drammatico, Cina 2018, voto: 3; film senza capo né coda, che dimostra ancora una volta come dal punto di vista culturale la Repubblica Popolare Cinese non sia alternativa alle mode decadenti delle società capitaliste. Nel film vi è un formalismo esasperato e un completo disinteresse per il contenuto. Tende, dunque, a portare alle estreme conseguenze la tendenza reazionaria alla distruzione della ragione. Il film mostra anche il completo distacco snobistico di questi intellettuali cinesi da ogni connessione sentimentale con il loro stesso popolo. Si tratta indubbiamente di autori cosmopoliti, che mirano al consenso della critica cinefila internazionale che affolla i festival di cinema.