È in realtà dalla Prima guerra mondiale che gli Stati moderni hanno compreso l’importanza di un’accorta politica della comunicazione, rivolta tanto al “fronte interno”, quanto a quello estero, riguardante in particolare i Paesi neutrali, che costituivano la platea (talvolta la claque o lo spettatore guardingo e interessato) di uno scontro, in cui contava parecchio, e per ragioni varie, l’immagine di sé che si riusciva a promuovere presso l’opinione pubblica internazionale, agendo su più leve di proiezione informativa. Molto prima della televisione e dei cosiddetti social, prima ancora della radio, fu dunque la stampa a rappresentare il canale privilegiato di un’opera di persuasione e opportuna canalizzazione del consenso, che si impegnava a fabbricare la bontà del proprio sforzo bellico, legittimandone ragioni e scopi e negativizzando in modo parossistico quelli altrui. Com’è noto, in quel conflitto furono i Paesi dell’Intesa (Francia e Gran Bretagna, ma soprattutto gli Stati Uniti) a raccogliere i frutti di questa oculata gestione dei “fatti”. Ma anche l’Italia (per chi ricorda le rassicuranti copertine di Achille Beltrame sulla “Domenica del Corriere”) seppe costruire un immaginario suadentemente manicheo, che fornì un sostegno non irrilevante alla vorace impresa micro-imperiale del Last Comer dell’ex “concerto europeo”. I tedeschi, dal canto loro, persero anche questo versante dello scontro, rivelando un ritardo e un impaccio, che avrebbero rapidamente rimontato durante gli anni Trenta (anche grazie agli ex-nemici, che ne beneficiavano sul fronte dell’anticomunismo più viscerale).
Da allora, se si prescinde dalla vicenda eccezionale del Vietnam, che rappresentò un significativo punto di crisi nella trasmissione istituzionale della verità preconfezionata da parte delle amministrazioni statunitensi, grazie a una stampa e una televisione non sempre compiacenti, strumenti, tecniche e procedure si sono perfezionati e i conflitti “umanitari” per i “diritti umani”, che si sono succeduti a partire dalla prima guerra del Golfo, hanno permesso di sperimentare, rodare e consolidare un’imponente panoplia disinformativa, un vero e proprio “marketing della guerra”, dice l’Autrice del volume (p. 53), diffuso e tentacolare, sostanziato di diffuse complicità internazionali e corredato da morbose e conniventi pulsioni gregarie in ampie zone del lavoro giornalistico (si pensi al fenomeno degli embedded o, qui da noi, all’epidemia di servile acquiescenza alla parola e ai desiderata del Potere nelle redazioni di quelli che Marco Travaglio a suo tempo sarcasticamente battezza “giornaloni” [1] e che Luciano Canfora, nella presentazione del volume, oltre che della nuova Collana della Dedalo,[2] stilizza come “orchestra giornalistica”).
A ben vedere, il vertice di questa autentica perversione conformistica sembra esser stato solidamente guadagnato dai due episodi di scontro “caldo”, che dominano lo scenario attuale (largamente sormontanti le altre aree di crisi mondiale) risucchiando l’attenzione di un’opinione pubblica che deve tuttavia arduamente destreggiarsi tra la pletora di fatti e notizie, panzane e bagliori di realtà, ma soprattutto sviluppare organi di selezione della verità, che arginino la meticolosa mistificazione e i “depistaggi mediatici” (p. 56) sparsi nel racconto ufficiale.[3]
È per queste ragioni che tutto ciò che “scarta” dalla narrazione autorizzata e dal chiacchiericcio insistito degli addetti alla falsificazione sistemica costituisce un insostituibile antidoto e una misura primaria di igiene politica: aiuta a orientarsi utilmente nel groviglio e in quella (studiata) sovrabbondanza degli eventi, che complica la comprensione e seriosamente insinua un’asserita complessità come strumento di distrazione cognitiva, utile a confondere ulteriormente la conoscenza delle cose e lo stato della realtà.
Meritoria autrice di Donbass. La guerra fantasma,[4] testimone e documentarista in presa diretta della sorte degli “invisibili” (la massa anonima dei russofoni che in quell’area hanno subito e subiscono gli effetti dell'ormai decennale aggressione ucraino-occidentale), Sara Reginella mostra di non ignorare i dispositivi e i retropensieri che presiedono all’omissiva e reticente narrazione dominante invalsa sulla vicenda che oppone la Federazione Russa alla NATO (nella forma di uno scontro diretto tra il paese di Putin e quello del leader ucraino Zelensky). Così ripercorre rigorosamente le tappe fondamentali di una escalation, la cui tragica prevedibilità è tutta in carico alle irresponsabili élite occidentali, che ne favorirono il decorso imponendo il facile racconto binario dell’”invasore” famelico e arcigno, scatenato contro la vittima sacrificale di turno, l’Ucraina democratica, coraggiosamente contrastante le velleità neo-imperiali del Paese di Vladimir Putin (come il giornalismo televisivo, impegnato in furiosi corpo-a-corpo con la Storia o, più semplicemente con la rimozione tout-court, si affanna a certificare). In tal senso, l’Autrice irride l’opposizione manichea e scontata di democrazia e autocrazia, come esempio illuminante di “semplificazione retorica degli eventi” (p. 17), fatta propria da una screditata dirigenza europea, oggi largamente spiazzata dal rapido susseguirsi degli eventi.
Ma lo sguardo vigile ed esercitato della psicologa e psicoterapeuta “militante”, si distende ben oltre l’attualità e le semplificazioni retoriche che ne governano i ritmi, e la guerra come prodotto tra i prodotti diventa oggetto di una riflessione, tanto agile quanto puntuale, sulle modalità attraverso le quali essa viene letteralmente venduta, da parte di governi e società di pubbliche relazioni (p. 99) a quelli che ne diventano i fruitori e a loro volta propalatori mediatici, serbatoio del consenso e cassa di risonanza allargata disponibile a farsene massa critica (e passiva). Non a caso, l’Autrice mobilita la storia degli ultimi trent’anni per individuare i dispositivi di governo del marketing che, dalla caduta del Muro di Berlino, ha presieduto alla “promozione e vendita” (p.8) delle varie guerre succedutesi e che ha visto protagoniste soggettività plasticamente rappresentative dell’ethos occidentale, a cominciare dagli Stati Uniti d’America e dal miracoloso riciclo esistenziale della NATO. La cui resurrezione “inattualmente” offensiva si è nutrita dell’improbabile e assai tardiva scoperta dei “diritti umani” e della necessità di diffondere, finalmente, sul pianeta quella democrazia che Luciano Canfora ha sapidamente definita lo “scendiletto”[5]di un Occidente che drammaticamente coglie l’esaurirsi della propria funzione storica e arranca scomposto nel tentativo di tamponare la propria bancarotta di civiltà.
Le “stazioni” di un percorso ormai del tutto denudato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale prendono abbrivo più recente, nel vivace pamphlet di Reginella, dalla prima guerra irachena del 1991, che fabbricò il palinsesto di tutte le successive “operazioni di polizia internazionale”, secondo un copione che parve inizialmente godere anche di un certo successo, in un mondo disorientato dal terremoto seguito alla caduta dell’Unione Sovietica, ma che già allora faticava a occultare i retropensieri strutturali (e gli affanni) di una solitaria potenza unipolare, messa paradossalmente in crisi proprio dal venir meno dello “storico” nemico orientale, ma necessitata dalla bulimia del proprio complesso militar-industriale a inseguire inerzialmente il vettore di un’espansione asintotica[6]. Sarebbero seguite l’avventura balcanica, quella afghana, la seconda guerra del Golfo, quella siriana, libica, in una progressione significativa, che l’Autrice del volumetto fa “stilisticamente” originare, per acribia esplicativa, dagli anni successivi all’Operazione Condor, [7] allorché “i sistemi d’ingerenza e destabilizzazione [ vennero ] affinati, al punto da risultare, in alcuni casi, quasi invisibili” (p. 22). Finendo poi col rappresentare una sorta di radiazione di fondo delle politiche atlantiche a guida statunitense, pur nella varietà tattica e operativa delle iniziative escogitate, che ha costantemente accompagnato la strategia di consolidamento e rafforzamento della conduzione imperiale del pianeta. Il rinnovato input reaganiano di “promuovere la democrazia nel mondo” (con la fondazione nel 1983 del famigerato e ormai dimenticato NED – National Endowment for Democracy) si è così servito di un duttile arsenale materiale e immateriale, articolandosi con grande efficacia sul piano ideologico, quanto su quello della concreta messa in opera di dispositivi diversificati e procedure di modifica effettiva degli equilibri politici, tutti ampiamente beneficiari di cospicui flussi di finanziamenti.[8]
Tra i numerosi e multiformi “sistemi di destabilizzazione del mondo” (p. 22), l’Autrice segnala l’abile inserimento in organismi e movimenti più o meno spontaneamente dediti a iniziative di regime change, “organizzazioni formalmente impegnate nella diffusione dei principi democratici […] presenti in numerose realtà internazionali”, ispirate dalle “pratiche legate alla progettazione delle cosiddette rivolte civili teorizzate da Gene Sharp, fondatore dell’Einstein Institute, organizzazione specializzata nello studio dei metodi e delle strategie di resistenza non violenta”. Le stesse metodiche messe in pratica “nell’ambito delle cosiddette <rivoluzioni colorate>” (p. 23), hanno trovato fortunata diffusione anche in altri contesti: ad esempio, la Serbia dello spigliato movimento “Otpor!”, il cui simbolo era addirittura un civettuolo e accattivante pugno chiuso e i cui finanziamenti, da parte del NED compaiono negli stessi report dell’organizzazione americana. Ma la casistica, puntualmente descritta nel volumetto, si estende ai tanti eventi e “luoghi” analoghi, che hanno costellato la fase delle “ribellioni strumentali”, la cui infiltrazione, a scopo di “salvataggio”, ha consentito al “democratico sistema occidentale” di proporsi “come salvifico rispetto al resto del mondo”, sistematicamente creando “una narrazione che fornisse la legittimazione e il consenso internazionale favorevole a ulteriori cambi di regime” (p. 23), come più volte accaduto in America Latina, dove i leader nazionali hanno “ripetutamente denunciato ingerenze statunitensi volte al rovesciamento di governi non inclini a sottomettersi ai diktat occidentali” (p. 31). E dove episodi non contingenti di vera e propria macelleria (anche) eterodiretta hanno costellato l’eroica e spesso inascoltata via crucis di un difficile riscatto dall’arrogante Grande Fratello del Nord.
Molla e ragione formale di questa dinamica predatoria, ma anche cavallo di Troia di una pulsione culturale acquisitiva, “l’imperialismo dei diritti civili” (p. 37) [9], spesso coniugato a un uso spregiudicato della retorica delle minoranze, ha costituito lo specchietto per le allodole di tanta parte dell’opinione pubblica mondiale, convinta circa la finale inderogabilità di un meccanico trasferimento nelle realtà altre di quanto veniva ritenuto (certo, a seconda dei… contesti) il frutto più evoluto della civiltà “bianca”, in una sorta di ennesima e conclusiva sanzione della propria “convinzione di superiorità” (p. 38). E persino la “strumentalizzazione di tematiche ambientali”, brandita come “potente arma di propaganda all’interno di situazioni di conflitto” (p.40), come è accaduto ai danni di Evo Morales, Presidente progressista della Bolivia, è valsa a interferire con scaltrezza nell’autonomia delle realtà scomode, secondo una regia, che ha imparato a dosare accortamente qualsivoglia tematica, in chiave di rinominazione della realtà e stabilizzazione dello status quo. Per non dire dell’abile utilizzo delle problematiche Lgbtq nello stato di Israele, “come mezzo per distogliere l’attenzione dalle proprie responsabilità nei confronti del popolo palestinese” (p. 39).[10]
Il pur breve saggio di Sara Reginella riesce a elencare e documentare puntigliosamente luoghi, figure, organizzazioni, modalità operative e circostanze di formazione e costituzione della menzogna sistemica, i tanti spazi della sua disseminazione e distensione nel tempo, il cui segno storico-politico abbiamo imparato a riconoscere, ma la cui documentazione analitica e fattuale rimane affidata ai circuiti minoritari e alle voci di studiosi coraggiosi e indipendenti.
Le conclusioni del suo lavoro sono inquietanti, e confermano la diffusa sensazione che “la situazione in tema di libertà di stampa è [...] allarmante” (p. 119): azione tenace e determinata delle lobbies, controllo diretto e indiretto degli organi informativi, dialettica sperimentata di censure, omissioni e dosaggi informativi, governo esperto delle percezioni e dominio sul terreno del linguaggio da tempo lavorano a una “riscrittura della storia”(p. 72) e a “trasformare la guerra in un concetto glamour […] connesso a una migliore commerciabilità” (p. 56). A giustificare, in fondo, il nome di una collana editoriale che getta una luce sinistra sul futuro di tutti.
Note
[1]Al di là del contesto temporale, non ci si stancherà mai di suggerire in tal senso la lettura dell’imprescindibile Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de la Boétie (Milano, chiarelettere, 2012).
[2] Non a caso intitolata “Orwell”, in omaggio all’autore che “intuì il furore cieco del secolo successivo” (dalla seconda di copertina).
[3]Si pensi solo allo spudorato utilizzo del termine “guerra” per descrivere lo scontro in atto nella regione mediorientale, disinvoltamente sottratto alla sua macroscopica asimmetria, depurato e ricondotto, dalle redazioni di casa nostra, a un conflitto convenzionale tra compagini statuali o alla difesa dell’”unica democrazia mediorientale” dal “terrorismo”, diventato figura eponima del popolo palestinese, nella sua interezza e ontologia..
[4] Roma, Exòrma, 2021.
[5] Ne “La torre di Babele”, 29 aprile 2025.
[6]Si vedano gli insostituibili Gli ultimi giorni dell’impero americano (Milano, Garzanti, 2001) e Le lacrime dell’Impero. L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano (Milano, Garzanti, 2005) dello storico statunitense Chalmers Johnson.
[7]Come si ricorderà, il cruento piano di destabilizzazione dell’America Latina, convenzionalmente fatto risalire al 1975 e all’origine delle tante pagine sanguinose della storia di quel continente sotto l’egida di una rinnovata e più feroce “Dottrina Monroe”
[8]Nel caso dell’Ucraina, valgano le parole di Victoria Nuland: “Abbiamo investito oltre cinque miliardi di dollari per assistere l’Ucraina in questi e altri obiettivi che garantiranno un’ Ucraina sicura, prospera e democratica”, pag. 23.
[9]“… all’interno di una tendenza liberale molto sensibile ai diritti civili, ma assai lontana da quelli sociali”, pag. 38.
[10]“Israele ha strumentalizzato i corpi queer per contrastare qualsiasi supporto alla Palestina e qualsiasi critica al progetto coloniale”, nelle parole dell’organizzazione Queers in Palestine, ivi