In nome del cielo (Under the Banner of Heaven) è una miniserie televisiva statunitense creata da Dustin Lance Black in sette episodi, disponibile su Disney+, come Star Original, voto: 8-; serie davvero eccezionale nei primi cinque episodi, cala purtroppo molto nel penultimo e in parte nell’ultimo episodio. Si basa su una storia vera, esemplare del principale pericolo interno negli Stati Uniti d’America, cioè la violenza dei gruppi fondamentalisti religiosi di estrema destra. Molto significativi i due protagonisti, un investigatore mormone e un un investigatore nativo, il primo dei quali prende progressivamente consapevolezza di tutti gli aspetti assurdi e criminali che caratterizzano la storia della sua setta religiosa, cioè i mormoni. Emerge così uno dei tanti aspetti davvero terrificanti della storia degli Stati uniti e della colonizzazione del paese che ha prodotto, fra l’altro, il genocidio dei nativi.
Il servo di Joseph Losey, drammatico, Gran Bretagna 1963, voto: 7,5; grande classico del cinema ripresentato in versione restaurata in prima visione, non tradisce le aspettative. Il film è dal punto di vista formale decisamente impeccabile. Il contenuto anche è significativo, anche se nella società capitalista il rapporto fra servo e signore ha perduto la centralità che svolgeva nelle società precedenti. Così, più che un superamento del servo nei confronti del signore, abbiamo piuttosto la messinscena della reciproca rovina delle classi in lotta. Al solito, nel cinema dei grandi registi borghesi abbiamo una significativa critica sociale, ma una scarsa prospettiva di superamento dialettico della società esistente, che rende tali opere prive di catarsi e, quindi, delle tragedie insoddisfacenti, che lasciano con l’amaro in bocca lo spettatore.
Don Giovanni di Mozart, esecuzione in forma di concerto, Orchestra da Camera Canova diretta da Enrico Saverio Pagono, Gruppo polifonico Josquin Desprez diretto da Francesco Miotti, con Vittorio Prato, concerto inaugurale de I concerti dell’aula magna dell’Università La Sapienza di Roma, voto: 7+; sebbene in forma di concerto, finalmente, dopo un numero assurdo di anni, torna a Roma una delle più straordinarie opere di tutti i tempi. Certo la fruizione in forma di concerto per chi non conosce davvero bene l’opera è piuttosto faticosa e certo non aiuta il mancato ricorso ai sottotitoli da parte degli organizzatori. D’altra parte gli interpreti, per quanto spesso molto giovani, sono portati dall’opera stessa a dare il meglio di sé, mettendoci tutta l’attenzione e l’impegno di chi deve ancora affermarsi.
Cinque giorni al Memorial, miniserie drammatica statunitense del 2022, ideata da John Ridley e Carlton Cuse, in otto episodi, distribuita in Italia da Apple +, voto: 7. Miniserie molto interessante sulla strage conseguente all’uragano Katrina, catastrofe “naturale” – naturalmente prodotta dal modo capitalistico di produzione, che impedisce ogni sano ricambio organico fra uomo e natura – e sfruttata per ripulire la città dai poveri afroamericani e favorire la gentrificazione dell’affascinante centro di New Orleans. Si è trattato dell’ennesimo disastro non solo prevedibile, ma in buona parte previsto, che ha mostrato ancora di più il profondo razzismo indistricabilmente connesso con il classismo così caratteristico dell’imperialismo statunitense. In tale disastro tutto il sistema è colpevole e complice, dai più alti piani dell’amministrazione, fino agli ultimi esecutori, infermieri caucasici, impegnati a ripulire la scena del delitto da poveri afroamericani impossibilitati a difendersi a causa della malattia. Naturalmente si trattava di fare di questo caso troppo eclatante, la classica mela marcia, da togliere di mezzo per preservare la presunta bontà delle altre, colpendo i più umili esecutori della strage. Come spesso avviene, la “giustizia” è così classista e razzista e i gruppi di potere hanno una concezione talmente corporativa e castale per cui, alla fine, anche gli ultimi davvero impresentabili esecutori vengono del tutto scagionati e divengono niente meno che degli eroi, almeno agli occhi dei loro colleghi.
La serie ha dei punti di forza che sono al contempo dei punti di debolezza e che coincidono, a grandi linee, con la grandezza e i limiti di un’opera d’arte nel mondo contemporaneo. L’opera non può affrontare una grande questione sociale, come quella alla base del film, in modo sistematico, come pure andrebbe trattata, ma se ne può occupare, necessariamente, solo da un punto di vista particolare sensibile, attraverso le vicende di alcuni uomini in carne e ossa. D’altra parte, pur narrando eventi particolari, facendolo in modo realistico, riesce a rinviare attraverso essi all’universale.
D’altra parte, si corre talvolta il rischio di perdersi dietro casi particolari di scarso interesse e di incentrare troppo la vicenda sul vano sforzo di condannare quanto meno i capri espiatori di fatto selezionati dallo stesso sistema.
Inoltre la miniserie tende a presentarsi formalmente, per rafforzare il realismo, come se si trattasse di un reportage, di un’inchiesta, con gli autori che sembrano fare il possibile per evitare di prendere posizione, limitandosi a esporre gli eventi nella loro intrinseca complessità e contraddittorietà. Così abbiamo dei personaggi fin troppo particolaristici, che hanno però anche una valenza tipica. Il fatto che gli autori non prendano apertamente parte nelle pur tragicamente sconvolgenti vicende trattare, rende più interessante e straniante la vicenda narrata, lasciando molto su cui riflettere allo spettatore. Ciò non toglie che si resta un po’ basiti per la mancanza di indignazione e di empatia dimostrata da autori e produttori. Certo la serie insegna a non pensare astrattamente, in modo intellettualistico e, quindi, a cogliere anche nell’esecutore materiale di un elevato numero di crimini oltre al freddo assassino anche un essere umano persino, a sua volta, vittima del sistema. Dall’altra parte si ha l’impressione che la serie non possa o non abbia il coraggio di mettere realmente in discussione il sistema neanche nei suoi aspetti più indifendibili e raccapriccianti.
Anche la questione della catarsi e della prospettiva di superamento nel finale della tragedia rappresentata resta aperta. Da una parte c’è l’impianto realista e la forma quasi documentaristica che impedisce di individuare e far emergere un’alternativa reale, dall’altra la serie dimostra a ragione come persino nelle stesse tragiche vicende colleghi possano assumere posizioni etico-morali anche radicalmente contrapposte. Così, dinanzi alle scelte criminali degli esecutori materiali, abbiamo altri medici che nelle stesse difficoltà e contraddizioni reagiscono in modo ben diverso. D’altra parte non ci si può più sempre e solo limitare a rappresentare la realtà nella sua tragica e contraddittoria complessità, ma si tratta anche di individuare la possibilità di poterla giudicare con dei criteri rigorosi all’interno di una prospettica etico-politica. Quest’ultimo aspetto resta il principale difetto degli audiovisivi statunitensi che si confermano, d’altra parte, decisamente egemoni a livello internazionale.
The Boys, serie televisiva statunitense ideata da Eric Kripke per conto di Amazon, terza stagione, episodi dal quattro all’ottavo, voto: 7-; la serie si mostra efficacissima nel decostruire e criticare nel modo più radicale il superomismo dei super eroi e la falsità e ipocrisia del sogno americano. Riesce a divertire lasciando diversi spunti di riflessione allo spettatore, in particolare sviluppando una efficace critica alla narrazione ideologica della storia degli Stati uniti e criticando in modo estremamente efficace la destra repubblicana. Resta il consueto problema dell’alternativa, impossibile da ricercare sul piano internazionale, in quanto nella critica degli altri paesi domina incontrastata l’ideologia dominante filoimperialista. Anche sul piano interno non solo non c’è un soggetto sociale subalterno e oppresso pronto a dar battaglia, ma si finisce come al solito a portare lo spettatore a immedesimarsi nella sporca dozzina che, con metodi molto discutibili, svolgerebbe il presunto “necessario” lavoro sporco. In definitiva l’unica potenziale alternativa compare nei manifesti nelle case dei personaggi afroamericani, certamente i meno negativi delle serie, che richiamano la memoria storica del grande movimento rivoluzionario di emancipazione delle Pantere nere.
Due donne - Passing, regia di Rebecca Hall, drammatico, Usa 2021, vincitore di diversi premi, fra cui la nomination per la migliore opera prima e per il miglior film britannico, voto: 6,5; film che affronta un tema sostanziale, cioè le durissime condizioni degli afroamericani negli Stati Uniti, quando appena un secolo fa vi erano costanti linciaggi con atti di sadismo spaventosi. Il film è incentrato sul dramma di una mulatta che si finge caucasica e sposa un marito razzista. Tuttavia sente la nostalgia per il proprio mondo, in particolare quando incontra di nuovo una sua amica che è, peraltro, una delle protagoniste della Harlem reinassance. Nel film abbiamo finalmente un’alternativa, ma manca la catarsi e soprattutto la lotta contro il razzismo. Il film, per altro ben confezionato, finisce per perdersi nel rapporto fra le due amiche, divenendo alquanto soporifero.
La stranezza di Roberto Andò, commedia, Italia 2022, con Toni Servillo, Salvo Ficarra, Valentino Picone, voto: 6+; il film è ben confezionato e alquanto gradevole, ma si dimostra privo di contenuti sostanziali e significativi da comunicare allo spettatore. Il regista si diverte a mettere in scena Pirandello al modo di Pirandello. La trovata è certamente di maniera e un po’ scontata e non ha nulla, naturalmente, a che vedere con le innovazioni essenziali introdotte da Pirandello nel dramma moderno. Resta, comunque, certamente valida la trovata di affiancare un personaggio di altissimo spessore artistico, impersonato da un grande attore drammatico, a due personaggi da commedia, impersonati da due comici di rango inferiore. Al di là delle trovate e della buona prova degli attori, al di là di una regia che si sottrae ai principali vizi del cinema italiano, il film lascia troppo poco su cui riflettere allo spettatore.
Hustle, regia di Jeremiah Zagar, commedia, Usa 2022, distribuito da Netflix, voto: 6. Si tratta di un film ben confezionato e coinvolgente sulla difficoltà di emergere, anche a livello sportivo, per chi ha il gravissimo handicap di dover fare l’operaio per sopravvivere. Per quanto piacevole, in particolare per chi ama il basket, il film lascia troppo poco di sostanziale su cui riflettere allo spettatore.
Black Bird di Michaël R. Roskam, Joe Chappelle e Jim McKay, serie in sei episodi, thriller, Usa 2022, su Apple tv+, voto: 4; serie del tutto anonima, priva di ogni qualità: risulta noiosa, poco realistica, scarsamente tipica, con un protagonista pessimamente interpretato. Colpisce la cultura reazionaria dominante negli Stati Uniti che ragionando in modo astratto e intellettualistico è in grado di cogliere nel serial killer soltanto il criminale e non anche la vittima e il malato mentale. Inoltre l’unico supporto psicologico di cui l’autore dei crimini avrebbe certamente bisogno ci viene presentato come un personaggio del tutto negativo, che pone degli assurdi limiti, a chi mira esclusivamente a mantenerlo recluso per tutta la vita. Siamo, dunque, di fronte all’ennesima dozzinale e reazionaria denigrazione degli intellettuali dinanzi ai macisti sostenitori di legge e ordine, pur essendo in realtà, anche loro, dei notevoli delinquenti.
Cyrano di Joe Wright, musical, Gran Bretagna, Italia, Canada e Usa 2021, voto: 3; film assurdamente sopravvalutato; sebbene sia insostenibile sotto tutti i punti di vista, ha ricevuto diverse nomination persino un ambito premio come miglior film brillante. Particolarmente di cattivo gusto sono indubbiamente gli intermezzi musicali, che dovrebbero essere, paradossalmente, il punto di forza caratteristico del film.