Se la rivoluzione d'Ottobre ha avuto successo è per la capacità dei bolscevichi di rappresentare le richieste non solo della classe operaia, ma anche dei contadini e di popolazione non russe.
Domenico Moro centra il problema. Oggi la classe operaia è troppo debole, frammentata e priva di una rappresentanza politica egemone. La circostanza assume particolare rilievanza in tempi di crisi. Sullo sfondo si agita la decadenza della nazione e l’equivoco creato dall'equiparazione di sovranità e sovranismo. È andata perduta ogni concezione nazionale che sappia riunire attorno a una proposta politica conflittuale i bisogni e le rivendicazioni dei soggetti colpiti dalle politiche di austerità.
La ricomposizione della classe lavoratrice salariata dovrebbe essere prioritaria, ma servirebbe un’analisi avanzata e lo strumento organizzativo politico e sociale per unire la classe ai settori intermedi della società, tutti colpiti da disoccupazione di massa e dalla crescente disuguaglianza salariale e sociale, mentre le politiche di austerità e l’Euro indirizzano la ricchezza prodotta verso la rendita e i profitti e non a favore del lavoro e delle classi subalterne.
Moro analizza le ragioni storiche dello scetticismo nei confronti della stessa idea di nazione. La debolezza dello Stato nazionale è stata del resto alimentata dalle teorie negriane dell'Impero. La stessa Unione Europea è stata presentata asetticamente come il superamento dei limiti statali, omettendo il ruolo da essa svolta nei conflitti sociali. Al contrario, l’Unione ha determinato un deciso arretramento delle classi subalterne alimentando le privatizzazioni e la contrazione del pubblico e le disuguaglianze economiche e sociali. In tal modo il processo di unificazione della moneta e la costituzione della Ue hanno solo favorito e accelerato il dominio della classe padronale su quella lavoratrice e accentuato la debolezza di quest’ultima. L'assenza di un partito e di un sindacato forte e conflittuale rende difficoltosa se non impossibile la costruzione di una opposizione ai processi in atto e alla crisi, accelerata dalla pandemia.
Per Moro l’Euro è lo strumento con cui è stata prima indebolita e poi neutralizzata la resistenza delle classi subalterne. Nei prossimi mesi si metteranno in moto processi di ristrutturazione selvaggi e, in nome della sostenibilità ecologica e del contenimento dei contagi, partiranno decine di migliaia di licenziamenti con un’ulteriore perdita di potere di acquisto dei salari anche “come conseguenza dei tassi di cambio fissi”.
L’autore quindi ha ben presente che i benefici dell’Euro sono solo a vantaggio delle élite capitalistiche: per fronteggiare la tendenza alla caduta del saggio di profitto sarà proprio l’integrazione valutaria a produrre acquisizioni di aziende, riduzioni salariali, processi di concentrazione dei capitali e delle imprese con un bagno di sangue per la classe operaia.
Se i padroni, e i loro media, ritengono impossibile l’uscita dall'Euro, perché la classe operaia non inizia a porsi alcune domande? La fine di ogni autodeterminazione nazionale e l’indebolimento degli Stati nazionali, la loro sovranità finanziaria e monetaria sono forse stati un fattore positivo per la classe operaia? La risposta di Moro è negativa.
Da anni assistiamo a una riorganizzazione dello Stato nazionale, e non alla sua scomparsa. Il potere politico è sempre intervenuto, ma con provvedimenti che hanno favorito le imprese (uso degli ammortizzatori sociali e soldi a fondo perduto per le aziende) o le banche (salvataggio di alcuni istituti di credito con i soldi pubblici) proprio quando conteporaneamente venivano tagliati i salari, ridotto il welfare e innalzata l’età pensionistica.
Da anni i comunisti non hanno più una loro lettura del ruolo dello Stato e della organizzazione degli stessi rapporti sociali, il che condiziona anche la lettura della crisi sistemica e vanifica la costruzione di una alternativa di classe al dominio delle élite.
In presenza del campo socialista la classe operaia, detenendo una maggiore forza, aveva conquistato, anche nello Stato borghese, spazi crescenti di democrazia e libertà e ottenuto che quote significative di ricchezza venissero indirizzate verso i salari e il welfare. Sono alcuni dei risultati di rapporta di forza favorevoli, ma anche della presenza di una Carta costituzionale avanzata alla cui scrittura avevano contribuito in maniera decisiva i comunisti. Ma dopo i 30 anni gloriosi sono arrivati lustri di cedimenti, sconfitte culturali e politiche, arretramenti sociali. Dalla crisi del 1974/75 in poi è stato sempre più grande il ripiegamento della classe lavoratrice accompagnato da una accentuata offensiva delle élite in ogni ambito, sociale, economico, culturale, politico.
Il restringersi degli spazi di libertà, partecipazione e democrazia sono stati determinanti per costruire le basi sulle quali è nata l’Ue, e l’Euro ha favorito il definitivo rovesciamento dei rapporti di forza a solo svantaggio delle classi subalterne.
Tornando alla parte finale del testo di Domenico Moro, è indubbio che siamo di fronte a un vero e proprio documento politico in cui si danno indicazioni contingenti e di prospettiva all’agire dei comunisti.
Prendiamo ad esempio alcune campagna quali la difesa dell’ambiente, della sanità e del lavoro. La crisi da Covid è espressione di una crisi ben più profonda e senza un deciso intervento statale i meccanismi stessi di accumulazione capitalistica entrano in crisi. Se non si rimettono al centro dell’agire politico e dell’analisi la critica e l’opposizione alla Ue, la cosiddetta integrazione europea e valutaria, anche le singole lotte tematiche sono destinate all’insuccesso.
L’integrazione sotto l’Euro è arrivata con un attacco complessivo al lavoro e alla classe. Attaccare dunque l’Euro significa contrapporsi al capitale, individuare le contraddizioni e riaprire un dialogo con le classi subalterne colpite dai processi di ristrutturazione capitalistica nel vecchio continente. L’Euro è una risposta reale alla crisi del capitale. I sovranismi delle destre non sono contro l’unione valutaria; ripropongono invece i meccanismi del vecchio Stato nazionale nei quali la subalternità delle classi popolari e la divisione degli sfruttati restano elementi dirimenti per il sopravvento delle élite. La lotta contro l’Euro al contrario significa per Moro distaccarsi dalla politica tradizionale per contrapporsi all’accaparramento da parte di pochi delle risorse pubbliche, contrastando così su un piano non solamente umanitario le manifestazioni tristemente note di xenofobia e leaderismo che scaturiscono da anni di governance e dal restringimento degli spazi di libertà e democrazia.
La lotta contro l’Euro invece, sempre per l'autore, è una lotta per riconquistare spazi di democrazia, di partecipazione e di libertà, favorendo il protagonismo delle classi lavoratrici.
Moro ripropone, proprio nelle ultime pagine del suo testo, una idea – e una pratica – diversa della politica, da non identificare con le dispute elettorali o con le battaglie referendarie. Quello che manca è un’iniziativa contro i meccanismi dell’austerità imposti dalla Ue, meccanismi che hanno sancito l’arretramento delle classi lavoratrici. Per queste ragioni ogni rivendicazione futura non potrà prescindere dalla contrapposizione all’Euro, per fondare la lotta politica su una visione ad ampio raggio; una sorta di strategia complessiva che necessita di tattiche e strategie. E su questo punto il dibattito tra comunisti non potrà che aprirsi.
L’Euro non riguarda solo la riorganizzazione dell’economia capitalista ma della stessa forma statale. Con la sua introduzione la forma dello Stato sovranazionale ha risposto all’esigenza di rilanciare i processi di accumulazione del capitale e allo stesso tempo ha indebolito il potere contrattuale e di acquisto della classe lavoratrice.
Le origini della Ue affondano nel mito dell’Europa del libero commercio e dei mercati su cui si basava il Manifesto di Ventotene e già alla fine degli anni Ottanta le élite avevano preconizzato una Europa unita come migliore risposta alla tutela dei loro interessi.
La democrazia del sorteggio, il maggioritario, la riduzione del numero dei parlamentari fanno parte delle modificazioni intervenute nei rapporti tra i poteri dello Stato. Quindi anche la lotta contro la casta di grillina memoria è stata funzionale ai processi di contrazione degli spazi di libertà e democrazia.
Cambia il concetto di sovranità statale, viene cancellata non la sovranità nazionale ma piuttosto quella democratica e popolare (da non confondersi con un governo di popolo inattuabile con gli attuali rapporti di forza). A partire dagli anni Ottanta l’Ue diventa l’ambito privilegiato nel quale far passare i processi di ristrutturazione e le decisioni dirimenti per il capitale, che incontravano difficoltà a passare nei parlamenti nazionali. Nel corso degli anni le “anomalie” delle singole nazioni sono state piegate alle regole europee determinando il sostanziale arretramento delle classi subalterne.
I trattati europei impongono agli Stati nazionali la perdita di sovranità e dettano le linee guida, per i parlamenti nazionali, nel nome delle politiche di austerità, concretizzando così le indicazioni della Trilaterale (metà degli anni Settanta) che preconizzavano la govenabilità a livello europeo. Con il venir meno della sovranità democratica e popolare si registra l’arretramento delle libertà democratiche e dell’azione sindacale e politica.
Non bisogna identificare lo Stato solo come dominio delle classi dominanti, è anche questo, ma proprio l’assenza di una visione comunista dello Stato costituisce una causa della crisi del movimento comunista. L’Euro non è quindi solo un progetto monetario ma un disegno politico contro il quale i comunisti non hanno mai fatto i conti.
Da qui bisogna ripartire.
(Fine)