Eurosovranità o democrazia? (prima parte)

L’affermazione dell’Ue e l’introduzione dell’euro hanno determinato la centralizzazione dei capitali, la riduzione dei salari e delle pensioni, i tagli ai servizi sociali e alla democrazia. I lavoratori devono battersi per la sovranità democratica.


Eurosovranità o democrazia? (prima parte)

“La conseguenza principale della Uem non è stata la eliminazione della sovranità nazionale dello Stato ma la modificazione dei rapporti di forza tra le classi all’interno dello Stato … l’obiettivo della classe lavoratrice non è tanto la rivendicazione della sovranità nazionale quanto il recupero e l’allargamento dei livelli precedenti di sovranità democratica e popolari” (Domenico Moro)

 È uscito da poco per i tipi di Meltemi Eurosovranità o democrazia?, l’ultima fatica di Domenico Moro, un libro agile e ricco di spunti del quale consigliamo vivamente la lettura. Prendiamo solo alcune parti del testo, i primi capitoli, per sviluppare qualche ragionamento.

 Chi pensava, come Negri, che il nuovo secolo sarebbe stato segnato dalla “costruzione di un impero capitalista” unificato con la fine degli Stati nazionali dovrà ricredersi anche alla luce dell’attuale crisi sistemica derivante dalla pandemia. Non solo l’Europa unita non ha decretato la fine degli Stati nazionali, ma siamo lungi dal costruire una democrazia assoluta nell’impero, anzi si stanno restringendo gli spazi di libertà e di partecipazione come dimostra lo stato emergenziale in vigore da mesi e la competizione esistente tra Stati e tra imperialismi a livello planetario e nella stessa Ue.

 Moro parte dall’analisi del Pepp, il programma di  acquisti emergenziali in epoca pandemica (pandemic emergency purchase program) che prevede l’acquisto di 1350 miliardi di titoli di Stato europei. Sappiamo che le banche centrali non possono acquistare i titoli di Stato dei rispettivi Stati europei. Alla stessa Bce è stata inibita la possibilità di farlo nel “mercato primario”, cioè direttamente presso gli Stati emittenti. Può farlo però indirettamente, presso il sistema bancario. La novità sta nel fatto che lo sta facendo non in proporzione alla quota capitaria di ciascuno Stato ma in proporzione al rispettivo debito, cosa che è osteggiata, come sappiamo, dall’Alta Corte tedesca. In ogni caso, visto che è la Bce ad acquistare i titoli dei paesi europei e che non esiste più una banca nazionale a finanziare il debito pubblico, viene meno la sovranità nazionale: ogni paese non potrà ricorrere, al contrario di Gb, Usa e Giappone, alla sua banca centrale e al finanziamento attraverso l’acquisto da parte di quest’ultima di titoli pubblici. Il rischio è che che l’Ue faccia acquisti nei singoli paesi, motivati dal contenimento dello spread, creando ulteriori disparità economiche e sociali.

 La paura, sempre più fondata, è che senza uno Stato forte possano partire  acquisizioni, a basso costo, di porzioni importanti del sistema produttivo nazionale senza dimenticare poi gli aiuti del Recovery destinati al rafforzamento delle aziende più avanzate e capitalisticamente competitive, a discapito delle altre e con la inesorabile crisi occupazionale.

 L’Ue, di fronte alla crisi pandemica, ha palesato tutti i suoi limiti. È stata costretta a concessioni ai singoli Stati nazionali che proprio negli ultimi mesi hanno chiesto, e ottenuto, di rivedere le regole relative all’indebitamento. Paesi come la Francia sono corsi a difendere il capitale nazionale acquistando quote azionarie di imprese in difficoltà. Ricordiamo che gli aiuti statali nazionali sono stati fortemente compressi dalla Bce e la Commissione europea prevede solo sei o sette anni di nazionalizzazioni eventuali delle imprese, un intervento di salvataggio a cui  seguirà il ritorno delle aziende ai privati.

 La competitività di mercato finisce con il cancellare ogni atto di indirizzo e controllo ma soprattutto la proprietà pubblica. Del resto il decreto Rilancio prevede la possibilità di intervento da parte della Cassa Depositi e Prestiti ma con la governance di impresa che è previsto resti saldamente detenuta dalle imprese stesse.

 Se le previsioni imperiali di Negri sono smentite dal ruolo degli Stati nazionali, resta la subalternità degli interventi pubblici agli interessi del capitale e delle grandi multinazionali in una epoca di crisi nella quale il nostro paese non ha ancora raggiunto i livelli di Pil antecedenti al 2008 e annuncia la perdita di 400 mila posti di lavoro nei prossimi mesi e una flessione della produzione superiore alla media europea (al 12% rispetto alla media Ue del 10%).

 La classe politica e industriale italiana ripone grandi speranze nei soldi europei, ma gli Stati nazionali dovranno rimborsare il debito della Ue e aumentare il loro contributo al bilancio europeo, senza menzionare le altre condizioni imposte per prestiti e soldi a fondo “perduto” che determineranno politiche di austerità, liberalizzazioni, riduzioni dell’intervento statale, chiusura di aziende ritenute obsolete e non competitive, processi di precarizzazione e l’aumento dello sfruttamento. I finanziamenti verranno subordinati al piano presentato dai paesi. Ci saranno obiettivi da raggiungere con vari step e controlli della Bce che valuterà il raggiungimento degli obiettivi prefissati per accedere ai fondi.

 Non serve allora rimpiangere gli Stati nazionali precedenti all’Unione Europea e men che mai cadere nell’equivoco nazionalista. Veniamo da anni nei quali le principali multinazionali europee sono divenute sovranazionali spostando la loro sede in paesi diversi da quelli nei quali sono nate. L’accumulazione e il profitto non avvengono più su base nazionale come nei trenta anni “gloriosi”; è sufficiente guardare a quanto accade con le industrie metalmeccaniche tedesche, francesi e italiane.

 I cambiamenti profondi del capitalismo hanno portato alle delocalizzazioni, al controllo dei movimenti internazionali di merci, tecnologie, capitali e materie prime, alle guerre per il controllo dei corridoi, dei mercati e delle fonti energetiche. Rispetto a 50 anni fa lo Stato non è più determinante per sostenere l’economia e il Pil attraverso l’acquisto di titoli da parte delle banche centrali (che nella Ue non esistono più); anzi il debito pubblico è stato l’ostacolo da superare per costruire imprese multinazionali capaci di operare a livello planetario. Ma proprio in epoca pandemica, il ruolo degli Stati nazionali si dimostra tutt’altro che superato anche se le attuali regole comunitarie dimostrano, giorno dopo giorno, limiti così grandi da non riuscire a superare le criticità imposte dalla crisi.

 Il problema non è allora  quello di contrapporre gli Stati nazionali di un tempo alla attuale Ue: la questione nazionale per Moro va invece inquadrata nelle contraddizioni attuali e nella lotta tra capitale e lavoro se vogliamo rappresentare gli interessi reali dei salariati e delle classi subalterne unificandole a livello europeo. Sta qui la differenza principale con il cosiddetto cosmopolitismo che prescinde dalle nazioni e si basa su un carattere individualistico, in aperta antitesi a una visione di classe antagonista al capitale.

 E qui subentra una concezione dello Stato ben diversa da quella che ha portato alla nascita dei paesi europei e delle élite aristocratiche e finanziarie che hanno fatto il bello e il cattivo tempo per decenni. Ma è proprio quel cosmopolitismo a favorire oggi la internalizzazione dei capitali e i meccanismi di integrazione delle élite che passano dalla guida degli Stati nazionali alla direzione di multinazionali e organismi sovranazionali e viceversa.

 Non si tratta di rinnegare Lenin che definiva la forma statale la più idonea al capitalismo moderno. Del resto Lenin parlava anche dell’unione dei capitali a livello internazionale per superare barriere ed estendere/rafforzare gli interessi capitalistici e i processi di accumulazione. Il rapporto tra Stati nazionali e capitali va analizzato in termini storici e materiali, così l’attuale Unione Europea va vista da una parte come superamento dei limiti statali nazionali per favorire i processi di accumulazione su base sovranazionale in una epoca nella quale la tendenza alla caduta del saggio di profitto porta a processi radicali di cambiamento. L’esito dell’affermazione dell’Ue ha comunque  portato non solo alla privatizzazione delle aziende statali ma anche alla perdita di democrazia, libertà e sovranità reale: sono stati cambiati i sistemi elettorali per favorire la governance, sono state stravolte regole e legislazioni in materia di lavoro, welfare, pensioni.

 Il rapporto tra Stato e nazione  andrà visto dentro i processi reali capitalistici. L’Ue ha determinato la riduzione dei salari e delle pensioni, ha decretato la fine del capitalismo obsoleto e nei prossimi mesi attuerà radicali processi di ristrutturazione. L’introduzione dell’euro ha  favorito la centralizzazione dei capitali europei perché raggiungessero dimensioni tali da competere nel mondo. Qualcosa di simile accadrà nei prossimi mesi per favorire  i processi di accumulazione capitalista entrati in crisi con la pandemia e mai ripresisi dalle crisi del 2007/8.

 Il contenimento del debito è funzionale a spostare capitali verso le imprese; crescono i capitali e le disuguaglianze economiche e sociali; nei singoli paesi le politiche di austerità hanno prodotto drammi sociali, povertà e disoccupazione di massa, creando le condizioni favorevoli all’ascesa delle forze politiche razziste e xenofobe con un quadro politico decisamente stravolto nell'arco di pochi anni.

 Non serve il richiamo alla cosiddetta sinistra se questa sinistra è funzionale agli interessi del capitale. L’Ue e l’Euro hanno colpito la classe lavoratrice per favorire i processi di riorganizzazione e di accumulazione capitalistica, ridotto la forza lavoro pubblica, favorito la precarizzazione del lavoro e la perdita del potere di acquisto e di contrattazione della classe lavoratrice sullo sfondo dei processi di liberalizzazione e privatizzazione. Non si contrasterà il razzismo con posizioni umanitarie ma unificando la classe lavoratrice migrante con quella autoctona.

 I meccanismi della Ue e dell’euro non si sono dimostrati all’altezza della situazione. Al contempo il razzismo e il rinnovato nazionalismo delle destre sono il prodotto dei processi di riorganizzazione capitalistica e per Moro anche del mancato controllo da parte degli Stati europei dei processi di immigrazione, fermo restando che  l’arrivo dei migranti resta, per lui, una contraddizione tutta interna al capitale europeo.

L’euro non ha nulla a che vedere con la nazione, ma solo con la natura classista dello Stato. Di questo e di altro parleremo in una seconda recensione per ragionare di Stato, sovranità e rapporti di classe che poi sono i capitoli più interessanti del testo di Moro. (Segue)

16/10/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

Condividi

L'Autore

Federico Giusti

Pin It

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

Newsletter

Iscrivi alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato sulle notizie.

Contattaci: