A differenza che in Platone, l’etica per Aristotele non è qualcosa di artificiale – che va instillato dall’esterno nella mente dei cittadini, attraverso la formazione pubblica e le legge – non è un dover essere, ma è qualcosa che già è, ossia è presente nella natura stessa dell’uomo come animale sociale e politico e nella società greca, rappresentando l’ethos collettivo. Allo stesso modo le passioni non sono più considerate qualcosa di essenzialmente irrazionale, che la ragione deve combattere e sottomettere, ma divengono qualcosa di naturale e anzi il fondamentale movente delle azioni umane. Resta il fatto che anche per Aristotele è essenziale fare un buon uso delle passioni, sottoponendole al vaglio della ragione.
Inoltre è apparentemente poco comprensibile, dopo che Aristotele ha tanto insistito sull’autonomia della filosofia pratica rispetto a quella teoretica, l’asserita superiorità – alla fine dell’Etica nicomachea – della vita dianoetica, dedicata alla ricerca e al pensiero, rispetto alla vita etica. Tale problematica conclusione serve ad Aristotele per difendere il ruolo centrale del filosofo e della sua capacità di raccordare le diverse scienze particolari. Tale tendenza verrà presto abbandonata dai discepoli di Aristotele che finiranno ognuno per dedicarsi a una scienza particolare.
L’etica di Aristotele avrà grande successo per alcuni dei suoi aspetti paradossalmente più deboli, ovvero il suo anacronismo e la sua astoricità. L’etica di Aristotele, con al suo centro l’individuo libero all’interno della polis, è indubbiamente anacronistica dal momento che si sviluppa nell’epoca in cui il dominio macedone metteva decisamente in discussione libertà e diritto di cittadinanza. D’altra parte tanto nei greci e poi nei romani resterà la nostalgia per la dimensione della polis e per la libertà di un cittadino non ancora ridotto a suddito.
Vegetti passa, dunque, nel capitolo VII a occuparsi delle concezioni dell’etica in età ellenistica. In tale epoca le libertà conquistate dai cittadini nell’epoca d’oro delle poleis tendono a divenire sempre più “difficili”, sempre più limitate e a rischio con l’affermarsi di monarchie assolutistiche. In tale contesto la libertà dell’individuo, essenziale per Aristotele, viene sempre più messa in discussione dall’esterno dal ruolo sempre più preponderante del destino, che diverrà provvidenza, e dall’interno dal ruolo sempre più importante che assumono le passioni.
D’altra parte per gli stoici l’anima torna a essere unitaria e razionale, di contro alla sua scomposizione in Platone e Aristotele che coglievano al suo interno anche momenti irrazionali, non di rado persino preponderanti. In tal modo, però, era messa in discussione ancora di più la libertà interiore degli individui, difendere la quale è essenziale per gli stoici data la perdita della libertà del cittadino, divenuto suddito. Ecco, dunque, che le stesse passioni non siano più considerate degli elementi estranei, ma dipendono dalla ragione stessa, o meglio da un suo uso improprio, da errati giudizi e dal dare il proprio decisivo assenso a qualcosa di negativo o meglio di non vero. In quanto è sempre la ragione che deve dare il proprio attivo assenso al dato ancora passivo della rappresentazione, ma tale assenso non è sempre accordato in modo assennato.
D’altra parte le passioni, in quanto prodotte da un uso sostanzialmente depravato della ragione, non possono che essere per gli stoici negative, anzi sono intese come delle vere e proprie malattie dell’anima. Non c’è più spazio per quelle passioni che tanto in Platone, quanto in Aristotele potevano divenire anche positive e anzi svolgevano un ruolo essenziale per la stessa affermazione dell’eticità e della morale. Per gli stoici, al contrario, proprio perché il futuro è dominato dal destino ed è quindi immutabile, ogni preoccupazione e, dunque, passione, nei suoi riguardi assume una connotazione decisamente negativa. Così in età ellenistica, non solo per gli stoici, la filosofia assume un deciso e decisivo significato terapeutico, volto – dal punto di vista radicale degli stoici – a estirpare radicalmente il “morbo” passionale.
D’altra parte la necessità imprescindibile per gli stoici di affermare la libertà interiore, dinanzi alla generale perdita delle libertà esteriore, li porta a considerare in modo del tutto negativo il ruolo della sorte, della fortuna, in quanto rischia di mettere in questione anche la per loro necessaria e imprescindibile autodifesa della libertà interiore. Tuttavia, proprio per la perdita dei diritti di cittadinanza, tale difesa della libertà interiore diventa sempre più difficile, tanto da portare gli stoici all’atto di fede per cui, in realtà, il caso non esisterebbe, l’universo sarebbe sottoposto a un principio razionale; perciò la concezione del destino si svilupperà sempre più nel senso della provvidenza, non a caso poi centrale nel cristianesimo.
Il capitolo ottavo dell’Etica degli antichi è dedicato al mito del saggio. Il venir meno delle libertà garantite dalle polis porta la filosofia ellenistica a superare anche il profondo classismo proprio dell’eticità tradizionale greca. Dal momento che tutti hanno perso la libertà, non vi sono più differenze sostanziali fra ceti sociali e, anzi, si afferma così per la prima volta una concezione universale di eticità e morale. Ciò che conta è la saggezza a cui ognuno può e deve tendere.
Nel nono capitolo Veggetti affronta, in conclusione, la fine delle virtù e l’esodo dell’anima, quali tratti caratteristici dell’autunno del mondo antico. Nel secondo secolo dopo Cristo, le scuole filosofiche sono ormai tutte prese dall’attitudine da professori di filosofia, di disputare sulle posizioni prese dai grandi dei secoli passati. Così, la riflessione sull’etica sembra essersi fermata al terzo secolo avanti Cristo, con la sola eccezione degli stoici latini che, però, non sono filosofi di professione e hanno quindi scarsa influenza sulle scuole di filosofia che – anche dal punto di vista etico – tendono al sincretismo, in primo luogo fra tradizione platonica e aristotelica.
D’altra parte con l’allargarsi dell’impero la capacità di egemonia greco-romana tendeva, anche per la sua incapacità di rinnovarsi, a non rispondere alle esigenze dei cittadini provinciali dell’impero, che cominciarono a rivolgersi sempre più in massa al cristianesimo. In tale situazione di crisi, l’unica scuola di filosofia che mostrò capacità di rinnovamento fu quella platonica, con Plotino che – sintetizzando le diverse prospettiva dell’etica antica – le superò.
Le virtù tradizionali divengono solo strumentali alla liberazione dalla materia, ma non consentono di raggiungere il ritorno all’Uno-tutto, in quanto permangono nel dualismo. L’etica finirà per esser posta sempre più al servizio di ontologia e metafisica, per divenire infine un mero strumento della fede.
Questo Esodo dell’anima dalle virtù e, quindi, dalla dimensione etico-politica trova proprio nel platonismo l’unica significativa opposizione. In quanto proprio nelle correnti più radicali del platonismo permaneva viva la tensione al necessario ritorno del filosofo nel mondo della caverna per liberare tutti coloro che ne rimanevano, altrimenti, prigionieri.
Nel sua ottima Guida alla lettura della Repubblica di Platone Mario Vegetti affronta l’annoso problema della datazione dell’opera, spiegando che la data tradizionale (375) non è fondata, perché le opere antiche non venivano pubblicate e ci è noto che Platone lavorò alla revisione del suo capolavoro fino alla morte. Peraltro una versione dell’opera doveva essere nota prima del Timeo, delle Leggi e del Crizia, in quanto contengono un riassunto di quest’opera. Inoltre Vegetti ritiene che la sua composizione debba essere posteriore alle commedie di Aristofane Come le donne al parlamento, di cui Platone nel suo dialogo temerebbe gli strali. Da questo punto di vista è certamente più credibile la retrodatazione operata da Canfora, che vede più plausibilmente nell’opera del comico una satira delle tesi più radicali della Repubblica.
Più chiaro è l’ambito in cui si svolge il dialogo, che assume inizialmente la forma di una caduta di Socrate-Platone, che rappresenta la ripresa nel I libro da parte dell’allievo delle posizioni del maestro. A essa segue una risalita che porta alle rivoluzionarie proposte platoniche. I personaggi del dialogo sono tanto gli antagonisti con cui deve confrontarsi dialetticamente Socrate-Platone, quanto gli spettatori cui si rivolge l’autore, ossia quei giovani che avrebbero dovuto seguire le sue direttive per superare i limiti strutturali sia del modello oligarchico che del modello democratico. Di entrambi si mostrano i limiti, da cui sorge la necessità di un loro superamento rivoluzionario.
Il dialogo si sviluppa dall’esperienza storica del fallimento delle due forme tradizionali di governo dell’antica Grecia: oligarchia e democrazia. La prima era fallita al tempo dei trenta tiranni, dimostrando che era ormai impossibile pretendere di governare senza egemonia. La seconda era fallita con la condanna a morte di Socrate, che ne indagava limiti e contraddizioni, ritenendo i suoi dirigenti degli opportunisti che invece di educare le masse incolte, mirava a egemonizzarle in modo populistico. Nasce da qui la necessaria elaborazione di un modello radicalmente alternativo e degli strumenti atti a realizzarlo. A questo proposito bisogna partire dai limiti dei tentativi precedenti a cominciare da quello di Socrate che aveva dimostrato come da soli sfidare la città era un’attitudine avventurista volta alla sicura sconfitta. D’altra parte Platone mostra anche i limiti delle sue stesse concezioni, elaborate sulle orme di Socrate, nei dialoghi immediatamente precedenti: Gorgia e Fedone. In essi si partiva dal dato di fatto che il filosofo da solo non poteva che essere vinto dalla città, che criticava nei suoi lati irrazionali. Da qui l’idea di una via di fuga attraverso l’estraniarsi da questo mondo, sulla base di un radicale dualismo fra anima ideale e corpo materiale. Tale via era stata però falsificata dalle precedenti esperienze per cui, nonostante la non interferenza e l’impoliticità, il filosofo, come Socrate, era stato condannato a morte tanto dal governo oligarchico quanto dal democratico. Non restava dunque che assoggettare l’ambito politico della polis al superiore ambito della filosofia, l’ambito dei rapporti di forza, all’ambito razionale e perciò morale. A tale scopo Platone aveva bisogno di una organizzazione rivoluzionaria, cui mira attraverso l’Accademia, con cui elaborare progetti di trasformazione radicale dell’ordine e del pensiero dominante. A tale scopo c’era bisogno di preparare il terreno sul piano della battaglia delle idee cui è dedicata proprio La Repubblica.
Platone, d’altra parte, era ben consapevole che la battaglia delle idee andava dialettizzata con il tentativo della sua realizzazione sul piano della prassi e così si impegnò, come del resto fecero la più parte dei membri dell’accademia, nella politica attiva ogni volta che si apriva una reale possibilità di incidere.
La grande opera platonica si pone come una poderosa sintesi, che implica un superamento dialettico dei principali aspetti del pensiero filosofico e politico elaborato dal mondo greco, che era stato a sua volta una sintesi originale e innovativa di alcuni dei principali aspetti elaborati dalle precedenti civiltà del vicino e medio oriente. In essa sono presenti due aspetti, uno legato al problema essenziale della sua epoca storica, ossia salvare la civiltà greca dalla sua incipiente rovina, l’altro in grado di aprire alla dimensione utopistica di una società tendenzialmente comunista, in grado fino ai giorni nostri di occupare un significativo posto nel dibattito politico.