Cerchiamo di apprendere almeno qualcosa dai recenti nefasti avvenimenti che stanno sconvolgendo la politica italiana. In primo luogo occorre imparare a non fermarsi alle apparenze e alle opinioni soggettive, ma risalire ai fondamenti oggettivi. Ora, ancora una volta, una parte preponderante della sinistra radical al momento dell’elezione a presidente della Repubblica di Mattarella ha voluto leggervi chissà quale svolta a sinistra. In questi casi, generalmente, influiscono le malefatte del precedente inquilino del Quirinale, per cui ci si immagina che il nuovo venuto non possa far peggio. Dimenticando che al peggio non c’è mai fine e che il peggio non dipende da un destino cinico e baro, ma dai rapporti di forza reali fra le classi sociali a livello, nazionale, continentale e intercontinentale. Dal momento che la lotta di classe, su tutti e tre questi livelli, è stata condotta coscientemente principalmente dall’alto, era evidente che il nuovo capo di uno Stato imperialista non potesse che portare avanti, in maniera ancora più aperta del precedente, gli interessi del blocco sociale dominante e della sua componente egemonica: il grande capitale finanziario sempre più transnazionale. È su questo fondamento reale-razionale che si viene necessariamente a determinare la effettualità e non sulle ingenue speranze di chi si illude infantilmente che il corso del mondo possa plasmarsi sul proprio astratto, in quanto soggettivo, dover-essere.
Da questo punto di vista a poco valgono le attitudini caratteriali di chi assume un ruolo istituzionale di tale portata, coma il capo di uno Stato. Purtroppo, generalmente, proprio su tali aspetti soggettivi si basavano le ingenue e colpevoli illusioni sul fatto che il nuovo Presidente avrebbe favorito, in qualche modo, i ceti sociali subalterni. Tali illusioni derivano dal fatto che si prendono per vere le apparenze dimenticando il loro fondamento reale e, al contempo, razionale. È in effetti del tutto razionale che la classe dominante, avendo i rapporti di forza a proprio vantaggio – innanzitutto a partire dalla capacità di egemonia sulla società civile – metta al posto di comando di quello che, a ragione, considera il suo Stato, un proprio uomo di fiducia e, comunque, non un arbitro imparziale fra le classi sociali, ma un arbitro super partes all’interno del gruppo sociale dominante. Anche nel caso che non sia in grado di trovare un accordo al proprio interno o che non abbia la forza per imporre il proprio candidato, la classe dominante selezionerà comunque qualcuno che al momento opportuno, conscio della propria funzione sociale e politica, seguirà la voce del padrone, ovvero imporrà, infischiandosene delle regole del gioco liberal-democratico, la volontà di potenza dei poteri forti.
In effetti, sebbene le regole del gioco e, soprattutto, la loro interpretazione, siano state imposte, com’è necessario, dalle classi dominanti, tali regole debbono essere tassativamente valide per le classi subalterne, ma non possono essere d’intralcio alla classe dominante. Anche perché, mentre l’ideologia dominante le fa apparire alle classi subalterne come regole sacre, naturali, razionali, le migliori del mondo (Benigni docet), la classe dominante le deve considerare, insieme alla stessa ideologia, come meri strumenti del proprio dominio e, quindi, non si deve fare troppi scrupoli a violarle nel caso siano, in un determinato momento, contrarie ai propri interessi fondamentali.
Quindi il suffragio universale, come le norme istituzionali e costituzionali vanno benissimo sino a che sono uno strumento di egemonia per la classe dominante, ossia gli consentono di detenere il potere con il consenso dei subalterni, mentre debbono essere necessariamente reinterpretate, in modo creativo, a rischio di stravolgerle nel caso in cui divengono, anche involontariamente, d’ostacolo al proprio dominio.
Più nello specifico qual’è il problema reale e, quindi, razionale, o meglio in quale contraddizione reale e, in qualche modo, strutturale si è trovata impelagata la classe dominante? La questione è che il sistema liberal-democratico, incardinato sul suffragio universale multipartitico, è certamente divenuto, da circa un secolo e mezzo, un punto chiave dell’egemonia della classe dominante. Anzi, dal punto di vista ideologico, proprio su questo aspetto si è vinto e si continua ancora a vincere, il più significativo tentativo di mettere in discussione in senso progressista il modo di produzione attualmente dominante, tentativo nato con la Rivoluzione di ottobre. Ciò ha consentito e consente tutt’ora di bollare come totalitari i più significativi tentativi di mettere in discussione – in senso progressista o regressivo – il modo di produzione attualmente dominante. In tal modo quest'ultimo, nonostante la ormai epocale crisi di sovrapproduzione che si trascina dietro da circa mezzo secolo, nonostante le sempre più evidenti contraddizioni, tra gli attuali sempre più polarizzati rapporti di produzione e di proprietà e lo sviluppo delle forze produttive – che ne è sempre più evidentemente ostacolato – può continuare a spacciarsi quale il migliore dei mondi (com)possibili.
Dall’altra parte il suffragio universale e il multipartitismo sono estranei all’ideologia della classe dominante, liberale, che prevede – in maniera più conforme al concetto di Stato – la democrazia solo all’interno della classe dominante, dei proprietari. Ecco allora i costanti tentativi dei settori più ortodossi e reazionari della classe dominante di rimetterli in discussione, ecco gli altrettanto costanti tentativi della parte preponderante del blocco sociale dominante di limitarne gli effetti, a partire dall’introduzione di sistemi maggioritari e uninominali.
Nonostante questi ultimi accorgimenti, la classe dominante, nella misura in cui il suo dominio appare – nonostante la pervasività della propria egemonia – irrazionale, ingiusto e antieconomico, incontra sempre maggiori difficoltà a far prevalere il proprio partito, nelle sue due anime di centro-sinistra liberale e centro-destra liberale. L’irrazionale e disumano classismo liberale è tale che sempre con maggiori difficoltà riesce a imporsi, a meno che non si presenti, come avvenuto nel recente ballottaggio alle elezioni politiche francesi, come unica alternativa al neofascismo.
Se non si comprende questo, diviene difficile capire il motivo per il quale i grandi mezzi di comunicazione diano sempre maggiore spazio ai rappresentanti del neofascismo, il motivo per il quale l’ultimo governo liberale abbia modificato la legge elettorale – in vista delle ultime elezioni politiche – in modo tale da far raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo al partito che meglio incarna attualmente in Italia la destra radicale. Ancora di più non sarebbe possibile capire come l’attuale capo dello Stato, sorvolando del tutto sulle proprie prerogative istituzionali e costituzionali, abbia cercato di impedire la formazione di un governo guidato dai populisti di centro-sinistra come i grillini, a tutto vantaggio di elezioni anticipate in cui certamente vi sarebbe stata un’ulteriore affermazione del populismo di destra, che solo può tornare a far accettare, come meno peggio, il partito dei poteri forti (magari nella forma del Fronte repubblicano lanciato da Calenda sulla scia di Macron).
Tanto più che le forze populiste, espressione generalmente della piccola borghesia e del ceto medio, svolgono un ruolo essenziale con le loro posizioni interclassiste, né di destra né di sinistra, nel far sì che la perdita di consenso delle forze liberali non vada a vantaggio delle forze realmente di sinistra. Ecco così, come dal nulla, l’ideologia dominante abbia favorito – spingendo al massimo sull’antipolitica e la lotta alla casta, sfruttando cinicamente il sano discredito delle masse popolari verso la vecchia classe dirigente liberale – un nuovo populismo di centro, in grado di sostituire potenzialmente la funzione svolta dalla Democrazia cristiana, senza dover fare i conti con un potere forte come quello del Vaticano.
D’altra parte un populismo centrista come quello grillino, rischia di essere troppo interclassista, in una fase storica in cui non c’è più da fronteggiare una forte opposizione realmente di sinistra con la possibilità di sfruttare in chiave riformista, per isolare i rivoluzionari, un elevato tasso di profitto. L’attuale crisi, dovuta proprio al progressivo acuirsi della caduta tendenziale del saggio di profitto, e la mancanza sia a livello nazionale che internazionale di una reale alternativa di sinistra rischiano di rendere, agli occhi della stessa classe dominante, i grillini un lusso che non ci si può più permettere.
Anche perché, per quanto i grillini possano aver fatto loro la parola d’ordine essenziale, per mantenere saldo il blocco sociale dominante, ossia la guerra fra poveri, nella sua variante razzista, non appaiono competitivi rispetto ai leghisti. Infine, per quanto possa essere privo di coscienza di classe un lavoratore salariato medio, difficilmente si farà convincere a votare ancora per un partito liberale, sia esso di centro-sinistra, di centro-destra o tecnico, se ha ancora la possibilità di votare, secondo la logica del meno peggio, la demagogia centrista dei grillini.
Tale situazione è certamente rischiosissima, in primis perché la classe dirigente, al servizio della classe dominante, fa un ulteriore passo verso un dominio più aperto, di stampo bonapartista che dà un ulteriore colpo a quanto di formalmente democratico rimane dal punto di vista istituzionale e costituzionale. In secondo luogo perché tale ulteriore prova del sovversivismo delle classi dominanti lascia ulteriore spazio a una destra radicale sempre più forte e necessariamente aggressiva, visto che si troverà la strada ulteriormente preparata per le proprie prospettive reazionarie e antidemocratiche. D’altra parte, però, è anche un segnale di debolezza della classe dominante, che si dimostra sempre meno capace di dominare in modo egemonico, con il consenso dei dominati, e questo apre a uno scenario, oggettivamente, favorevole per la sinistra radicale.
Il problema è che la sinistra radicale è presente attualmente solo in potenza nel nostro paese, grazie a Potere al popolo, ma non ha ancora avuto il tempo necessario di maturare per divenirlo anche in atto visto che anche al suo interno, per quanto il vecchio stia indubbiamente morendo, il nuovo stenta ancora ad affermarsi. Purtroppo, però, il corso del mondo non è certo disposto ad aspettare i tempi di maturazione di quella nuova sinistra radicale di cui il paese intero avrebbe bisogno. A questo proposito ci sarebbe bisogno, in primis, che il militante trovi il coraggio di uscire da quello stato di minorità del quale è, in ultima istanza, egli stesso colpevole, abbandonando al loro inevitabilmente triste destino quelle vecchie classi dirigenti che, sempre più prigioniere di piccole ambizioni, hanno finito per perdere definitivamente di vista le grandi.