Un comitato e azionariato popolare per Lucha y Siesta

Prosegue con azioni di resilienza il presidio delle donne a Lucha y Siesta cercando un dialogo con ATAC e Comune interessati ad utilizzare l’immobile occupato per fare cassa


Un comitato e azionariato popolare per Lucha y Siesta

ROMA. Grazie alla intensa mobilitazione della cittadinanza e delle associazioni, il Comitato Lucha alla città che sostiene la Casa delle Donne Lucha y Siesta minacciata di sgombero a Roma ottiene una prima vittoria: il distacco delle utenze annunciato da ATAC per il 15 settembre è stato rimandato.

Non sappiamo a oggi se esso sia stato solo posticipato perché ATAC, la partecipata romana del trasporto pubblico proprietaria dell’immobile che ospita la Casa in via Lucio Sestio, ha omesso di comunicare altre decisioni che impattano sul futuro di questo significativo progetto sociale, attivo ormai da dieci anni anche come presidio e casa di accoglienza per donne e minori a rischio di marginalità e violenza nel Municipio Roma V, tra il quartiere del Quadraro e Cinecittà.

Il 16 settembre durante il presidio non stop lanciato dal Comitato, Elisabetta Papini è andata al Quadraro per il nostro giornale e ha intervistato Michela di Lucha Y Siesta, che ci ha risposto così:

D. Cos’è Lucha Y Siesta?

R. La Casa delle Donne Lucha Y Siesta è una sperimentazione sociale che si propone di aprire un intervento di contrasto alla violenza di genere che parta dalla costruzione di autonomia e autodeterminazione per le donne e i loro figli che passano attraverso la Casa. Lucha ha 15 stanze per accogliere donne che escono da situazioni di violenza e offre una serie di spazi dedicati alle attività sociali e culturali per le donne che vivono nella casa e per il quartiere.

D. Quello che mi ha colpito sul vostro sito web è una lettera inviata alla giudice che dovrebbe far eseguire lo sgombero, nella quale testimoniate che mentre si dice che Lucha Y Siesta è in una situazione di illegalità, allo stesso tempo, negli anni, è stata contattata e coinvolta nella risoluzione di gravi situazioni di violenza subite dalle donne, dagli stessi servizi sociali, forze dell’ordine ed associazioni varie. Una situazione a dir poco paradossale nella nostra città e nel nostro Paese.

R. Le modalità di accesso a Lucha sono quelle che passano attraverso l’invio da parte dei Servizi Sociali di Roma, quindi dalle assistenti sociali che seguono i casi più delicati all’interno del territorio. Un altro canale di arrivo a noi delle donne è quello attraverso le altre associazioni che si occupano di contrasto alla violenza di genere e da tutto quel terzo settore che ormai sa che a Lucha c’è la possibilità per le donne di trovare informazioni e orientamento in caso di difficoltà. Si tratta di una contraddizione molto grande perché appunto un immobile al quale non viene riconosciuta alcun tipo di regolarità viene di fatto utilizzato dai Servizi Sociali e dalla rete antiviolenza come una risorsa importante. Questo succede perché i posti di accoglienza per le donne nel percorso di fuoriuscita dalla violenza a Roma sono solamente 23 (per una città che ufficialmente conta 2.873.000 abitanti ndr) e quindi un numero assolutamente insufficiente rispetto alle donne che poi arrivano agli sportelli antiviolenza, nelle associazioni e quindi anche il settore pubblico è indotto a utilizzare Lucha Y Siesta come soluzione abitativa per le donne seguite.

D. Che attività si svolgono all’interno della Casa?

R. Le attività sono numerose, svariate e anche complesse. C’è la parte dedicata all’accoglienza e alla costruzione dei progetti di autonomia per le donne che vivono a Lucha quindi tutta la parte relativa alla scolarizzazione, alla lingua italiana se necessario, al riconoscimento dei titoli di studio, e tutta la parte legata all’assistenza legale e psicologica, quando è necessario.

D. Finora una vittoria, non sono state staccate le utenze. Ma la lotta continua. Come? Cosa vi aspettate dal futuro?

R. Lucha Y Siesta è inserita all’interno del concordato giudiziale dell’ATAC, quindi ci arrivano notizie rispetto alla necessità da parte del Comune di svuotare l’immobile per poterlo poi inserire all’interno della procedura di vendita sul mercato e noi riteniamo che questa sia una mossa da parte dell’ATAC e del Comune di Roma inaccettabile perché appunto Lucha Y Siesta è ormai un presidio riconosciuto rispetto ai temi legati alla violenza di genere e rispetto all’accoglienza delle donne in fuoriuscita da situazioni di violenza. Per questo abbiamo deciso di lanciare l’idea alla cittadinanza di aprire un comitato popolare che abbiamo chiamato “Lucha alla città” che intende aprire e denunciare quello che sta succedendo intorno alla vicenda di Lucha Y Siesta, ma che soprattutto intende promuovere questa esperienza come pratica da replicare e da riprodurre in altri territori a Roma e altrove.

Il comitato vuole anche dire all’amministrazione pubblica che la cittadinanza vuole partecipare all’asta che dovrebbe appunto svolgersi, non sappiamo ancora quando, ma insomma nel corso dell’anno. Vogliamo partecipare all’asta e fare in modo che questo bene non venga destinato a un utilizzo e profitto privato, ma rimanga a disposizione della cittadinanza. Rimanga in un certo senso pubblico, in un certo senso comune. La Presidente del Comitato “Lucha alla città” è Federica Giardini (Filosofa e ricercatrice sui temi della Differenza e docente universitaria Master Politiche di Genere ndr) insieme a Lea Melandri (giornalista e saggista femminista e attuale presidente e co-fondatrice della LUD Libera Università delle donne di Milano ndr) con il supporto di Silvia Federici (sociologa italiana, marxista e femminista docente e fellow in varie Università USA) con le quali stiamo sviluppando un discorso di riappropriazione di un bene attraverso una proprietà comunitaria che in questo caso si caratterizza come presidio femminista che lavora costantemente sulle questioni legate alla violenza di genere.

D. Come è stata accolta questa proposta?

R. La solidarietà e l’appoggio che ci è arrivato in queste due settimane è grandissimo. Il comitato ha avuto già l’adesione di circa mille persone fra singoli e associazioni e continuiamo a ricevere attestati di stima e di supporto. Ci auguriamo che anche dal Campidoglio e dall’ATAC arrivi finalmente la possibilità di aprire un dialogo che permetta all’immobile di rimanere un patrimonio comune.

Nel frattempo il Comitato ufficializzato sabato 7 settembre veleggia verso le 1.000 adesioni singole e 50 adesioni di enti e associazioni. L’iniziativa ha lo scopo di costruire un consistente azionariato popolare che si propone di tutelare l'esperienza di Lucha y Siesta e farla crescere oltre le sue stesse mura.

Tra le sigle aderenti ci sono Casa Internazionale delle Donne, BeFree Cooperativa sociale contro tratta, violenze e discriminazioni, LIBERA, ActionAid Italia Onlus, Gruppo di Iniziativa Territoriale soci Lazio Nord di Banca Popolare Etica, UDI Unione Donne Italia, D.i.Re. Donne in rete contro la violenza, NUDM Non una di meno, CGIL nazionale, Circolo Mario Mieli, Associazione Famiglie Arcobaleno, SCOSSE Associazione di promozione sociale, Fondazione PANGEA onlus, DWF donnawomanfemme, CHAYN Italia, Sindacato USB di ATAC, Associazione Culturale Eduraduno, Cinecittà Bene Comune, Arf Festival del fumetto.

Il Comitato è in crescita di ora in ora, ed è una bella risposta collettiva alla sordità istituzionale del Comune di Roma guidata dalla giunta Raggi, che tuttora manca di dare risposte certe e trasparenti dopo che per anni Lucha y Siesta ha continuato a cercare una interlocuzione per regolarizzare la situazione e per far riconoscere la Casa delle Donne Lucha y Siesta quale spazio autogestito di interesse comune.

La recente legge del Consiglio regionale n. 10 del 26 giugno 2019 “Promozione della amministrazione condivisa dei beni comuni” dà ragione all’istanza della Casa, consentendo ai comuni del Lazio di intervenire per salvare gli spazi autogestiti che nel tempo hanno fornito un sostegno concreto al welfare, attivando e gestendo servizi di utilità sociale che sarebbero spettati alle istituzioni cittadine e riconoscendone di fatto l’operato svolto a titolo gratuito. Il comma b) dell’articolo 2 prevede che “ ai fini delle presente legge si intende per […] autogestione forme di gestione autonoma per le attività di interesse generale e senza scopo di lucro, da stabilire nell’ambito dei patti di collaborazione svolte dalla cittadinanza e dalle realtà attive nell’ambito del beni comuni che abbiano i requisiti di trasparenza e finalità sociale”. Nelle more dei regolamenti attuativi di questa legge regionale, il Comune di Roma cincischia, e l’assenza di risposte ufficiali sembra avvalorare l’ipotesi riportata anche sul Messaggero del 30 agosto che, in barba alla trasparenza e alla legalità, i giochi siano già stati fatti e che ci sia già un acquirente interessato allo stabile.

D. Una vicenda niente affatto nuova. Ma che interesse avrebbe il comune a privarsi di un servizio a costo zero?

R. Purtroppo la vicenda è la replica di un copione che si mette in scena quotidianamente - spesso sottotraccia - nei quartieri ex industriali o nelle periferie di tante città italiane flagellate dalla deindustrializzazione e dalla desertificazione economica prodotta nell’ultimo decennio dalla globalizzazione capitalista e che ha per protagonisti associazioni e centri sociali impegnati nel sottrarre al degrado e alla criminalità spazi urbani divenuti improduttivi e pertanto in stand by fiscale per le casse comunali, e perciò dai Comuni parcheggiati nel dimenticatoio e abbandonati fino a nuovo ordine.

L’andazzo, dicevamo, è sempre quello: lo stabile abbandonato, il capannone o l’area dismessa, grazie a un’occupazione abusiva, o a una concessione “bonaria” priva di definizione giuridica, o con bandi di affidamento temporaneo da parte dei comuni, vengono con il tempo risocializzati grazie ad attivisti e volontari che presidiano quei segmenti di territorio economicamente desertificati; il Comune “tollera” per un certo periodo la situazione e la sfrutta per risparmiare sul welfare sociale della città in questione, delegando di fatto le associazioni a funzioni sociali ineludibili, come la prevenzione della microcriminalità, la dispersione scolastica dei minori, il contrasto alla droga, le attività di sostegno alle donne vittime di violenza etc. Tutte attività pregevoli sotto il profilo sociale e in ottica emergenziale, ma non redditizie per le entrate immediate dei comuni che, appena se ne presenta l’occasione, reclamano l’area, lo stabile o l’immobile non appena ritorna appetibile per una vendita lucrosa di profitto, con la conseguenza di sloggiare il sociale a vantaggio della speculazione immobiliare, della privatizzazione e conseguente messa a rendita o a patrimonio. E tutto, naturalmente senza consultare la cittadinanza, anche se percorsi partecipativi sono stati burocraticamente e formalmente attivati nelle maggiori città.

Il retroterra e le vere cause della disavventura in cui è incorsa La Casa per il contrasto alla violenza sulle donne Lucha y siesta, ubicata in un ex deposito ATAC abbandonato per tredici anni, vanno ricercate nella lunga serie di debiti, malagestione e appalti sospetti, truffe ai contribuenti, disservizi di cui si è resa protagonista negli ultimi dieci anni l’azienda pubblica dei trasporti controllata dal Comune di Roma. L’ultimo bilancio consolidato di ATAC, a fine 2017, evidenzia una voragine di bilancio pari a 1,5 miliardi di euro. A un passo dal suo fallimento, per scongiurarlo pro tempore, la sindaca Virginia Raggi aveva trovato la soluzione di occultarlo - beninteso a “norma di legge” - congelandolo. Da Luglio 2018 ATAC è passata nella fase di concordato preventivo previo piano di salvataggio poter garantire la continuità del servizio di trasporto pubblico a Roma. Ecco la ratio della svendita attuale del patrimonio ATAC, che affonda le radici già nell’era dei sindaci di centrosinistra Rutelli e Veltroni, che scelsero una politica di risanamento dell’azienda pubblica di trasporti attraverso la vendita diretta dei suoi innumerevoli immobili, veri gioielli di famiglia da dismettere per rimpinguare le casse. Una visione mercanteggiante della cosa pubblica aggravata in seguito da una gestione politicizzata e disastrosa dell’azienda che ha prodotto altri debiti e vari illeciti - uno su tutti, il bunker 'segreto' che stampava biglietti clonati per creare fondi neri per la politica - come denunciato da varie inchieste giornalistiche che hanno evidenziato come “sul tram ATAC” siano saliti tanti manager, politici e perfino parlamentari che hanno beneficiato per decenni di un sistema capace di drenare fino a 70 milioni di euro l’anno. Una ricca torta che si è spartita indistintamente tra centrodestra e centrosinistra, secondo le inchieste della Guardia di Finanza che ha indagato a lungo sul sistema della “falsa bigliettazione ATAC”.

22/09/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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