Perché la lotta di classe va declinata al plurale

Se è vero che un popolo non è libero se ne domina e opprime un altro, l’emancipazione reale del genere umano non si potrà mai realizzare fino a che vigerà, come nella famiglia patriarcale, la schiavitù domestica delle donne.


Perché la lotta di classe va declinata al plurale

Già Marx ed Engels definivano motore della storia, in una società classista, le lotte di classe, al plurale, in quanto oltre al conflitto sociale nel mondo del lavoro fra sfruttati e sfruttatori e al conflitto sul piano internazionale fra paesi colonialisti, imperialisti e neocolonialisti e paesi dai primi dominati, vi è il conflitto che contrappone uomo e donna all’interno della famiglia patriarcale. Quest’ultimo conflitto è particolarmente importante in quanto costituisce la base dello sfruttamento e riguarda la maggioranza del genere umano, dal momento che le donne oppresse sono di numero maggiore dei maschi sfruttatori. Si tratta di un conflitto fondamentale, in quanto costituisce la base stessa della divisione del lavoro, da cui dipende lo sfruttamento. Tanto che se è vero che un popolo non è libero se ne domina e opprime un altro, l’emancipazione reale del genere umano non si potrà mai realizzarsi fino a che vigerà, come nella famiglia patriarcale, la schiavitù domestica delle donne.

Sul piano internazionale un proletario non potrà mai emanciparsi realmente dallo sfruttamento se non prende posizione contro ogni forma di imperialismo e di colonialismo, in primo luogo del proprio paese. Anche perché le politiche imperialiste e neocoloniali producono quella aristocrazia operaia che ha impedito la realizzazione della decisiva rivoluzione in occidente. Allo stesso modo, fino a che il proletario sfruttato e oppresso dalla classe dominante si rifà opprimendo e sfruttando, a sua volta, a casa le donne non potrà mai realmente emanciparsi. Fino a che il proletario, come cittadino di un paese imperialista o neocolonialista o semplicemente come maschio nella famiglia (patriarcale), opprime le donne, non sarà mai un esponente a tutti gli effetti della classe rivoluzionaria che non avrà altro da perdere che le proprie catene, in quanto sarà al contempo sfruttato e sfruttatore.

D’altra parte, già Mary Wollstonecraft – pioniera della lotta per l’emancipazione della donna, spacciata dall’ideologia dominante come la fondatrice del femminismo liberale – era pienamente consapevole che, in una società classista, non ci poteva essere una reale emancipazione della donna. Dunque, questa consapevolezza è alla base di tutti i reali avanzamenti nella lotta contro la società classista, contro la schiavitù domestica e contro l’oppressione di un intero popolo. Senza una stretta connessione fra queste tre diverse forme di emancipazione non ci può essere una effettiva liberazione in nessun ambito particolare.

Da questo punto di vista è essenziale contrastare tanto la concezione economicista per cui l’unica lotta dovrebbe essere quella fra le classi sociali e occuparsi delle oppressioni di popoli o delle donne significherebbe perdere di vista o, peggio, distogliere l’attenzione dall’unica contraddizione reale quella fra capitale e forza lavoro. Dall’altra bisogna contrastare le concezioni femministe liberali, che pongono come unica reale oppressione quella della donna, considerando già risolte le forme di oppressione sul piano internazionale e nel mondo del lavoro in generale. Infine, bisogna contrastare coloro che ritengono fondamentale soltanto il piano della lotta contro l’imperialismo sul piano internazionale, considerando inessenziali o addirittura controproducenti le lotte contro lo sfruttamento dei lavoratori nel proprio paese e la lotta per l’emancipazione della donna dalla schiavitù domestica. Questi ultimi considerano un potenziale alleato anche un sostenitore dello sfruttamento classista sul piano nazionale e un sostenitore del patriarcato, purché sostenga qualche politico che contrasta di fatto l’imperialismo, spesso ridotto agli Stati Uniti, sul piano internazionale.

Tornando alla centralità della lotta per l’emancipazione della donna dalla schiavitù e da ogni forma di sfruttamento e oppressione nell’ambito domestico e della famiglia (patriarcale), sempre se connessa al conflitto contro la società classista e contro l’imperialismo, occorre ricordare che già Marx ed Engels consideravano il livello di emancipazione della donna un indice fondamentale per comprendere il livello di sviluppo di una società storica. Naturalmente, questo aspetto non può essere considerato astraendo dagli altri, cioè un popolo che ne opprime un altro non può essere considerato migliore e più avanzato se vi è una minore oppressione delle donne all’interno del “popolo dei signori”. Bisogna in effetti sempre considerare che le più sfruttate sono le donne, proletarie di un paese dominato dall’imperialismo e dal neocolonialismo, che rappresentano, perciò, in sé (potenzialmente), l’avanguardia del movimento di emancipazione complessiva, mentre anche maschi che combattono lo sfruttamento delle classi sociali subalterne e l’imperialismo, se nella propria famiglia opprimono le donne non possono essere considerati dei reali rivoluzionari. Come non può essere considerato un progressista chi non opprime le donne nella propria famiglia, ma non si batte contro l’oppressione sociale delle classi subalterne e ogni forma di imperialismo e neocolonialismo. Anche perché le donne proletarie o dei popoli soggiogati da imperialismo o neocolonialismo sono donne esattamente come quelle della propria famiglia. Quindi, chi, come il femminismo liberale, si occupa solo di contrastare la schiavitù domestica, non può considerarsi come parte del movimento di liberazione della donna, in quanto di fatto sostiene chi si batte contro l’emancipazione delle donne delle classi subalterne e delle donne dei popoli oppressi sul piano internazionale.

Ad esempio, l’ideologia dominante sostiene la superiorità dei paesi dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e, persino, di Israele rispetto all’Iran e, addirittura, nei confronti di tutto il mondo islamico. Questa becera guerra di civiltà specula su un dato reale (la discriminazione della donna) e lo rende da una questione centrale, un semplice strumento per rafforzare chi, in realtà, si batte per la disemancipazione del genere umano. I paesi dell’Ue, gli Usa e Israele sono stati imperialisti o, nel migliore dei casi, filoimperialisti e, quindi, responsabili dell’oppressione di tutte le donne proletarie, anche del proprio paese, e due volte responsabili dell’oppressione delle donne dei paesi dominati o sotto aggressione da parte dell’imperialismo o del neocolonialismo. Senza contare che nella grande maggioranza di questi paesi permane in realtà la schiavitù domestica all’interno della società patriarcale. Certo, le donne in Iran vivono una forma di oppressione superiore da parte del proprio Stato, ma il paese è certamente meno responsabile dell’oppressione diretta e indiretta della donna su scala globale.

Se si pretende di prescindere da questo dato di fatto, si finisce, per quanto inconsapevolmente, per sostenere la concezione, estremista di destra, della democrazia per il popolo dei signori. Cioè tutte le società e le classi sfruttatrici e oppressive hanno bisogno, per meglio opprimere tutti gli altri, di avere al proprio interno un certo livello di democrazia, all’interno del paese imperialista o della classe dominante. Così, ad esempio, per molti aspetti le donne spartane apparivano meno oppresse dal patriarcato delle donne di città democratiche greche. In realtà le donne spartane potevano essere meno oppresse delle donne ateniesi soltanto per meglio opprimere, in maniera spaventosa, i perieci e i meteci, comprese naturalmente tutte le donne di questi gruppi etnici e sociali di numero indubbiamente superiore della ristretta minoranza di donne spartane.

I limiti del “femminismo” liberale sono, nell’essenziale, già presenti nel suo più significativo padre nobile J. S. Mill. Quest’ultimo denunciava – a ragione e con indubbio merito e coraggio – la presenza all’interno della famiglia patriarcale, anche nei paesi più liberaldemocratici del mondo occidentale, di un'oppressione della donna fondata esclusivamente sulla legge della giungla, cioè sul diritto del più forte. Così, anche nel mondo anglosassone il rapporto fra uomo e donna, in particolare all’interno della famiglia, era un rapporto servo-padrone, nel quale l'uomo esercitava una vera e propria tirannia nei confronti della donna. Tale forma di dominio autocratico dell’uomo sulla donna era tanto più disdicevole in quanto avveniva, secondo J. S. Mill, anche all’interno di quei pochissimi paesi occidentali, Stati Uniti e Gran Bretagna, in cui questo genere di rapporti sarebbero stati aboliti in tutte le altre sfere. In tal modo, il filosofo occultava non solo l’oppressione e lo sfruttamento del proletariato, a maggior ragione se femminile, ma l’oppressione coloniale, imperialista e neocoloniale, subita in primo luogo dalle donne.

Certo, si potrebbe obiettare che in seguito, in modo autocritico J. S. Mill abbia superato le proprie posizioni liberali, riconoscendo entro certi limiti lo sfruttamento delle classi sociali subalterne, tanto da divenire il padre nobile non solo della liberaldemocrazia, ma persino del liberal socialismo. D’altra parte, non mettendo in questione le proprie posizioni di fatto filoimperialiste, non può certo essere posto nel campo di chi si batteva per l’emancipazione del genere umano e delle stesse donne, in quanto era dalla parte di chi opprimeva la maggioranza del genere umano e un numero enorme di donne nei paesi dominati da imperialismo o colonialismo.

Certo, si potrebbe obiettare, che grazie anche a personalità come J. S. Mill le donne hanno in seguito conquistato parità di diritti formali in molte società, comprese quelle liberal-democratiche. D’altra parte tale eguaglianza formale se da un lato è certamente una decisiva conquista di libertà – che per altro si è affermata principalmente grazie al socialismo – al contempo finisce con l’occultare, di fatto, la diseguaglianza, anzi la vera e propria schiavitù domestica nella famiglia (patriarcale), una diseguaglianza reale anche sul piano della società civile.

01/12/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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