Se mai qualcuno avesse voluto una prova che il sistema economico-sociale tardo-capitalistico, impostosi con il crollo del blocco socialista dell’est, l’emergenza creata dalla diffusione del coronavirus ce ne ha data una inconfutabile, che a differenza di quelle altre date in precedenza (guerre, sanzioni, impoverimento di interi popoli, crisi ambientali, migrazioni forzate, disoccupazione di massa), colpisce anche chi finora non ha voluto saperne di tale problema. Tuttavia, se non ci si ragiona sopra e ci sofferma solo sui disagi quotidiani, che ora affliggono anche chi viveva senza gravi problemi appassionandosi magari al Festival di Sanremo, continuiamo a non prendere coscienza di cosa c’è dietro a tutto questo. Ed è di questa consapevolezza che abbiamo bisogno per cambiare radicalmente le cose.
Lascio perdere la questione dell’ipotetico laboratorio nella regione di Wuhan (Cina) [1], dove si è scatenata la malattia, sovvenzionato addirittura dalla stessa Organizzazione mondiale della sanità, e mi limito a evidenziare cosa si è fatto in Italia negli ultimi decenni per creare una situazione in cui i medici si trovano a scegliere se salvare la vita ad un anziano o un giovane a causa dell’indisponibilità dei posti letto in terapia intensiva.
Prima di soffermarsi sul sistema universitario, parleremo di quello sanitario, ancora definito il migliore del mondo, del resto strettamente legato al primo, giacché coloro che lavorano in esso debbono essere dotati di un qualche titolo universitario.
Al sistema sanitario, nel nome dell’incomprensibile ai più Spending Review (l’incomprensibilità pone un argine alle critiche) sono stati sottratti circa 37 miliardi, a partire dal 2000 fino al 2012, sono stati aboliti 72.000 posti letto, i tagli sono stati scaricati sul personale, che ha perso 42.000 dipendenti a tempo indeterminato, le Regioni hanno dovuto adeguarsi ai cosiddetti piani di rientro. Per esempio, l’ora malato Zingaretti nel Lazio ha fatto fuori 6.800 posti letto oltre a numerosi ospedali, circa 16 [1]. Al posto degli ospedali sono sorte le tanto pubblicizzate Case della salute, che hanno l’unico vantaggio di essere meno costose.
Ma affidiamoci al Rapporto GIMBE, una fondazione che non avrebbe fini di lucro e che si è assunta il compito (visto che un’istituzione pubblica non lo fa) di “favorire la diffusione e l’applicazione delle migliori evidenze scientifiche con attività indipendenti di ricerca e di informazione scientifica” per migliorare la salute dei cittadini e verificare la sostenibilità del sistema sanitario. Un altro dei compiti che GIMBE si è impegnata a svolgere è quello di “promuovere l’integrazione professionale” e armonizzare “gli interessi conflittuali degli stakeholder”, indirizzandoli alla tutela della salute. Come abbiamo appreso, gli stakeholder sono coloro che hanno interessi materiali nel funzionamento e nella gestione di un certo servizio, nel caso in cui – come quello italiano – questo non ha più un unico gestore (pubblico) ma molteplici e privati.
Dal Rapporto, presentato in una sala del Senato l’11 giugno 2019, si ricava che negli ultimi dieci anni nessun esecutivo ha elaborato un piano di ampio respiro per espandere e consolidare il sistema sanitario universalistico, che si sta sgretolando sotto i nostri occhi. Questa osservazione, fatta dal presidente Dr. Cartabellotta, si smentisce da sola, nel senso che il piano c’era e c’è ed è appunto quello di distruggere il nostro mai veramente funzionante sistema sanitario, che ci ha invidiato solo chi non lo ha conosciuto anche nei suoi tempi migliori.
Tuttavia, il presidente si mostra alquanto duro, giacché accusa la classe politica di aver fatto “precipitare il finanziamento pubblico per la sanità ai livelli dei paesi dell’Europa orientale, considerando la sanità come un mero capitolo di spesa pubblica da saccheggiare e non una leva di sviluppo economico da sostenere, visto che assorbe solo il 6,6% del PIL e l’intera filiera della salute ne produce circa l’11%”. Per questa ragione, mentre i cittadini vorrebbero essere curati con metodologie d’avanguardia, in cui l’industria investe, l’esiguità del finanziamento impedisce alla maggioranza di accedere ad esse, a meno che non si rivolga ai privati. A suo parere sarebbe necessario procedere a “un consistente “sfoltimento” delle prestazioni basato su evidenze scientifiche e princìpi di costo-efficacia per mettere fine ad un paradosso inaccettabile: in Italia il finanziamento pubblico tra i più bassi d’Europa convive con il paniere LEA (Livelli essenziali di assistenza) [3] più ampio, garantito però solo sulla carta”.
Dopo aver sottolineato l’annosa questione degli sprechi, del mal utilizzo di mezzi e personale etc., Cartabellotta analizza i problemi del secondo “pilastro”, ossia i fondi sanitari integrativi, che, pur godendo di consistenti agevolazioni fiscali, hanno una funzione puramente sostitutiva del pubblico e “alimentano il consumismo sanitario”. Sostanzialmente, invoca una razionalizzazione della spesa che dovrebbe andare a vantaggio del sistema sanitario pubblico, ma anche di quello privato e delle industrie che investono in questo settore in ampia espansione. Si pensi solo a questo dato: l’industria farmaceutica, concentrata in poche mani, che produce solo l’1,3% del PIL mondiale, ha un giro commerciale che tocca circa i 1.000 miliardi di dollari e non ha sofferto per la crisi.
Naturalmente possiamo aggiungere altri elementi a quelli già indicati, come l’insufficienza dei letti per la terapia intensiva, del numero dei medici e degli infermieri specializzati, la presenza negli ospedali di personale gestito dalle cooperative, pagato il 40% meno degli altri lavoratori e preparati secondo protocolli diversi, le lunghe soste nei pronto soccorso, che per chi li ha sperimentati costituiscono un vero e proprio girone infernale.
Per far fronte a questo sfascio, dopo aver analizzato in maniera dettagliata i diversi tipi di approccio all’epidemia (modello cinese e modello tedesco), Alessandro Visalli ritiene opportuno che l’Italia scelga il modello cinese, invocando una serie di misure del tutto ragionevoli, quali nazionalizzare le strutture sanitarie, l’assunzione di nuovo personale, sostenere concretamente il reddito delle famiglie, “liberarci dei vincoli europei”. Ed aggiunge, citando Malcom X, “Con tutti i mezzi necessari”. Purtroppo, da quello che sappiamo il modello simil-cinese che abbiamo adottato fa acqua da tutte le parti (v. il comunicato della Reuters: Italy’s Coronavirus Lockdown Likely Unsustainable, Ineffective) e in questo momento all’orizzonte non c’è nessun soggetto politico che sia in grado di imporre la realizzazione di queste misure.
Passiamo ora a dare qualche rapida informazione sulla questione dell’università e della ricerca, che ha generato la spaventosa carenza di medici ed infermieri [4] legata alla vigenza del cosiddetto numero chiuso e del precariato, determinata dalla volontà di tagliare i fondi alle strutture pubbliche dell’alta formazione.
Nonostante i sindacati del settore, tra cui l’Associazione nazionale docenti universitari cui appartengo, pur non sostenuti dalla maggior parte dei docenti e dei ricercatori, chiedano da anni di cambiare la politica economica verso gli atenei e i centri di ricerca pubblici, i governi che si sono succeduti nel tempo, si sono sempre rifiutati di elaborare un piano emergenziale, che metta fine al precariato e valorizzi pienamente la ricerca in tutti i diversi ambiti.
Ora di fronte alla grave situazione economico-sociale e sanitaria del paese si cerca qualche rimedio approssimativo, da cui non potrà scaturire nessuna soluzione seria ai problemi che ci affliggono e che si sono accresciuti negli ultimi anni, visto che il Fondo di finanziamento ordinario, stanziato dalla Legge di Bilancio 2020, è di 7,5 miliardi di euro, inferiore a quanto investito dieci anni fa. Ciò nonostante, forse per il nome che porta, il ministro della Salute Roberto Speranza si mostra speranzoso, perché ritiene che le misure prese nel successivo decreto legge Milleproroghe del 31 dicembre 2019 (fondi accessori, stabilizzazione dei ricercatori precari dei vari settori) miglioreranno la carriera dei più giovani (ma non sono più tali), i quali saranno meglio retribuiti e non fuggiranno più all’estero.
In questa situazione di emergenza, probabilmente alquanto amplificata per vari motivi, su cui torneremo in un’altra occasione, il governo ha dovuto prospettare non solo l’anticipazione delle lauree degli infermieri, per poterli impiegare immediatamente nelle disastrate strutture sanitarie, ma anche riprendere l’ipotesi dell’abolizione del cosiddetto numero chiuso. In cosa consiste? In Italia, a partire dal 1999, il ministro Ortensio Zecchino ha stabilito con un decreto che nelle facoltà scientifiche, ma anche Architettura e Scienze della formazione, il numero degli studenti ammessi ai corsi doveva essere in sintonia con le capacità delle strutture universitarie di garantire una didattica di qualità, l’utilizzazione di aule e di laboratori adeguati. Pertanto, in base a questo criterio, ogni anno gli aspiranti medici e infermieri etc. vengono sottoposti a bizzarri test per conquistarsi l’accesso agli studi. E ovviamente molti vengono esclusi e continueranno ad esserlo, giacché il ministro dell’Università e Ricerca Manfredi ha già fatto sapere che solo 13.500 studenti saranno ammessi alle facoltà mediche contro i 15.000 promessi, del resto insufficienti alle esigenze del paese.
Analizzando rapidamente questa situazione, possiamo osservare che con queste misure si è innescato un meccanismo perverso, giacché, con il progressivo taglio alle strutture universitarie, queste si sono mostrate sempre meno capaci di accogliere un numero consistente di studenti – che a mio parere dovrebbe essere programmato a partire dalle esigenze vitali della popolazione –, per la non modernizzazione delle aule, dei laboratori, per la mancanza di personale a tutti i livelli, per l’aziendalizzazione del sistema universitario e della ricerca. A partire dal 1992, con la perdita del 25% della infrastruttura industriale del paese, sembrerebbe che le classi dirigenti italiane, nonostante qualche sfogo retorico nazionalistico, abbiano deciso che dobbiamo arretrare nel sottoscala dello scenario internazionale, perdendo sempre più importanza economica, politica e culturale. La cosa interessante è che queste scelte masochistiche e acquiescenti alle decisioni imposte dall’alto sono giustificate con l’ideologia della valutazione, del merito, dell’eccellenza, che come hanno mostrato nei loro scritti Davide Borrelli e Valeria Pinto [5], si fonda sull’idea che i ricercatori come i loro “prodotti” possano essere valutati secondo criteri ritenuti oggettivi, come si fa con una merce quando di essa si stabilisce il prezzo sul mercato. E il numero degli accessi deve essere contenuto, perché solo i più bravi possano entrare.
Secondo questo disegno i valutati, non omologati alle linee di ricerca dei valutatori e pertanto non “migliori”, vengono redarguiti e puniti, mentre i “giudici” soddisfano pienamente il loro sadismo, mettendo in risalto la loro “superiorità”. Purtroppo, qualcuno sa ancora, altri se lo sono dimenticato, che nessuno può essere un valutatore obiettivo, giacché “il valutatore-educatore stesso deve essere educato” e scelto politicamente (come di fatto avviene).
Note
[1] Tralascio anche le accuse del governo cinese all’esercito statunitense di aver diffuso il virus in occasione dei Giochi militari tenutisi a Wuhan nell’ottobre 2019. V. anche State Department has 'stern' words with Chinese ambassador after claim that US military started pandemic.
[2] L’ospedale San Giacomo, sorto nel 1339, fu chiuso e ceduto dal discusso Piero Marrazzo, dopo che aveva anche subito importanti ristrutturazioni.
[3] Quali risultano da un Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 12 gennaio 2017.
[4] Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità in Italia mancherebbero 50.000 infermieri, mentre per il sindacato Anaao-Assomed a breve avremo bisogno di circa 34.000 medici.
[5] Menziono tra l’altro di D. Borrelli, Contro l’ideologia della valutazione. L’ANVUR e l’arte della rottamazione dell’università (2015), V. Pinto, Valutare e punire (2012).