Dopo una campagna di stampa sulle violenze dei docenti nei confronti dei discenti, ora è il turno di quelle degli studenti e dei genitori verso gli insegnanti. Non che le violenze nelle scuole non fossero presenti in passato, ma la maggiore mediaticità della società di oggi amplifica questi fenomeni. Oggi perché un fatto sia effettivamente avvenuto deve essere rappresentato sui mezzi di comunicazione. In una società dove ciò che conta è l’apparire e non la sostanza, i giovani non possono che interiorizzare tale messaggio. Pertanto tale comportamento di spettacolarità trova riflesso nella nuove generazioni, che non possono non essere, nel bene e nel male, il prodotto della società in cui vivono. La scuola non è estranea alla società, ma ne è parte integrante.
La scuola, da luogo di formazione di individui pensanti, è sempre più un punto di appoggio della prole e di formazione di manodopera a basso costo. Il docente è sempre meno formatore e sempre più animatore dei nostri ragazzi. Ecco che allora diventano cruciali gli svaghi e i progetti spesso inutili che la scuola mette in campo per vendere meglio la propria offerta formativa alle famiglie clienti di una formazione intellettuale sempre più scadente. La retorica dell’offerta formativa è stata così interiorizzata che genitori ed alunni si sentono clienti da accontentare. Più aumenta la competizione tra scuole più i clienti diventano esigenti, e se scontenti, i più esagitati passano dalle minacce ai fatti.
In questo contesto di vendita del prodotto educativo gli alunni con maggiori problematicità diventano soggetti da escludere, se necessario anche mandandoli avanti a forza, perché rovinano la vendita del prodotto, mostrando platealmente le contraddizioni di una esclusione sociale che non può che rispecchiarsi anche nel sistema educativo. Il problema della dispersione scolastica diventa il pretesto per nuovi tagli all’istruzione pubblica. Come se promuovere degli alunni con una preparazione intellettuale inadeguata agli anni successivi non è fonte di rifiuto e di abbandono degli studi. L’educazione pubblica in tempi di austerity è solo un costo, non una risorsa. La necessità di maggiori sostegni per gli svantaggiati è risolta, piuttosto che con il supporto di docenti specializzati, con il mantra delle politiche di integrazione che il docente curricolare dovrebbe applicare, senza alcuna formazione e nessun riconoscimento economico per la professionalità richiesta.
La colpa è sempre dei docenti che, pur nelle difficoltà crescenti, si sentono investiti di un carico di responsabilità superiore che nasce dall’abdicazione totale da parte dello Stato alla costruzione di un progetto educativo che valga per tutti gli individui, partendo dalle differenze di ordine economico, sociale, cognitivo e comportamentale dei soggetti coinvolti. Lo Stato si lava le mani del compito educativo, di mettere in atto le politiche necessarie per colmare lo svantaggio sociale ed economico che non può non avere ricadute sull’istruzione. Alla necessaria scuola di massa di qualità si è sostituita una istruzione di massa sempre più degradata, che ha completamente perso la qualità. La scuola infatti non è in grado di ridurre le differenze culturali ma invece le approfondisce, escogitando pratiche volte a nascondere sotto il tappeto queste differenze. Ecco che allora diventano necessarie solo le competenze, il saper fare, non l’elevamento culturale con il suo bagaglio di conoscenze.
Il docente, lasciato solo alla propria iniziativa individuale, non può che rifugiarsi nelle politiche di sicurezza, chiedendo maggiore controllo, involontariamente anche verso se stesso. Si pensa di risolvere con pratiche autoritarie dei problemi sociali. L’autorità si sostituisce all’autorevolezza. Autorevolezza sempre meno sentita dagli studenti e dai genitori che tendono a percepire la scuola come un luogo estraneo alla mobilità sociale. La mancanza di opportunità adeguate per i giovani neolaureati è sempre più evidente, tanto che i giovani con un elevato livello di istruzione spesso svolgono mansioni lavorative dequalificate rispetto al proprio titolo di studio. E peggio è la situazione di coloro che hanno un basso livello di istruzione. Tuttavia la scuola e l'istruzione non sono più viste come un possibile ascensore sociale.
Il clima nelle scuole è di pressione psicologica costante, d’intimidazione, di tutti contro tutti, alimentata ad arte dalla retorica astratta sulla valutazione, e dalle campagne costanti sugli insegnanti incapaci, sugli studenti indisciplinati e sulle famiglie assenti. Insegnanti parzialmente inadeguati, genitori assenti e studenti demotivati ci sono, anzi rappresentano delle criticità esistenti da cui bisogna sicuramente partire, perché la formazione è un processo fatto di ostacoli, errori, limiti, che dentro il processo formativo vanno riconosciuti e risolti. Se il dialogo tra genitori ed insegnanti è costantemente alimentato dalla paura, dal terrore di essere valutati, e dalla tendenza a nascondere i propri limiti valutando, puntando il dito e giudicando l’altro, allora si costruisce un dialogo tra sordi, dove ognuno mantiene il proprio punto di vista e cerca argomentazioni, pretesti, argomenti personali per denunciare l’altro. Dialogare con profondità significa ascoltare, ma per ascoltare il senso profondo delle critiche - per esempio le critiche che un insegnante rivolge ad un genitore - significa mettersi in discussione, riconoscere che c’è qualcosa che non funziona all’interno del processo educativo e che bisogna modificare. Lo stesso discorso vale nel senso opposto. La burocratizzazione dei rapporti personali tra genitori ed insegnanti mediante il registro elettronico, il sistema invalsi, etc, trasforma il dialogo in giudizio, in accusa, denuncia, ed è evidente che gli insegnanti rispondano, a nostro parere in forma errata, attraverso la ricerca di una maggiore disciplina.
I genitori, in particolare nelle scuole superiori, dove il rapporto con i figli tende a modificarsi, riducono progressivamente la partecipazione agli organi collegiali, consigli di classe, di istituto, mentre aumentano la pressione nei confronti degli insegnanti per difendere i loro figli semplicemente sul voto. L’educazione all’ascolto presuppone il senso della collegialità, dell’appartenenza ad un gruppo, e con esso il processo conflittuale della costruzione della democrazia: una critica ad un insegnante costruita ed elaborata collettivamente, e nel riconoscimento del ruolo e delle funzioni del docente, ha un senso ed un'efficacia superiori rispetto a quei piccoli conflitti personali sulle antipatie e simpatie del docente. Insegnanti animati dalla paura perenne di essere valutati, chiusi nel recinto della propria classe, nei momenti di difficoltà si sentono soli, hanno paura del giudizio dei ragazzi e delle famiglie.
In questo contesto cosa fa il Governo? Abdica alla propria funzione, consapevole delle differenze di origine sociale, culturale, ideologica degli studenti e delle loro famiglie, opera nell’ottica di accentuarle, persevera nell’esasperazione della scelta della scuola, degli insegnanti, della differenziazione culturale tra licei ed istituti professionali, alimenta le differenze esistenti anziché ridurle, e di fronte al fallimento ha inventato il giudizio, la valutazione, in altre parole la guerra di tutti contro tutti, forzando, invertendolo, il ruolo e le funzioni degli organi collegiali. La scuola che ci propongono ha tratti sempre più classisti, la differenza tra licei ed istituti tecnici e professionali e tra licei e licei in termini di intensità di studi, appartenenza sociale, disciplina ed addirittura differenza di genere, è sempre più marcata, e questa differenziazione ha effetti visibili nella disciplina, nei processi d’apprendimento generale e nella configurazione del clima collettivo che si respira in ogni istituto.
Come risollevare, dunque, il ruolo sociale della scuola pubblica? Ruolo di fondamentale importanza, essendo l’istruzione per le masse popolari una forma di elevamento culturale, un primo passo del loro riscatto sociale. Come sosteneva Gramsci: istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Un punto di partenza è senz’altro quello di stanziare risorse adeguate per l’istruzione, eliminando quelle riforme finalizzate a far cassa che non hanno risolto i problemi della scuola ma che li hanno invece aggravati, esasperando le problematicità del nostro sistema di formazione. Ciò non toglie che sia necessario elaborare una scuola nuova, diversa dal modello gentiliano, che sia realmente una buona scuola e non solo uno slogan vuoto di contenuti.