La ritualità degli scioperi italiani stride con quanto accade in Francia ove masse consistenti di lavoratrici e lavoratori, studenti e pensionati scendono nelle piazze contro la Riforma previdenziale. E nella ritualità degli scioperi rientra anche l'8 Marzo. Per quanto nostra sia la lotta al patriarcato è indubbio che uno strumento conflittuale e di classe non possa e non debba essere subordinato a istanze di genere.
Non è una critica al Movimento Non una di meno, che se non altro porta avanti istanze complessive, ma a tutti quei sindacati che convocano, con spirito di servizio, lo sciopero mentre poi appaltano al movimento la gestione delle piazze e delle iniziative dell'8 Marzo.
Se, come logica imporrebbe, vogliamo trasformare l'8 marzo in una rivendicazione complessiva e di classe che investa anche l'operato sindacale e sociale, qualche sforzo in più sarebbe esigibile da parte delle organizzazioni sindacali stesse, sia a livello programmatico che sul piano della rappresentanza nei gruppi dirigenziali. Con ciò non intendiamo certo le “quote rosa” riservate alle donne – assomiglianti troppo alle pur sacrosante quote riservate, nelle assunzioni di forza-lavoro, ad alcune categorie svantaggiate – e che troviamo invece errate, frutto malato di una visione lobbystica della politica.
Vogliamo riflettere su alcuni aspetti, innanzitutto sui dati che confermano quanto la crisi pandemica ed economica abbia ripercussioni negative sulla condizione di vita delle donne costrette al part time e al precariato, donne che, nella classifica dei senza lavoro, senza specializzazione e dei bassi salari, sono messe decisamente peggio degli uomini.
Quando poi si parla di occupazione femminile ci si limita quasi sempre alla partecipazione al mercato del lavoro: oltre il 50 per cento delle donne tra i 20 e i 64 anni sono occupate (53,2 per cento, 19 punti percentuali in meno degli uomini) mentre il 40 per cento risultano “inattive”; statisticamente sono a casa senza lavoro.
La società costruita negli anni neoliberisti ha acuito le disuguaglianze di classe e quelle di genere e alcuni settori liberal del capitalismo avanzato ritengono questa situazione inaccettabile per la stessa gestione capitalistica della crisi.
Una volta per tutte dovremmo invece prendere in esame non solo il lavoro che produce valore di scambio (la produzione di beni e servizi destinati al mercato), ma anche il lavoro non retribuito che potrebbe essere superato da un modello di welfare inclusivo e avanzato rispetto a quello ereditato dagli anni neo keynesiani, quando era l'uomo in prevalenza a lavorare. Pensiamo a un welfare che non affida al terzo settore, sottopagato, la gestione delle Rsa o di parti rilevanti della sanità, a un welfare che preveda servizi per anziani e l'infanzia realmente accessibili, ad esempio generalizzando l'accesso ai nidi, oggi servizi a domanda individuale, e, nel comparto della Pubblica istruzione, le scuole per l'infanzia, dette impropriamente “materne” a sottolineare la separatezza della funzione sociale della donna.
Le donne svolgono meno lavoro retribuito degli uomini ma molto più lavoro gratuito.
Siamo ben lontani da costruire una vera società della cura. La flessibilità degli orari, anche accordata dagli accordi sindacali di secondo livello, ha avuto effetti nefasti indebolendo sanità e previdenza pubblica a favore di quelle integrative, accrescendo la produttività a costo irrisorio per i datori di lavoro e allo stesso tempo ha scaricato oneri familiari e sociali crescenti sulle donne.
Oltre il 70 per cento delle attività di cura in ambito familiare, incluso lo stesso volontariato, sono svolte da donne. Molte sono le attività promosse dalle istituzioni locali per sostituire personale contrattualizzato con figure di volontari nel silenzio assenso delle organizzazioni sindacali più rappresentative (anche su questo punto dovremmo aprire una vertenza complessiva), il che dovrebbe indurre a qualche riflessione anche sulla necessità di una proposta radicale di revisione del nostro welfare.
L’Istat ha stimato, per il 2014, un monte ore di lavoro non retribuito pari a 71 miliardi e 364 milioni generato dal complesso della popolazione di 15 anni e più [1].
Con queste riflessioni vogliamo aprire una discussione reale sulla nostra società e sui divari crescenti ma al contempo diffidare di certe posizioni liberal, forti anche a sinistra, per le quali la soluzione del problema sarebbe quella di rendere accessibile il mercato del lavoro alle donne sul modello di quanto avviene nei paesi del Nord Europa.
La scarsa presenza delle donne nel mercato del lavoro rappresenta un problema per la gestione capitalistica. Da qui nasce la attenzione spasmodica per misure inclusive nel mercato del lavoro ma senza mai superare i limiti dell'attuale welfare che avrebbe bisogno non di tagli ma di investimenti anche dentro un'ottica socialdemocratica.
Nello stesso tempo urge anche una riflessione complessiva, all'interno di una visione articolata e di classe che non finisca con il rimanere subordinata alle istanze di genere ma le assuma, su quanto sta accadendo nel corpo sociale.
Un aspetto rilevante per la critica alla società patriarcale dovrebbe ancora oggi fare i conti con il passato e con il Fascismo: un solo anno dopo la fine della guerra sono stati reinseriti al loro posto quanti erano stati estromessi per connivenza e partecipazione al ventennio. Fu così che ci siamo ritrovati con tanti fascisti nei posti di comando delle Forze dell'ordine, dell'esercito, nelle autorità statali.
Non casuale è la sopravvivenza del codice Rocco, ancora oggi vigente, e della riforma Gentile che prevedeva l'espresso divieto per le donne di accedere ad alcuni ruoli dirigenziali nella scuola e la esclusione dalla stessa Magistratura.
Ha ragione lo storico F. Filippi nel sostenere che "il fascismo voleva rimettere le donne 'al proprio posto' dopo la Guerra mondiale"
Quel substrato culturale è ancora lungi dal morire, per questo la figura femminile nel Fascismo era esclusa dal mondo del lavoro e relegata al ruolo di madre.
Da qui nasce ancheil progressivo depotenziamento dei consultori pubblici e le iniziative contro l'aborto nel contesto di una visione della società tanto arcaica quanto velata da quel paternalismo tipico del patriarcato.
Nel 1938 il Fascismo emanò perfino una legge che limitava al 10 per cento la presenza femminile nelle aziende Il “matrimonio riparatore” della stessa violenza sessuale e il delitto d'onore verranno aboliti soltanto nel 1981. Neppure la Repubblica fondata sulla Resistenza al nazifascismo fece i conti con un modello culturale e sociale arcaico. Anche il sessantotto e la stagione femminista degli anni settanta costituirono una risposta a questo modello.
Il modello di welfare per le destre resta quello che considera le donne solo nel ruolo di madri tanto che si pensa ad aiuti economici alle donne perché partoriscano e per conciliare la vita familiare e lavorativa.
A distanza di decenni, la donna è ancora l'angelo del focolare nella cultura di destra imperante nella nostra società e lo stesso diritto all'aborto viene quotidianamente minacciato.
Note:
[1] Dato riportato anche da lavoce.info (https://lavoce.info/archives/100326/quanto-vale-il-lavoro-delle-donne/)