L’approdo politico (definitivo?) del Pd a trazione renziana è mirabilmente riassunto nello sbocco d’ira con cui il Genio della Lampada ha commentato l’opposizione di massa (ahinoi tardiva) alla cancellazione tardiva dell’articolo 18.
“Ma come, – ha tuonato Renzi – si pretende che un giudice, cioè un corpo estraneo al libero rapporto fra datore di lavoro e dipendente, entri in fabbrica e limiti la libertà dell’imprenditore di cacciare chi non gli è gradito?”
Eccoci serviti: il luogo di lavoro deve tornare ad essere, più di quanto già non sia, una zona franca, dove sono bandite le leggi dello Stato e i diritti azzerati, a partire da quel relitto antidiluviano che per Renzi e compagnia cantante è la Costituzione repubblicana.
La reintegrazione nel posto di lavoro nel caso in cui un licenziamento sia stato intimato senza “giusta causa” è equiparata ad un’usurpazione inflitta all'imprenditore.
Non poteva essere meglio formulata la concezione “basica” dei rapporti sociali incardinata nel pensiero leopoldano: “libero padrone in libera impresa”, ovvero “libera volpe in libero pollaio”.
Non perderei tempo in dispute nominalistiche tese ad acclarare se siamo oppure no alla riedizione di una forma di fascismo. Diciamo piuttosto che Renzi rappresenta genuinamente il dominio assoluto del capitale nell'epoca della superfetazione finanziaria.
Dentro il bozzolo artificiale di un’esibita modernità tecnologica cresce una politica apertamente reazionaria, di conio ottocentesco, condotta per nome e per conto delle classi dominanti.
E’ Renzi stesso, del resto, a farci conoscere i suoi mentori: sono Toni Blair (l’uomo che portò a compimento il disegno di distruzione del welfare inaugurato da Margareth Tatcher); Luigi Zingales (l’erede più recente del mercatismo integrale di Milton Friedman e della scuola di Chicago); e Pietro Ichino (il fautore di un organico programma di distruzione del giuslavorismo moderno e del potere di coalizione dei lavoratori).
Fatale, date queste premesse, che si sia giunti a mettere nel mirino il diritto di sciopero e che i questori d’Italia abbiano compreso che si può tranquillamente menare botte sugli operai.
Anche nei piani alti dell’edificio sociale si è colto con sicuro istinto di cosa si tratta. Così, noti finanzieri d’assalto, top manager rampanti, immobiliaristi e palazzinari, vertici di fondazioni ed organizzazioni di impresa sono volati a corte ed ora figurano fra i più entusiasti ed ovviamente disinteressati finanziatori della new age. I cui giovani astri nascenti, clonati nel casting fiorentino, sembrano tante “pecore Dolly”, l’ovino – ricorderete – nato biologicamente vecchio, malgrado l’ostentata posa da Ventesima Avenue.
Quanto alla cosiddetta minoranza del Pd, quella, per capirci, di ascendente occhettiano, col sangue ormai annacquato da innumerevoli abiure e transumanze, non emette che patetici belati, avendo deciso da gran tempo il proprio approdo liberal-democratico, anch'esso di troppo per la ruzzola liberista che precipita senza freni.
Da dieci giorni la Cgil – paralizzata per anni da un’inerzia letargica – ha fatto la Cgil. E’ bastato questo scampolo di resuscitata vitalità sindacale per fare vacillare la boria del capo del Pd. Persino i media nostrani, sempre avidi di servilismo verso i potenti di turno, hanno dovuto per un istante moderare le proprie ruffiane genuflessioni. E’ il conflitto sociale, bellezza, che quando irrompe sul serio sulla scena politica redistribuisce le carte, lo si voglia o no, a tutti gli attori in gioco. Ora, però, delle due l’una. O si alza davvero il tiro o se si rincula il contraccolpo può diventare micidiale.
Scioperare è molto più che manifestare. Comporta sacrifici consistenti. E so per esperienza che i lavoratori – e massimamente gli operai – per aderirvi vogliono vederci chiaro. Vogliono, innanzitutto, sapere perché vengono chiamati alla lotta. Vogliono vedere – e condividere, attraverso l’esercizio pieno della democrazia – una piattaforma, concordare una strategia e una tattica. E chiedono allo “Stato maggiore” del proprio sindacato di non essere lasciati sul secco di fronte alla prima difficoltà. Potete essere certi che queste cose i lavoratori le chiederanno nelle assemblee già programmate per preparare lo sciopero del 12 dicembre. E staranno molto attenti alle risposte che saranno loro date. Vorranno capire se si apre una vertenza oppure se si sta facendo “ammuina”. Tanto più che la posta è altissima, perché squisitamente politica.
E qui sta la difficoltà. Poiché il punto da cui si riparte – per avere tutto subito, in questi anni, senza colpo ferire – è molto basso.
Scioperare per l’articolo 18 è sacrosanto, ma non per tornare alla versione di Elsa Fornero. E affrontare sul serio la crisi non può ridursi a biascicare qualche chiacchiera contro l’austerity e la voracità teutonica. Se fai per davvero devi avere la forza di disobbedire ai trattati iugulatori (da Maastricht al Fiscal Compact, passando per il pareggio di bilancio) e chiarire cosa ciò comporta; devi chiedere una vera patrimoniale e una politica fiscale che restituisca progressività all’imposta sul reddito; devi pretendere che sia posto un tetto agli stipendi e alle pensioni; devi opporti alle privatizzazioni e rivendicare concrete misure contro le delocalizzazioni; devi riprendere l’iniziativa per il rinnovo dei contratti scaduti da secoli; devi porre all'ordine del giorno la statalizzazione della siderurgia nel contesto di un nuovo ruolo della “mano pubblica” e rimettere in discussione il ruolo della Banca centrale e della Cassa depositi e prestiti; devi avere una linea chiara sugli investimenti nell'infrastrutturazione primaria, smettendo di parlare acriticamente di crescita e contemporaneamente rilanciando una strategia di riduzione generalizzata degli orari di lavoro senza la quale è velleitario pensare che si possa venire a capo della disoccupazione.
Ebbene, tutto questo al momento non troviamo nella bisaccia della Cgil che troppa polvere ha accumulato sul proprio armamentario strategico.
Per questo spetta a noi il compito di partecipare a tutte le mobilitazioni prossime venture, non in modo passivo, o invisibile, ma ponendo ovunque l’intera dimensione del conflitto che di snodo senza i quali non sarà possibile aprire una prospettiva nuova.