Dopo la vittoria elettorale di Donald Trump, i media nostrani hanno dato voce quasi esclusivamente alle elites liberali sotto shock. Dai ragazzi abituati al mondo ovattato delle università agli intellettuali che immaginano l’espatrio verso il Canada, sembra che il mondo si esaurisca in un dibattito “o con Trump o con Hillary”.
Eppure esistono voci diverse, radicate nel lavoro e nella tradizione intellettuale marxista. Certamente sono voci deboli e frammentate ma, dopo anni di mobilitazioni sociali e dopo la corsa di Bernie Sanders, questo è uno dei momenti più interessanti per ascoltare alcune tra le voci marxiste provenienti da oltreoceano.
Jacobin
Sul Jacobin Magazine è apparso un editoriale firmato dal direttore Bashkar Sunkara e da altri attivisti e intellettuali intitolato “La politica è la soluzione”, sottotitolato ancora più eloquentemente “Non possiamo trasferirci in Canada o nasconderci sotto il letto”. L’editoriale critica l’incapacità di Hillary Clinton nel convincere le stesse categorie – donne, latinos, neri – sotto attacco di Trump e conclude che la politica liberale delle elites non può sconfiggere il populismo di destra e che ora bisogna avviare la politica della classe operaia.
Un altro intervento è stato quello dello storico Adaner Usmani – Sette tesi su Donald Trump – che critica la visione per cui la vittoria del miliardario sarebbe un puro trionfo di razzismo e misoginia e che conclude amaramente che “se la sinistra si separa dagli elettori di Trump, anche noi [non solo i liberali] restiamo senza risposte. Tutte le organizzazioni socialiste del paese non potrebbero riempire uno stadio di football, figuriamoci rimettere al suo posto Trump. Principalmente siamo rinchiusi nelle università o negli stati più liberali. Se organizzarci significa mettere il doppio dello sforzo nelle attività che facciamo già, siamo nei guai”.
Occupare Trump?, si chiede Sofia Cutler riflettendo sul movimento Occupy Wall Street nato e sgomberato nell’autunno di 5 anni fa. Per Cutler, Occupy rappresenta quasi un manuale di tutto quello che non bisognerà fare nell’opposizione a Trump, un movimento rapidamente diventato un luogo in cui i singoli individui cercavano di migliorarsi individualmente. Il movimento anti Trump dovrebbe invece “sfidare le strutture e le forze che hanno portato Trump al potere. Gli spazi sicuri nelle università non sono adatti a questo scopo […]. Dobbiamo invece contrastare gli effetti disastrosi della deregolamentazione, della privatizzazione e della disintegrazione della sicurezza sociale. Dobbiamo organizzarci collettivamente contro un sistema economico che usa il razzismo, la xenofobia e la misoginia per dividere i lavoratori”. Gli esempi da prendere sono invece i movimenti di massa come Black Lives Matter e le mobilitazioni sindacali.
Il lavoro
L’organizzatore sindacale Buzz Malone non si limita a criticare la classe politica liberale, punta il dito anche contro le dirigenze sindacali – certamente deboli dal nostro punto di vista, ma relativamente forti in alcuni degli stati in cui c’è stato un significativo spostamento di operai verso Trump – che non ha saputo reagire alla situazione. Secondo Malone queste elezioni “hanno coinvolto persone disgustate dallo status quo. Persone poco o per nulla interessate al voto hanno votato perché hanno visto esplodere le loro spese sanitarie (incolpano l’Obamacare) o perché ricordano i loro parenti disoccupati a causa del NAFTA firmato da Bill Clinton. Molti di loro sono stati o sono tutt’ora democratici, hanno votato non contro Trump ma contro quello che hanno percepito come il candidato dell’establishment che veniva imposto”, anche dai sindacati che ancora corrono il rischio di impegnarsi solo nel prossimo ciclo elettorale e di non mobilitarsi subito contro gli attacchi al lavoro.
L’emersione di una terza forza politica negli Stati Uniti è notoriamente resa quasi impossibile dal sistema politico che ha reso Repubblicani e Democratici quasi delle istituzioni irremovibili. Per questo la sinistra è sempre divisa tra tentativi di costruire un partito indipendente e manovra per lavorare dentro i Democratici, come nel tentativo di Sanders. Nella sua “Proposta per un Nuovo Partito” Seth Ackerman ripercorre il tentativo del Partito del Lavoro fatto negli anni ’90, un partito che provò a organizzarsi senza ricorrere alle urne fino a quando non fosse stato abbastanza forte da essere considerato un’alternativa credibile. Pur con alcune campagne di successo, il tentativo s’interruppe prima che il Partito del Lavoro fosse arrivato a presentarsi alle elezioni. Secondo Ackerman la crisi dei Democratici e il nuovo sistema di donazioni ai partiti rendono possibile la costruzione di un Nuovo Partito che si organizzi sul terreno sociale e, caso per caso, decide se presentarsi alle elezioni e, nel caso, se presentare candidature indipendenti o all’interno dei Democratici stessi.
Sulla persistenza del sistema bipartitico si concentra John Nichols in “Disfando il partito” pubblicato dalla sezione di New York della Fondazione Rosa Luxemburg. Nichols ricostruisce come tanto Trump quanto Sanders siano stati candidati outsider rispetto ai rispettivi partiti e che entrambi hanno posto una sfida esistenziale a Repubblicani e Democratici. L’apparato democratico si è totalmente rifiutato di riconoscere il significato della corsa di Sanders e sta resistendo al tentativo di Sanders di prendere il controllo del partito (Ackerman sostiene che questo tentativo sia già pericolosamente vicino a essere riassorbito e normalizzato dall’establishment). Per Nichols, la chiusura dell’apparato dei Democratici potrebbe portare a una crisi del sistema bipartitico, anche in considerazione del rafforzamento elettorale di “terze forze” come i Verdi a sinistra e i Libertari a destra, di alcune esperienze locali incoraggianti per le organizzazioni di sinistra e dell’ormai larghissima sfiducia nel sistema bipartitico. Da questa crisi secondo Nichols potrebbe nascere un nuovo sistema politico. Addirittura, un sistema politico “che faccia un po’ meno schifo”.