Lo jihadismo come “deriva reazionaria di massa” nella definizione di Alain Badiou non costituisce una forma di lotta antimperialista, ma è di fatto un reale progetto di eversione mondiale al soldo (e in concorrenza) con i vari imperialismi che tentano di controllare in ottica neocoloniale fonti di energia e aree strategiche militari e commerciali.
di Giovanni Bruno
Tra le molte implicazioni derivanti dall’attentato di Nizza, vi è quello relativo alla ricerca di esempi e analogie storiche che possano fornire elementi di comprensione delle dinamiche e degli sviluppi di un tale fenomeno distruttivo e violento, allo scopo di individuare le contromisure per contenere i soggetti pronti a colpire e in attesa di un “ordine”, e al contempo sterilizzare i potenziali emulatori.
Da questo punto di vista, vi è una generale propensione a cercare negli anni Settanta italiani una sorta di precedente storico, la cui “soluzione” potrebbe per molti fornire elementi politico-sociali e giuridico-legislativi per prendere provvedimenti adeguati a combattere efficacemente il fenomeno.
In realtà, quello che sta emergendo è una mistificazione inquietante del fenomeno “terrorismo”, che rischia di far prendere abbagli con analisi completamente sbagliate e conseguentemente risposte inadeguate o fuorvianti, se non peggiorative della situazione.
Un aspetto che emerge prepotentemente è quello del “revisionismo”: già nelle ore immediatamente successive alla strage di Nizza (ma già era iniziato ad accadere rispetto ad altre stragi avvenute nei mesi precedenti) molti commentatori, giornalisti, analisti e anche politici hanno iniziato a riferirsi alla situazione italiana dei cosiddetti “anni di piombo”, concentrando l’attenzione sull’isolamento dei “terroristi” e sulla presa di distanza che le forze politiche assunsero rispetto alla lotta armata. L’operazione che emerge ha più la parvenza di un “depistaggio” che di una discussione volta a comprendere profondamente il fenomeno del “terrorismo islamoide”, operazione di de-formazione della storia a uso e consumo delle giovani generazioni: infatti, l’impostazione assunta è chiaramente indirizzata verso coloro che per motivi anagrafici sono ignari di quanto accaduto negli anni Settanta e che non solo vanno tenuti all’oscuro, ma devono essere plasmati da una ricostruzione ideologica, priva di consistenza e palesemente falsa.
Il richiamo costante alle comunità islamiche affinché isolino e denuncino i violenti e i “radicalizzati” è sempre più spesso accompagnato dal paragone con la lotta armata in Italia contro la quale il Partito Comunista Italiano assunse una posizione di condanna politica, di emarginazione sociale e di denuncia attiva. Il messaggio è chiaro: il “terrorismo jihadhista” equivale al “terrorismo rosso” e si combatte con l’attiva presa di posizione delle comunità e dei cittadini di fede islamica che devono condannare, emarginare e denunciare coloro che danno segni di “radicalizzazione”.
Personalmente non ho alcuna simpatia per alcuna religione, e in particolare per le religioni monoteistiche in nome delle quali i popoli si sono sempre massacrati vicendevolmente: tuttavia, è anche decisamente sbagliato ritenere che ci si trovi di fronte a uno “scontro di civiltà” in quanto le articolazioni regressive delle ideologie religiose monoteistiche (siano islamiche, cristiane o ebraiche) rappresentano la superficie, certo importante per l’attivazione di azioni individuali e collettive, di un ben più ampio e profondo scenario di destabilizzazione globale, in fase di allargamento, per cui si vanno aprendo e accentuando conflitti tra aree geopolitiche in cui si gioca la partita del dominio imperialistico del XXI secolo (l’area tra UE e Russia/CSI, l’area mediorientale, l’area nordafricana e sub-sahariana, l’area indo-pakistana: vi sono poi gli scenari dell’estremo oriente e della America Latina in cui le frizioni si vanno accumulando e si scateneranno nei prossimi anni).
Se richiami storico-analogici a scenari terroristici si potessero fare, pur ricordando che ogni fenomeno ha peculiarità proprie e non è mai sovrapponibile completamente, si dovrebbe semmai richiamare la stagione dello stragismo che in Italia iniziò nel 1969 e proseguì con gli attentati sui treni, nelle piazze e nelle stazioni: è lo stragismo nero l’esempio da portare per le caratteristiche delle azioni, degli obiettivi, delle finalità. È lo stragismo nero, e in parte la stagione delle bombe mafiose degli anni Novanta (Falcone e Borsellino, ma anche le bombe a Firenze, Roma e Milano), che hanno il carattere della destabilizzazione attraverso il terrore, per l’apertura di una trattativa con i governi: non va però dimenticato che sia gli attentati stragisti, sia quelli mafiosi non avevano un intento sovversivo/rivoluzionario, ma eversivo/reazionario, in quanto sia i neofascisti, sia i mafiosi si erano sempre avvalsi di coperture ed erano orientati da settori collusi della politica e dei servizi segreti (nazionali e internazionali) allo scopo di frenare i processi di allargamento della democrazia politica e sociale, e sostanzialmente di difendere gli interessi delle classi dominanti. Si può aggiungere, per quanto riguarda la mafia, che essa alzò la posta in gioco per ottenere ulteriori pezzi di potere rispetto a quelli garantiti dal regime democristiano.
La malafede ipocrita dell’apparato dell’informazione sta creando un fraintendimento del fenomeno: i “jihadisti” sono solo in apparenza al servizio di una causa ideale, in realtà combattono una battaglia interna al sistema per appropriarsi di spazi e porzioni di potere, che gli stessi stati imperialisti euroamericani hanno loro consegnato, pensando di tenerli sotto controllo.
La logica della destabilizzazione ha l’epicentro in Medio Oriente, ma lambisce anche l’Europa, e la Francia in particolare (per ora) in quanto maggiormente impegnata sul terreno a difendere i propri interessi (in Libia, in Siria, senza dimenticare il Ciad e il Mali): non è dunque uno scontro di civiltà, ma neppure una semplice rappresaglia per le campagne militari dell’Occidente e della Francia in particolare. È piuttosto una resa dei conti di bande in lotta per l’acquisizione di territorio e potere dopo la distruzione di regimi e stati (senz’altro poco presentabili e autoritari come l’Iraq di Saddam Hussein e la Libia di Gheddafi), in una logica regressiva e di spartizione delle fonti energetiche e degli spazi geopolitici.
Insomma, i “jihadisti” sono una forma (più o meno estremizzata) di “deriva reazionaria di massa” (Alain Badiou lo definisce “fascismo rampante”) in cui sottoproletari disperati e rampolli della borghesia dorata hanno trovato un’ideologia interclassista e violentemente aggressiva nella religione: essi sono la massa di manovra, la manovalanza più o meno inconsapevole o cosciente di un progetto di affermazione coloniale nell’area mediorientale di stampo waabhita, che collide con i progetti imperialistici occidentali.
In conclusione il “jihadismo” (nella forma combattente in medioriente o nella forma terroristica nelle cittadelle imperialiste occidentali) è un fenomeno reazionario di massa (anche i singoli sono collegati alla rete informatica delle formazioni jihadiste) che realizza lo scontro per il predominio neocoloniale sulle aree contese per le fonti di energia e per la rilevanza strategica politico-militare ed economico-commerciale.
Il “jihadismo” (in generale, Daesh non è che la formazione più organizzata e meglio rifornita) è infatti in gran parte collegato a settori economico-finanziari occidentali per affarismo, colluso con servizi e settori militari che lo utilizzano, sostenuto dalle potenze militari con soldi e mezzi.
Il “jihadismo” insomma non è una forma di resistenza antimperialistica, ma è complice dell’imperialismo occidentale, anche se in concorrenza e competizione con esso.