Cile, 19 dicembre, le 7 di sera o poco più. Un grido liberatorio si alza dai palazzoni di Santiago, dalle poblaciones, dalle regioni del Nord fino a quelle del Sud: Ganamos! (“abbiamo vinto”).
Con più del 50% dei voti scrutinati, il vantaggio di Gabriel Boric è già incolmabile e il suo avversario, l’esponente dell’ultradestra pinochetista José Antonio Kast, mentre annuncia sui suoi social network di aver appena telefonato al nuovo presidente del Cile per fargli i complimenti, sta riconoscendo, di fatto, la propria sconfitta.
C’è chi appende bandiere ai balconi, chi canta, chi suona il clacson, e tanti, tantissimi, si riversano nelle strade per poi riempire la piazza del proprio quartiere – come a Ñuñoa o a Maipú – o andando verso il centro, all’Alameda, a formare una folla oceanica come non si vedeva dai tempi delle manifestazioni che superavano il milione di persone, per ascoltare il primo discorso del nuovo presidente eletto.
Candidato del Frente Amplio, 35 anni – il più giovane presidente del Cile di sempre – Gabriel Boric si era formato politicamente già nel 2011 come dirigente del movimento studentesco dei pingüinos, i quali chiedevano una istruzione pubblica, gratuita, e di qualità; un terreno fertilissimo, un’esperienza formativa vissuta assieme ad altri personaggi ora di grosso calibro, tra cui i deputati Giorgio Jackson (FA), Camila Vallejo e Karol Cariola (PC), solo per citarne alcuni.
Criticato durante il risveglio cileno del 2019 per essere stato uno dei protagonisti della firma del controverso accordo costituzionale, Boric è riuscito durante quest’ultimo anno a riguadagnare popolarità; lo ha fatto soprattutto nell’elettorato di sinistra più moderato, con le sue proposte ecologiste, femministe, e di riforma dello stato sociale cileno di impronta iperliberista e pinochetista verso uno più socialdemocratico, con maggiore presenza pubblica ed equità sociale.
In un Cile spaventato dalla pandemia e dalla crisi economica, Boric si era imposto a sorpresa alle primarie sul candidato del Partito Comunista Daniel Jadue, le cui proposte erano più radicali e che era diventato popolarissimo grazie alle iniziative sociali, culturali e soprattutto per il progetto di Farmacias Populares implementato nel quartiere di cui è sindaco, Recoleta, le quali consentono tuttora di comprare molte medicine a basso costo in un paese in cui la sanità è un vero e proprio lusso. Modello, va sottolineato, imitato in tutto il paese e che è stato ultimamente rilanciato con l’iniziativa del Gas Popular, che prova a contrastare il fenomeno globale del caro energia che si fa sentire anche da questa parte delle Ande.
Superato il lutto di una grandissima occasione persa, noi comunisti (chi scrive è un militante) ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo sostenuto la campagna del candidato di coalizione con determinazione, fedeltà e impegno; la recente alleanza, del resto, aveva già permesso di ottenere un eccellente risultato alle elezioni per la Convención Constitucional – una delle pietre miliari verso la costruzione del nuovo Cile che sogniamo.
Ma le brutte sorprese erano appena cominciate. Nonostante una comunicazione tanto brillante quanto moderata, al primo turno – dove si eleggono anche senatori, deputati e consiglieri regionali – Kast conquista la maggioranza relativa dei voti con ben due punti di vantaggio su Boric e la destra si prende metà del parlamento. In Cile, fino a quel momento, nessun candidato era mai riuscito a rovesciare il risultato della primera vuelta e i voti dei vari candidati di destra, se sommati, costituiscono la maggioranza.
Ma il giovane proveniente dalla regione di Magallanes, del profondo Sud del Cile, non si dà affatto per vinto.
I sostenitori attivi alla sua campagna elettorale si moltiplicano, e con essi le attività di volantinaggio, i banderazos, eventi culturali. Tantissimi si iscrivono come apoderados (rappresentanti ai seggi) e in sole tre settimane i militanti riescono a bussare a più di un milione di porte per spingere a votare il gran popolo degli astenuti.
Nei giorni immediatamente precedenti alle elezioni succede di tutto. Giovedì, proprio nel giorno della chiusura della campagna elettorale, muore – alla “tenera” età di 99 anni – Lucia Hiriart, vedova Pinochet e con ruolo attivissimo durante la dittatura: era una delle donne più odiate del paese. Mentre una grande folla si raduna al Parque Almagro al comizio di Boric, un altro gruppo meno numeroso si raduna con bandiere, cori e perfino champagne a Plaza Dignidad (ex Plaza Italia, luogo emblematico delle proteste cilene); Boric emette dichiarazioni in linea con quelle delle vittime delle violazioni ai diritti umani, di ieri e di oggi, che denunciano l’impunità goduta dagli esponenti del regime mentre Kast, accompagnato nel quartiere bene di Las Condes da una folla numerosa ma molto meno consistente di quella del suo avversario, è costretto a minimizzare e a cercare di barcamenarsi, nel faticoso tentativo di smarcarsi dalla sua propria immagine di figura contigua alla dittatura e che, tralasciando le tante dichiarazioni a favore dell’epoca militare, partecipò attivamente alla campagna per il “sì” a Pinochet al referendum del 1988.
Senz’altro ha influito, nel risultato del voto, la paura di un ritorno ai momenti più bui della storia cilena, quella pinochetista, che Kast inevitabilmente rappresenta. “Che la speranza vinca contro la paura”, del resto, è stato uno degli slogan più ricorrenti della campagna elettorale della coalizione di sinistra. Il candidato del Partido Republicano ha provato a rendere pan per focaccia e rilanciare, ma senz’altro con meno efficacia, agitando lo spettro del comunismo e del “Chilezuela”.
Il giorno del voto è costellato da nuove polemiche. Le aziende di trasporti (con la possibile complicità del governo di destra di Piñera) lasciano molti bus in rimessa, probabilmente nella speranza di boicottare l’affluenza al voto dei settori più disagiati; la presunta manovra infatti – in un paese in cui l’assegnazione del seggio nel quartiere funziona in modo praticamente aleatorio – genera attese di ore e ore alle fermate, autobus strapieni (in pandemia), lamentele generalizzate che arrivano a essere un vero e proprio caso mediatico.
I sostenitori di Boric si attivano ancora una volta con l’autorganizzazione; migliaia di persone usano la propria auto o pulmini per accompagnare le persone a votare, specie quelle più anziane, vulnerabili o distanti dai seggi.
Questa volta gli sforzi degli attivisti vengono premiati; la partecipazione aumenta tra il primo e il secondo turno dal 47,33% al 55,64% degli aventi diritto, ovvero di circa un milione e duecentomila persone, fino a raggiungere il record storico di affluenza in termini assoluti. Le analisi posteriori ci diranno che il voto femminile e quello giovanile hanno avuto un gran peso nella vittoria, e che ha pagato la scelta di bussare alla porta degli astenuti, invece di inseguire i voti del candidato populista e antipolitico Parisi – che a sorpresa aveva ottenuto il 10% al primo turno e che Boric ha criticato apertamente per non aver pagato gli alimenti alla ex moglie per i figli, rifiutandosi pubblicamente tra l’altro di partecipare a un evento da lui organizzato.
E ora? Il trionfalismo di certa stampa italiana ed europea rispetto alle elezioni cilene non può certo illuderci. Del resto, molti di quei rappresentanti che da noi applaudono alle elezioni cilene sono quegli stessi che, passo dopo passo, ci stanno traghettando verso quel modello liberista imposto con la forza da Pinochet e poi esteso, con altri mezzi e maggiore gradualità al resto del mondo.
Il parlamento cileno è (a dir poco) spaccato a metà, dato che riflette l’esito del primo turno. Molti esponenti della parte “sinistra” del parlamento – Democracia Cristiana, Partido Socialista, ma anche vari rappresentanti dello stesso Frente Amplio – hanno una visione della politica economica che potrebbe essere definita tutto sommato tecnocratica, e lo stesso Boric ha dichiarato nel suo discorso che saranno necessari accordi di ampio respiro per le riforme; non una sanità pubblica e gratuita, ma un’assicurazione sanitaria universale (che ricorda un po’ il modello Obama). Il dogma dell’indipendenza della Banca Centrale non solo non viene scalfito, ma viene addirittura sostenuto – nonostante il “divorzio” qui sia avvenuto nel 1975, cioè in piena dittatura. Le violazioni ai diritti umani avvenute durante il governo di Piñera sono ancora in grandissima parte impunite, e centinaia di prigionieri politici, molti dei quali ancora in attesa di giudizio, sono ancora nelle carceri. La crisi economica, la disuguaglianza, sono ferite aperte e sanguinanti nel tessuto sociale cileno che difficilmente un governo riformista e senza maggioranza parlamentare riuscirà a sanare del tutto.
È lecito dubitare, infatti, di trovarci di fronte a un nuovo governo Allende – anche perché le condizioni storiche e i rapporti di forza non sono affatto gli stessi. Ma c’è una buona notizia: nel naufragio della coalizione, il PCCH è riuscito a incrementare i suoi voti dal 5% all’8%, riuscendo per la prima volta dal 1969 a eleggere rappresentanti in Senato (due) e incrementando il numero dei propri deputati in parlamento (dagli 8 del 2017 ai 12 di oggi). Forse i tempi non sono ancora maturi per un presidente comunista, o per una maggioranza schiacciante della sinistra che realizzi in fretta un rovesciamento dell’attuale sistema. Ma grazie al metodo leninista, all’esperienza sul campo e all’autoformazione culturale, partecipando al governo noi comunisti riusciamo sempre a fare – per quanto possibile – la differenza.
E questa volta condividiamo coi nostri alleati una visione del futuro, una speranza, e una gran voglia di cambiare l’attuale sistema economico, politico, e sociale. Siamo “cresciuti assieme” nelle lotte studentesche e da lì abbiamo fatto tanta strada, nonostante le legittime differenze di opinioni.
Ancora una volta, ci ritroviamo di fronte alla sfida di mettere al servizio del paese e di questo bellissimo popolo le nostre idee, il nostro impegno, le nostre battaglie. Senza limitarci a delegare, ma continuando a fare politica attiva, giorno per giorno, non perdendo di vista nessun fronte – “un piede nelle piazze e un piede al governo” – fino a quando non valga la pena, fino a quando il Cile che sogniamo si possa non solo realizzare ma perfino essere un modello per i nostri vicini latinoamericani e, perché no, per il mondo intero.