Le imponenti manifestazioni in atto senza sosta, da quasi due settimane, negli Stati Uniti d’America costituiscono l’evento più significativo della millenaria lotta per l’emancipazione del genere umano in questo periodo caratterizzato dalla pandemia. In primo luogo in quanto segnano una decisiva inversione di tendenza a livello internazionale. Dopo aver assistito attoniti alle manifestazioni reazionarie in atto negli Stati Uniti, in Brasile, Germania e in misura più limitata anche in Italia, dopo aver assistito agli esiti sostanzialmente favorevoli alle potenze imperialiste delle mobilitazioni in atto in paesi come Iraq e Libano, le forze che si battono per l’emancipazione del genere umano hanno riconquistato quanto meno le piazze negli Stati Uniti per poi espandersi a raggiera a livello internazionale. Del resto un evento di tal portata – ossia manifestazioni di massa prolungate nel tempo nel cuore stesso dell’imperialismo più aggressivo con obiettivi inequivocabilmente progressisti come la lotta contro il razzismo e, almeno in potenza, la lotta alla criminalizzazione della povertà – non potevano che avere dei riflessi decisamente positivi sul piano internazionale. Anche perché le massicce mobilitazioni di questi giorni – ormai in atto in contemporanea nelle principali città degli Stati Uniti e in centinaia di altre località, anche sperdute – non accennano a diminuire e puntano addirittura a proseguire a oltranza fino alla ricorrenza del 28 agosto, giorno della storica grande marcia su Washington del movimento antirazzista statunitense degli anni sessanta.
Anche perché, sebbene sorte in modo sostanzialmente spontaneo – nonostante le più che comprensibili e prevedibili esplosioni di furore popolare – le manifestazioni sono riuscite in tempi inconsuetamente rapidi ad autoregolarsi e ad arrestare le tendenze puramente distruttive e nichiliste, isolando gli infiltrati degli apparati repressivi dello Stato e dell’estrema destra. Per altro, le abituali durissime repressioni e provocazioni delle forze del (dis)ordine borghese sono state significativamente attenuate dalla massiccia presenza di manifestanti di tutte le etnie, con moltissimi e spesso giovanissimi caucasici a far da scudo alle consuete vittime del razzismo classista statunitense.
In tal modo le manifestazioni hanno, ben presto, ampiamente superato la comprensibile volontà di rivalsa della comunità afroamericana – la più soggetta alla criminalizzazione delle classi subalterne negli Usa – sino ad assumere dimensioni davvero imponenti, come i dieci cortei confluiti a Washington in una manifestazione di oltre un milione di persone. Si tenga presente che la celeberrima grande marcia su Washington del 1963 aveva visto scendere in piazza 250 mila manifestanti, ossia meno di un quarto degli odierni. Senza contare che la grande manifestazione nazionale è stata preparata da ben 600 manifestazioni in tutto il territorio degli Stati Uniti, persino nelle località più tradizionalmente razziste.
In tal modo, le manifestazioni sono riuscite a fare egemonia, costringendo per una volta all’angolo l’ideologia dominante espressione della classi dominanti. Ciò ha costretto molte personalità di rilievo dal mondo dello spettacolo, al mondo del cinema e dello sport ad assumere posizioni inedite di pieno sostegno alle mobilitazioni e di dure critiche agli apparati repressivi dello Stato e al razzismo sistemico da sempre dominante nel paese. Mentre il presidente suprematista Donald Trump – che ha provato a rispondere a modo suo alle manifestazioni, esortando l’intervento dello stesso esercito per meglio reprimere le mobilitazioni – si è trovato, come mai prima, isolato. Non solo dai politici a capo delle istituzioni locali che si sono generalmente rifiutati di dar seguito ai suoi inviti a una dura repressione delle proteste – al punto che lo stesso sindaco della capitale ha intestato un’importante via all’afroamericano brutalmente assassinato dove sarebbe sfilato il grande corteo, facendo scrivere la lettere cubitali sull’asfalto lo slogan del movimento – ma persino i vertici dell’esercito non solo si sono rifiutati di eseguire gli ordini, ma sono arrivati a criticare duramente le prese di posizione provocatorie del presidente, accusandolo apertamente di non fare nulla per tenere unito il paese. Al punto che il presidente si è visto costretto a barricarsi nella Casa Bianca, circondata dal filo spinato e da mercenari armati sino ai denti che, più di una volta, viste le imponenti manifestazioni anche nei pressi della residenza del capo dello Sato, lo hanno convinto a rinchiudersi nel bunker.
Del resto, persino diverse grandi imprese hanno dovuto in più di un caso prendere posizione a favore dei manifestanti, al punto che, ad esempio, la potentissima lega del football americano ha dovuto fare pubblica autocritica per aver, negli anni precedenti, tentato di impedire agli atleti di manifestare contro i ricorrenti episodi di razzismo. Persino grandi mezzi di comunicazione come il “New York Times” sono stati costretti a una rapida marcia indietro e a fare pubblica autocritica, dopo aver tentato di criminalizzare il movimento sul nascere con un pesante editoriale.
Infine, persino esponenti degli apparati repressivi dello Stato hanno fatto pubblicamente autocritica, tanto da inginocchiarsi dinanzi ai manifestanti e, in alcuni casi, da unirsi – addirittura – alle proteste. Senza contare le simpatie che il movimento tende a incontrare fra i lavoratori anche caucasici che, a partire dagli autisti, si sono rifiutati, in modo esemplare, di condurre i manifestanti fermati nelle stazioni di polizia.
L’eco di tali eventi non ha mancato di farsi sentire a livello internazionale con significative manifestazioni in diversi paesi del mondo. Mobilitazioni importanti in quanto non solo rilanciano la solidarietà internazionale fra e nei riguardi dei ceti subalterni, ma in quanto in diversi casi si è attualizzata la protesta, a partire dalla Francia, manifestando contro il razzismo e, potenzialmente, contro la criminalizzazione della povertà, a dimostrazione che non si tratta di un problema presente nei soli Stati Uniti, ma di una problematica che si manifesta, in forme diverse, in tutti i paesi capitalisti e, più in generale, in tutte le società classiste.
Anche in Italia ci sono state e sono in programma significative manifestazioni che hanno già riempito – nonostante le difficoltà a scendere in piazza con il distanziamento e le mascherine – diverse importanti piazze cittadine. Dove si sono visti moltissimi ragazzi, anche molto giovani, a lungo inginocchiati con il pugno alzato in solidarietà con le vittime del razzismo e, potenzialmente, della criminalizzazione dei subalterni. Intonando poi cori come: “siamo tutti antifascisti”, quale migliore risposta al presidente degli Stati Uniti che ha detto di voler perseguitare, inserendoli nelle lista delle organizzazioni terroriste, gli antifascisti.
Altrettanto significativo è l’interesse testimoniato per tali problematiche anche in Italia dalle più giovani generazioni – negli ultimi anni generalmente poco interessate a discutere, confrontarsi e prendere decisamente posizione su problematiche politico-sociali, che per altro hanno avuto il loro epicentro in un altro continente. Così, anche nel nostro paese, dove negli ultimi anni si stava diffondendo una pericolosa attitudine razzista nelle giovani generazioni, moltissimi hanno sentito il bisogno – dinanzi alle grandi manifestazione in atto negli Stati Uniti – a prendere decisamente posizione a favore dei manifestanti e contro ogni forma di discriminazione razziale.
In questo nuovo contesto appare quanto mai azzeccata la recente riedizione da parte di Ombre corte del “Discorso sul colonialismo” di Aimé Césaire, uno scritto essenziale e quanto mai attuale per la lotta al razzismo. Césaire accusa il benpensante europeo, che prova orrore per il nazismo, di portare in modo più o meno consapevole al proprio interno una visione del mondo egualmente razzista. Tanto che l’accusa che quest’ultimo rivolge al nazismo non è tanto volta a condannare i suoi crimini contro l’umanità, ma piuttosto i crimini da esso compiuti nei riguardi dell’uomo bianco. In altri termini l’accusa al nazismo è di aver applicato a individui caucasici quelle pratiche disumane che il colonialismo e l’imperialismo aveva precedentemente applicato ai popoli extra europei, dall’asservimento al genocidio, come del resto denunciava negli stessi anni Hannah Arendt nello scritto Origini del totalitarismo. In questo celeberrimo testo, le origini del più efferato regime totalitario, il nazismo, vengono a ragione rinvenute nel colonialismo e nell’imperialismo. A tal proposito Césaire denunciava “l’effetto boomerang del colonialismo”, in quanto quelle pratiche di disumanizzazione dei popoli coloniali, sarebbero state importate dal nazismo nel contesto europeo (a partire dai bombardamenti terroristici che, da peculiari delle guerre coloniali, verranno introdotti dal nazismo anche nelle guerre fra europei).
Questo porta Césaire a denunciare la mentalità eurocentrica, ancora oggi così malauguratamente diffusa nella “sinistra” europea. In quanto proprio il tanto osannato sviluppo in senso moderno della “civiltà” europea ha prodotto due dei problemi più gravi del mondo contemporaneo, ovvero la formazione del proletariato moderno e il colonialismo/imperialismo. Quest’ultimo prodotto della “civiltà” europea non è stato altro che una gigantesca macchina di disumanizzazione. Quest’ultima non poteva che avere degli effetti catastrofici per gli stessi colonizzatori che, a forza di considerare i colonizzati come bestie, finiscono con il trasformarsi essi stessi in bestie.
Perciò mentre la “civiltà” europea moderna ha dato un contributo decisivo alla lotta per la dis-emancipazione del genere umano, culminata con la creazione del fascismo e del nazismo, la lotta per l’emancipazione del genere umano è stata portata avanti da chi si è battuto per l’emancipazione dei popoli dominati da colonialismo ed imperialismo e da chi si batte per l’emancipazione del proletariato.
La lezione di Césaire, che considera indispensabile unificare queste due lotte, è ancora oggi attualissima per questo movimento potenzialmente internazionale che si batte contro il razzismo il quale – per divenire realmente rivoluzionario e dare un contributo decisivo all’attuale lotta per l’emancipazione del genere umano – dovrà comprendere come il razzismo sia nella società capitalista una forma esemplare della criminalizzazione del proletariato. In questo modo la solidarietà con la lotta del movimento antirazzista statunitense potrà divenire, in ogni società capitalista, la lotta contro la criminalizzazione del proprio povero, che oggi in Europa è costituito in primo luogo dal lavoratore straniero, condannato a morte nel Mediterraneo o a cercare di sopravvivere nei veri e propri campi di concentramento in cui è rinchiuso in Libia. In entrambi i casi con la piena complicità dell’Unione Europea ancora considerata da sedicenti uomini di sinistra un “faro di civiltà” a livello internazionale.