I telegiornali della Rai del 20 novembre hanno dato come prima notizia lo sgombero delle ville abusive del cosiddetto clan dei Casamonica, gruppo di origine sinti portato spesso alla ribalta per varie attività criminali e per il famoso funerale di uno dei loro capi; notizia il cui scopo evidente è convincere i telespettatori che il “governo del cambiamento”, autore della “manovra del popolo”, sotto la vigile guida della sindaca Raggi, alzatasi all’alba, colpisce spietatamente i criminali, i corrotti, i non rispettosi dell’ordine. Non contenti di tale protagonismo, poco dopo i 5 Stelle mandano sulla scena dell’evento il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Marra; successivamente si presenta Salvini che addirittura promette di guidare lui la ruspa per abbattere gli edifici, seguito da Giuseppe Conte, che si fa riprendere mentre visita le abitazioni e osserva meravigliato “Quanto sfarzo, quanto lusso”. In verità, dalle immagini che ho potuto vedere, mi sembra si tratti soprattutto di paccottiglia e oggetti kitsch, e credo che il vero lusso si trovi nelle abitazioni di quei miliardari che governano il mondo. I giornali rimarcano che tale spettacolo fa emergere solo il conflitto tra Lega e 5 stelle, desiderosi entrambi di apparire come gli strenui difensori del popolo.
Allo stesso tempo, quello stesso giorno, i telegiornali non hanno fatto menzione del vero problema destinato ad avere una serie di gravissime ripercussioni sulla nostra vita, cui si sono fatti alcuni accenni nei giorni precedenti, ma che meriterebbe di essere approfondito. Ovviamente mi sto riferendo a quanto contenuto nel titolo dell’articolo. Mi si perdonerà il lungo giro che ho fatto per giungere in medias res, ma mi sembrava importante rilevare che questa mancanza di interesse per eventi cruciali mostra l’inesistenza economica, politica, culturale dell’Italia nello scenario internazionale.
Nei giorni precedenti (16 novembre) Pandora TV, diretta da Giulietto Chiesa, aveva rese note le dichiarazioni fatte al vertice Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation), svoltosi in Papua Nuova Guinea, dal vice-presidente degli Stati Uniti Mike Pence a proposito della Cina, dalla quale questi ultimi esigono un radicale cambiamento di comportamento e pretendono una serie di concessioni in ambito economico, politico e militare, facendo pressione con i dazi ai prodotti cinesi [1]. Queste parole erano state precedute da un’intervista al Washington Post, nella quale il vice-presidente aveva dichiarato che, se la Cina non recepirà le sollecitazioni al cambiamento, gli Stati Uniti e i loro alleati scateneranno “una guerra fredda totale” contro di essa. Nel caso di un’apertura della Cina a queste vere e proprie pretese, il presidente Trump sarebbe disponibile a negoziare con Xi Jinping, quando si incontreranno alla fine del mese al vertice del G20, che si terrà in Argentina.
Il discorso e le minacce di Pence erano una risposta alle critiche fatte dal presidente cinese e segretario del Partito comunista al protezionismo e all’unilateralismo, in quanto in contraddizione con le leggi dell’economia e per questo destinati a fallire; queste parole erano state pronunciate in termini generali, evitando di fare un riferimento diretto all’attuale politica della Casa bianca. Naturalmente la Cina (o più esattamente il Ministero degli esteri cinese) ha immediatamente risposto alle parole del vice di Trump, affermando che, in quanto paese indipendente, proseguirà per la sua strada e non si lascerà intimidire da nessuno.
Nel corso del suo intervento al vertice Apec, Pence ha anche criticato la volontà della Cina di controllare militarmente il Mare Cinese Meridionale - su cui i paesi circostanti e gli Stati Uniti hanno uguali mire - e di espandersi economicamente in tutta quella regione, dando avvio alla famosa via della seta, che aprirebbe nuovi spazi commerciali e comunicativi vantaggiosi per l’ex impero celeste. Infine, ha informato il mondo che Stati Uniti e Australia progettano di costruire una nuova base militare in Nuova Guinea, evidentemente preoccupati di essere preceduti dalla Cina, come questo paese ha già fatto a Djibouti.
Il conflitto tra Stati Uniti e Cina (a cui si aggiunge quello con la Russia) presenta varie sfaccettature; dopo aver accennato alla dimensione militare, soffermiamoci su quella commerciale. Nello scorso settembre Trump ha annunciato di voler aggiungere ulteriori dazi per 267 miliardi di dollari sulle importazioni dalla Cina, oltre a quelli già decisi di 200 miliardi di dollari sui prodotti cinesi e a quelli di 50 miliardi imposti a luglio [2]. Decisione che è già stata contrastata da contromisure cinesi, come ha annunciato il portavoce del Ministero degli esteri di Pechino.
Con queste misure l’amministrazione statunitense vuole ridurre il superavit commerciale della Cina, senza preoccuparsi dell’aumento dei prezzi che i dazi innescheranno negli Usa e senza giungere ad un accordo con il grande paese asiatico, nonostante lo svolgimento di ripetuti negoziati. Inoltre, in varie occasioni, per legittimare le sue decisioni, Trump ha accusato la Cina di essersi appropriata indebitamente di proprietà intellettuali e tecnologiche statunitensi per implementare il proprio impetuoso sviluppo.
Anche Il Bo Live dell’Università di Padova osserva che questi importanti avvenimenti non sono stati messi in evidenza dai giornali italiani, mentre la stampa internazionale dedica ad essi da vari giorni le prime pagine, da cui cercherò di ricavare altre informazioni del tutto ignorate. Nello stesso sito, l’economista Roberto Antonietti sottolinea che la via della seta è considerata dall’amministrazione statunitense una sorta di piano Marshall, in quanto costituisce un significativo programma di investimenti in importanti paesi in via di sviluppo, che inevitabilmente si troverebbero ad essere legati a filo doppio alla Cina con detrimento dell’egemonia statunitense a livello mondiale. Egli osserva anche che questa guerra commerciale genererà una contrazione del commercio mondiale che inevitabilmente porterà con sé la diminuzione del benessere e degli investimenti, colpendo prima le multinazionali e poi le piccole e medie imprese. E conclude osservando che tale rivalità tra le due potenze scaturisce dal fatto che la Cina sta emergendo come “nuovo centro di potere mondiale”, cosa ovviamente del tutto sgradita agli Stati Uniti.
Società cinesi hanno addirittura ottenuto la possibilità di fare investimenti in porti israeliani (Haifa e Ashdod), sempre con lo scopo di controllare i percorsi commerciali dall’Oceano Indiano all’Europa tramite il canale di Suez, benché sia i militari statunitensi e che quelli israeliani si chiedano se tale presenza potrà mettere a repentaglio la sicurezza del regime sionista o possa rendere complicato l’ancoraggio della Sesta Flotta nel porto di Haifa.
Secondo Pence l’economia statunitense sarebbe abbastanza solida da resistere alla guerra commerciale con la Cina, mentre quest’ultima non si troverebbe nelle stesse condizioni. Tuttavia, nel caso si dovesse prospettare una guerra calda, secondo il Congresso statunitense la situazione si capovolgerebbe, dato che l’egemonia militare degli Stati Uniti si sta gradualmente corrodendo e la stessa sicurezza del paese sarebbe a rischio. Come si ricava sempre da Pandora TV (Ibidem), è necessario pertanto, dal punto di vista della Commissione di Difesa nazionale, aumentare le spese per la difesa di almeno 733 miliardi di dollari, per restare in linea con l’inflazione.
D’altra parte, anche la Cina non scarta questa terribile ipotesi, dato che in varie occasioni Xi Jinping ha ordinato all’esercito di prepararsi alla guerra, adottando le nuove tecnologie, non focalizzandosi esclusivamente sull’autodifesa e addestrandosi a portare attacchi di sorpresa al nemico.
Come si vede, all’orizzonte si delinea qualcosa di ben più terribile dei Casamonica e degno di una maggiore preoccupazione e riflessione.
La politica di Trump contro la Cina è in contraddizione con la sua stessa attività commerciale, giacché lui e la sua famiglia, incorporata nello staff presidenziale, fanno affari con società cinesi, tanto che alcuni analisti ritengono che il loro comportamento violi un articolo della Costituzione. In esso si contempla, infatti, che senza l’approvazione del Congresso nessun individuo, che abbia una carica istituzionale, può ricevere regali, emolumenti, titoli da nessun capo di governo o da un paese stranieri. Lo stesso Trump, che deve la sua fortuna più all’eredità di suo padre che alla sua vantata abilità negli affari, e sua figlia Ivanka fabbricano prodotti in Cina, le cui autorità proprio durante la recente visita del presidente statunitense hanno approvato la produzione di altre tre marche della giovane e spregiudicata imprenditrice; recentemente è stato reso noto che in una fabbrica di scarpe di quest’ultima, che sembrerebbe mirare alla successione dello stesso Trump, probabilmente si sono verificati abusi nei confronti dei lavoratori e che tre sindacalisti sono stati arrestati. Inoltre, il Washington Post ha fatto notare che i vestiti della marca di Ivanka sono stati “stranamente” esclusi dai nuovi dazi statunitensi, cosa che denuncia la spregiudicatezza e il livello di corruzione dell’attuale amministrazione statunitense.
È noto che la politica commerciale di Trump contro la Cina sorge dalla volontà di combattere le delocalizzazioni, che hanno spinto importanti corporazioni statunitensi a produrre in Cina, dove il prezzo del lavoro è più basso, non manca certo la manodopera e la coscienza dei diritti dei lavoratori è alquanto bassa. Dunque, per sollecitare il suo elettorato di bianchi disoccupati ed impoveriti, il presidente ha invitato per esempio Apple a riportare le sue fabbriche negli Stati Uniti [3], mentre come si è visto egli continua paradossalmente a fare affari con i cinesi non prendendo per buona l’ipotesi che i suoi dazi peggioreranno le stesse condizioni di vita dei suoi elettori, che la crescita del paese sarà colpita e si verificherà una perdita di competitività.
Come ho già avuto modo di sottolineare, non aggiungendo per mancanza di spazio altre informazioni sconcertanti, questi avvenimenti, in cui gli Stati Uniti sfidano la pazienza millenaria della Cina, non prefigurano niente di buono per l’intera umanità, soprattutto se si tiene conto della storia dell’aggressività statunitense a partire dal 1945 in poi.
Marx XXI pubblica al proposito un articolo di Manlio Dinucci, in cui si dà conto del recente studio di James A. Lucas, ripreso da Michel Chossudovsky (direttore del Centre for Reasearch on Globalization), nel quale si smentisce sonoramente che, alla fine della seconda guerra mondiale, costata circa 50 milioni di morti, gli Stati Uniti e i loro alleati abbiano dato vita ad un mondo libero, rispettoso delle libertà individuali e della sovranità dei popoli. Favola in genere accompagnata dalle accuse contro la Cina e la Russia che vorrebbero ribaltare oggi tale ordine armonioso a loro vantaggio. In verità, con aggressioni militari, colpi di Stato, operazioni coperte gli Stati Uniti avrebbero provocato ad oggi tra i 20 e i 30 milioni di morti in 37 nazioni, oltre agli innumerevoli feriti talvolta rimasti anche invalidi. Senza tenere conto poi dei milioni di morti dovuti alle carestie, epidemie, danni ambientali, migrazioni forzate etc. provocate dagli interventi militari [4]. Sempre Pandora Tv Ibidem) ci informa che negli ultimi 17 anni i gringos hanno speso per queste attività circa 6.000 miliardi di dollari. A questo punto sembra del tutto lecito chiederci: cosa hanno in mente di fare per sfidare la forza inarrestabile della Cina, in un panorama mondiale e loro non più favorevole?
Note:
[1] La notizia è stata data anche da altre fonti tra le quali il Corriere della sera.
[2] In questo modo Trump spera di recuperare i 500 miliardi di dollari all’anno di cui i cinesi deprederebbero gli Stati Uniti. I dazi variano dal 10% al 25% e riguardano da un lato l’alluminio, l’acciaio, l’innovazione tecnologica cinese, dall’altro soia, sorgo, maiale statunitensi.
[3] Transnazionale che disegna i suoi prodotti in California e li produce per lo più in Cina anche per l’organizzazione delle città industriali con fabbriche-dormitorio, dove vivono migliaia di lavoratori e di ingegneri.
[4] Per maggiori dettagli si veda Globalresearch.