La creazione questa settimana di una commissione d’inchiesta parlamentare sulla gestione del governo Bolsonaro sembra aprire lo spiraglio per un suo più che probabile impeachment. I motivi non mancano: dalla disastrosa gestione della pandemia da Covid-19, il cancellamento del censimento decennale (i più maliziosi sostengono che lo si faccia per evitare di portare alla luce i tanti morti che non sono stati rilevati), l’assenza di strumenti per l’anestesia e la rianimazione negli ospedali e la catastrofe economica che sembra non avere fine. In più, nel corso degli ultimi giorni è stato divulgato l’audio in cui il presidente chiede espressamente a un deputato di allargare il fuoco della commissione, includendo anche la gestione dei governatori statali e dei sindaci, in modo da cercare di scaricare, almeno parzialmente, la colpa su di essi; il presidente fa inoltre presente che esistono richieste di impeachment contro diversi giudici della Corte suprema, che se analizzati potrebbero portare a una sospensione della commissione d’inchiesta. Ma più che per questi motivi, la necessità di sostituire Bolsonaro rimette alla sua incapacità di fare ciò che la classe dominante brasiliana vorrebbe che lui facesse: riforme per tagliare la spesa pubblica, per precarizzare ulteriormente il mercato del lavoro e per favorire la privatizzazione di quelle poche imprese pubbliche rimaste. La foglia di fico di cui si è parlato è stata invece la volontà di accelerare sul ritmo della vaccinazione, promessa che almeno a parole Bolsonaro si è impegnato a mantenere, nonostante le sue dichiarazioni e i suoi atti pubblici sembrino remare invece nella direzione opposta.
I due elementi che sono stati determinanti in questo processo, come già detto nei precedenti articoli, sono stati la liberazione di Lula e le dimissioni del ministro della Difesa e di tre componenti di vertice delle forze armate, che ha aperto una crisi militare inedita nella storia recente del paese. La prima, come detto, può avere varie interpretazioni, ma sicuramente non beneficia Bolsonaro. Questo perché a un’analisi dettagliata dei flussi elettorali appare chiaro che essi si contendono l’appoggio delle stesse basi elettorali (poveri e ceto medio urbano) e questi settori si allontanano progressivamente da Bolsonaro, in uno scenario opposto a quello del 2018. Inoltre, in uno scenario di un eventuale secondo turno alle elezioni presidenziali del 2022. sembra essere Lula ad avere la maggiore capacità di attrarre a sé il voto del centro moderato e anche di parte della destra in funzione anti-Bolsonaro. Dal punto di vista elettorale sarebbe infatti più conveniente per Bolsonaro affrontare vari candidati anti-Bolsonaro e non un unico, in grado di riunire i voti di schieramenti differenti. Tutti questi sono elementi che servono a isolare ancora di più l’attuale presidente, gettandolo nell’abbraccio mortale del Centrao (Blocco di partiti di destra che hanno la maggioranza nelle due camere), come dimostrato dall’aumento degli incarichi nei ministeri e nella ripartizione dei fondi del prossimo bilancio. E d’altra parte al Pt non interessa organizzare nessuna manifestazione popolare contro il governo, né organizzare manifestazioni per l’impeachment, convinto com’è di vincere a mani basse le elezioni del prossimo anno. Ma sicuramente questa polarizzazione fa comodo alle alte sfere dell’esercito, speranzose che l’incadescenza della situazione renda inevitabile un loro intervento.
Ciò che rimane dunque a Bolsonaro è scommettere nel suo zoccolo duro elettorale (tra il 15 e il 20 per cento dell’elettorato) e in una parte delle forze armate, da lui ritenute il vero ago della bilancia, in grado di mantenerlo al potere nonostante il suo consenso sia in caduta libera. In caso di sconfitta elettorale sarebbe questo l’asso della manica da giocarsi. Per fare ciò è necessario convincere l’alto comando dell’insostenibilità della situazione e obbligarlo a lanciarsi in quest’avventura dai difficili esiti, per evitare di dividere l’esercito e l’installazione del caos sociale. Ma in realtà sembra palese il tentativo quotidiano dei generali di dissociarsi dal governo che essi stessi hanno contribuito a eleggere. L’uscita del ministro della Difesa e di vari generali va inserita nel tentativo di operare un golpe non dichiarato contro il presidente, che invece riafferma di continuo il ruolo del “suo” esercito al “suo” governo, un regime militare e fascista. Dato che la neutralità è elemento assente in politica, uscire dal governo significa entrare tra le fila dell’opposizione, come l’ex ministro Santos Cruz, che sta da tempo articolando perché si crei una candidatura centrista. I generali rimasti hanno invece il compito di vigilare da vicino l’operato del governo, mentre organizzano la progressiva dissociazione.
Per chi invece lotta per una vera democrazia nel paese non resta altro che organizzare la coscienza delle masse, appoggiando le manifestazioni che dovessero esplodere contro il governo e impedendo che esse siano limitate dai vari opportunisti che mirano unicamente a un guadagno elettorale. L’Impeachment non rappresenta altro infatti che un tentativo di tenere le masse lontane da una partecipazione effettiva e convogliare tutti i loro sforzi verso un unico ambito elettorale.