L'articolo che proponiamo ai nostri lettori, tradotto da Alessio Arena e a firma John Nichols, è stato pubblicato lo scorso 1° dicembre dalla testata progressista statunitense "The Progressive". Malgrado il ritratto che esso traccia della deputata di sinistra del Minnesota Ilhan Omar evidenzi la priorità che visibilmente l'articolista attribuisce al tentativo di renderne le posizioni "digeribili" per una fascia ampia di pubblico "liberal", ci pare che questo testo fornisca alcuni utili elementi per leggere l'azione di una delle figure più rilevanti della nuova sinistra che sta conquistando posizioni nello scenario politico degli Stati Uniti. Una figura, quella di Ilhan Omar, che non a caso si è attirata i più violenti attacchi da parte di Donald Trump e che incarna forse nel modo più inequivocabile la crescente polarizzazione del dibattito pubblico negli USA. Un processo al quale non si può che guardare con attenzione e interesse. Ecco di seguito il testo.
La politica estera non è un’astrazione per Ilhan Omar. È la sua vita. Mentre i membri repubblicani del Congresso propongono di isolare gli Stati Uniti con un muro e molti democratici sono timidi nell'affrontare le questioni globali, la deputata democratica del Minnesota mantiene un appassionato senso di connessione con il resto del mondo.
È un'immigrata e una rifugiata. È una donna somalo-americana che si identifica con orgoglio come una femminista intersezionale. La sua opposizione al trattamento riservato da Israele ai palestinesi ha attirato molta attenzione, compresi attacchi bipartisan. Non si è però prestata molta attenzione al fatto che questa congressista musulmana sia emersa come una delle voci critiche più esplicite riguardo alle violazioni dei diritti umani in un certo numero di paesi a maggioranza musulmana, tra cui l'Arabia Saudita e il Sudan. Ancora meno notata è stata la sua attenzione alla povertà e all'ingiustizia in America Centrale, così come la sua ardente difesa dei diritti delle donne e dei diritti LGBTQ in luoghi come il Brunei.
A un anno dalla conquista del suo primo mandato, Omar ha assunto un profilo che le ha attirato vili attacchi da parte del Presidente degli Stati Uniti e critiche da parte dei repubblicani del Congresso, oltre che di numerosi democratici. Ha dovuto affrontare una pressione enorme, volta a indurla ad adattarsi alle categorie ordinate in cui le élite politiche e mediatiche irreggimentano i nuovi membri del Congresso. Ma Omar si rifiuta di conformarsi. È ben consapevole di essere nuova in Campidoglio, ma non è disposta ad aspettare il suo turno.
Al contrario, si sta facendo avanti per esprimere una profonda, a volte dolorosa, spesso controversa preoccupazione per i diritti umani, lo sviluppo umano, la giustizia climatica, la diplomazia e progetti di pace che potrebbero inaugurare un'epoca di pace e prosperità condivisa. La sua prospettiva è quella di un “amore radicale” che si estende oltre i confini e conserva una fede ancora più radicale nella volontà degli americani di pensare globalmente.
«So che ce l'abbiamo in noi, giusto? Abbiamo da sempre queste aspirazioni», mi ha detto la deputata durante una delle numerose conversazioni che abbiamo avuto nel corso di quest'anno a Minneapolis e Washington D.C. Lei sposa un internazionalismo dagli occhi aperti che riconosce la minaccia posta dal militarismo e dall'imperialismo, e invita gli Stati Uniti ad abbracciare un approccio completamente nuovo alle relazioni estere.
«È una cosa molto americana, cercare sempre il primato», dice Omar. «Siamo così orgogliosi del nostro essere americani in così tanti sensi, che a volte penso che ciò sia una sorta di nebbia che vela la nostra visione della vita reale che conduciamo qui e l'immagine che il mondo ha di noi. Io quella nebbia non ce l'ho e quindi posso esprimermi in modo chiaro».
L'inarrestabile determinazione di Omar nel confrontarsi con “le lotte umane” e “le aspirazioni umane nei confronti della nostra politica estera”, come lei stessa dice, da quando è entrata in carica lo scorso gennaio l'ha resa una forza dirompente nei dibattiti di politica estera. È stata sostenuta da gruppi per la pace come CODEPINK e da attivisti per i diritti umani come Hagai El-Ad, direttore esecutivo di B'Tselem (il Centro d’informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati), il quale sostiene che «la voce coraggiosa di Omar ridefinisce lo spazio politico per la giustizia».
Anche coloro che non sono sempre d'accordo con Omar riconoscono la congressista come una voce straordinariamente impegnata riguardo all'imperialismo, al colonialismo, al capitalismo, al razzismo e al pericolo di vedere i dibattiti globali solo secondo un punto di vista americano - tutte questioni che raramente vengono affrontate al Congresso. La sua compagna nella “squadra” delle parlamentari neoelette [“The Squad” è il nome che la stampa statunitense ha attribuito alle quattro deputate progressiste neoelette Omar, Ocasio-Cortez, Tlaib e Pressley, oggetto di violenti attacchi da parte di Trump nei mesi scorsi, N.d.T.], la democratica newyorkese Alexandria Ocasio-Cortez, la descrive come «una delle voci più efficaci, in questo momento, contro le tendenze autoritarie della politica estera di questa amministrazione».
Il senatore del Vermont Bernie Sanders, cui Omar ha recentemente espresso il suo sostegno in vista delle primarie democratiche del 2020, ha salutato la deputata del Minnesota come «una leader forte e coraggiosa». Sanders ha stigmatizzato gli attacchi repubblicani ai tentativi di Omar di aprire il dibattito in politica estera sulla questione israelo-palestinese e altri punti caldi come «un modo per soffocare quel dibattito».
Sostegno a Omar è venuto anche dai diretti interessati al dibattito. Quando Omar, all'inizio di quest'anno, è stata accusata di antisemitismo per un controverso tweet che criticava l'attività delle lobby pro-israeliane, Jeremy Ben-Ami, presidente del gruppo ebraico per la pace J Street, è intervenuto in sua difesa: «Quello che vedo io sono i repubblicani che, per scopi di parte, tentano di creare una contraddizione all'interno del Partito Democratico».
Ma queste polemiche oscurano un ruolo più ampio che Omar si sta ritagliando per conto suo. È profondamente impegnata in favore del suo distretto urbano, che l'ha eletta con quasi l'80% dei voti nel 2018, e ha preso l'iniziativa su una serie di questioni di politica interna. Quest'anno, per esempio, ha proposto insieme a Sanders un importante progetto di legge per affrontare la disuguaglianza, eliminando tutti i debiti degli studenti, e per combattere la malnutrizione, fornendo tre pasti gratuiti al giorno a tutti gli scolari americani.
Omar è una deputata locale attiva e impegnata. Ama tenere assemblee in municipio, come ho visto io stesso quando ho partecipato alla sua “Community Conversation on Environmental Justice” (Dibattito Comunitario sulla Giustizia Ambientale) alla Prima Chiesa Universalista di Minneapolis, lo scorso maggio. La sala era gremita. Omar ha visitato ogni suo angolo, chiamando gli elettori per nome, ascoltandoli, prendendo appunti sulle loro preoccupazioni riguardanti i servizi a Minneapolis.
Tuttavia, sostiene Omar, «non si può parlare seriamente di politica interna senza prima discutere della nostra politica estera». Così ha colto ogni opportunità d'inserirsi nei dibattiti di politica estera. A questo proposito, memore dell'esempio dell'ex deputato californiano Ron Dellums, eletto nel 1970 come oppositore militante della guerra del Vietnam, si è subito lanciata in una serie di dibattiti su questioni internazionali. Dellums volle un seggio nel House Armed Services Committee [commissione responsabile per il controllo del Dipartimento della Difesa e delle forze armate USA, N.d.T.] per promuovere alternative alla guerra e al militarismo. Inizialmente fu respinto dai democratici conservatori, etichettato come “un vero e proprio radicale” dal Vice-presidente Spiro Agnew e aggiunto alla “Lista dei Nemici” della Casa Bianca di Nixon. Dellums però non si arrese e concluse due decenni dopo la sua carriera al Congresso, come presidente del comitato.
Omar, da parte sua, voleva un seggio nella Commissione per gli Affari Esteri e l'ha ottenuto dopo un incontro con il membro del Congresso che ne sarebbe diventato il presidente: Eliot Engel, un democratico di New York che è da sempre un assiduo sostenitore di Israele. «Ricordo di aver organizzato un incontro, dopo aver vinto le primarie, con il deputato Engel, e lui mi chiese: “Perché sei qui?” Ho risposto: “Beh, tu sei il possibile presidente di uno dei comitati che mi interessano”», ricorda Omar. «Mi ha chiesto in quali altre commissioni avrei voluto sedere e io ho risposto: “Affari esteri”. Quell'attenzione particolare ha colpito Engel, le cui tre principali scelte di commissione come nuovo membro del Congresso erano state “Affari esteri, affari esteri, affari esteri”», aggiunge Omar.
Omar è entrata a far parte del prestigioso comitato e, malgrado lei ed Engel siano in disaccordo su questioni importanti - ad esempio il suo sostegno al movimento globale BDS di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni organizzato per “spingere Israele a rispettare il diritto internazionale” nelle relazioni con i palestinesi - Engel ha respinto le richieste repubblicane miranti alla sua rimozione.
In effetti, quando il presidente Donald Trump ha esortato Israele a negare il visto d'ingresso a Omar e alla deputata di origine palestinese Rashida Tlaib del Michigan (intenzionate a visitare i territori palestinesi, N.d.T.), Engel è stato tra i critici più decisi.
«Non sorprenderà nessuno che io sia in disaccordo con le deputate Omar e Tlaib quando si tratta di Israele», ha scritto Engel. «Probabilmente non avrei pianificato lo stesso viaggio progettato da loro. Ma come ho detto ieri a [l'ambasciatore israeliano negli Stati Uniti Ron] Dermer, da parte del governo israeliano è un errore impedire l'ingresso in Israele a dei membri del Congresso. Se il governo israeliano spera di ottenere il sostegno dei legislatori americani di tutto lo spettro politico, allora questa visita avrebbe potuto essere l'occasione per un confronto di opinioni e per dimostrare perché il sostegno americano a Israele è così importante. Invece, rifiutando l'ingresso a dei membri del Congresso sembra che Israele si chiuda alle critiche e al dialogo».
Omar ora fa parte della Sottocommissione degli Affari Esteri per l'Africa, la salute globale, i diritti umani globali e le organizzazioni internazionali, così come della Sottocommissione per la sorveglianza e le indagini. Ha due assistenti legislativi che si occupano di politica estera, tra cui Ryan Morgan, un noto ex esponente di Witness for Peace [organizzazione che si oppone alla politica imperialista degli USA in America Latina, N.d.T] con una vasta esperienza in America Latina. E prevede, nei prossimi mesi, di presentare una proposta globale per modificare radicalmente la politica statunitense.
«Riguardo alla politica estera», dice, «abbiamo bisogno di qualcosa di equivalente al Green New Deal». Durante una delle nostre conversazioni sulla sua attenzione agli affari internazionali, Omar mi ha detto: «Quando i membri del Congresso sollevano una questione, spesso si tratta di una richiesta da parte di qualche elettore, giusto? Per quanto mi riguarda, quell'elettore sono io. Io stessa sono quell'elettore che dice: “Puoi parlarne, per favore?” Uso la mia posizione influente e la tribuna che ho a disposizione per dare visibilità a questioni che sono completamente invisibili sulla scena mondiale».
Omar ritiene di poter creare contatti, portare all'attenzione, far crescere la coscienza degli americani. È disposta a pensare in grande e a sognare i sogni più audaci perché vede questo come il modo per costruire un futuro migliore del passato.
«Per me non sono solo semplici discussioni: si tratta del mondo interconnesso che vedo e di come - attraverso la politica - possiamo sviluppare o smantellare quella connessione», spiega. «Lo sviluppo della connessione ci avvicina al tipo di mondo utopico in cui voglio e ho sempre voluto vivere e nel quale voglio che tutti possano vivere».
Omar non è ingenua. Conosce la politica. Nell'ultimo decennio ha gestito campagne per altri, ha definito politiche e piattaforme, ha sconfitto un deputato in carica in Minnesota e ha vinto primarie estremamente competitive per un seggio vacante nella Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti. Sa che la maggior parte dei politici evita espressioni come “amore radicale” e parole come “utopia”. È pronta a spiegare cosa intende, ma non a moderare le sue ambizioni.
«Non è il tipo di utopia irrealistica», dice, «ma un mondo in cui le differenze vengano rispettate, un mondo in cui le persone riconoscano l'umanità degli altri, un mondo in cui si riconosca che il dolore del proprio figlio equivale al dolore di un qualsiasi altro bambino».
Non c'è nulla di teorico nell'empatia che Omar propone. «Uno dei vantaggi di essere [parte di] una diaspora è che si ha una famiglia in quasi ogni angolo del globo», dice. «Non c'è un paese, né uno Stato in cui io non abbia un lontano parente. Voglio dire che credo che potrei semplicemente presentarmi in Islanda e trovare persone che mi ospitano per qualche notte perché in qualche modo siamo parenti».
La diaspora estesa a cui si riferisce Omar è l'esodo dalla Somalia, nel Corno d'Africa. Negli anni '90, la guerra civile è divampata così violenta e caotica, che i politici hanno iniziato a etichettare il paese come uno “Stato fallito”. Circa un milione di somali sono fuggiti, stabilendosi in decine di paesi in tutto il mondo. Omar era uno di loro.
Nata trentasette anni fa a Mogadiscio, la più giovane di sette figli di una famiglia di funzionari ed educatori, Omar ha lasciato la Somalia all'età di otto anni, nel pieno della guerra civile. Dopo aver vissuto quattro anni in un campo profughi keniota, Omar e la sua famiglia sono arrivati negli Stati Uniti e alla fine si sono stabiliti nelle Twin Cities [Minneapolis–Saint Paul, in Minnesota, N.d.T.], sede di una delle più grandi comunità della diaspora somala formatesi negli ultimi tre decenni.
Quella di Omar è una classica storia americana d'immigrazione e impegno. Ha imparato rapidamente l'inglese e all'età di quattordici anni frequentava la sede locale del Democratic-Farmer-Labor Party del Minnesota come traduttrice del nonno. Era il periodo in cui l'ex senatore Paul Wellstone faceva campagna per la rielezione all'interno della comunità somala e Omar presto fu attratta dalle politiche progressiste.
Per anni ha lavorato dietro le quinte come propagandista, organizzatrice e attivista, prima d'imporsi sulla scena statale con l'elezione al parlamento nel 2016 e successivamente, nel 2018, con la campagna di successo per conquistare il seggio alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti che era stato occupato per più di un decennio dal deputato Keith Ellison, uno dei primi musulmani a servire al Congresso. Insieme a Tlaib del Michigan, Omar è diventata una delle due prime donne musulmane elette alla Camera.
Omar ha cambiato il Congresso ancor prima di insediarsi, ottenendo una modifica del regolamento della Camera che permettesse alla deputata neoeletta d'indossare un copricapo - l'hijab - al suo interno. Ma quello che vuole davvero è cambiare il dibattito sulla politica estera, invitando il popolo americano al tavolo.
«Quotidianamente viene pubblicato ogni genere di rapporto sui diritti umani», mi dice Omar. «Ci sono risoluzioni delle Nazioni Unite su base giornaliera. Niente di tutto ciò raggiunge davvero la coscienza americana». Ma se raggiungessero la coscienza americana? E se si aprisse il dibattito?
La convinzione di Omar che gli americani, se informati, farebbero la cosa giusta per i popoli di altri paesi la pone in netto contrasto con Trump e i propagandisti della "America First", che immaginano che gli Stati Uniti isolati possano distinguersi. Ma lei non sfida solo Trump. Mette in discussione la narrazione angusta e la gamma ancora più angusta di possibilità che vengono offerte in un'era di globalizzazione trasformativa.
In un momento in cui il Partito democratico è molto bravo a spiegare a cosa è contrario, ma non sempre così bravo a spiegare cosa sostiene, Omar ha fatto della trasformazione dei termini del dibattito pubblico la sua missione. Come nuovo membro della Commissione Affari Esteri della Camera, sta usando la sua notevole forza sui social media (diversi milioni di contatti su Twitter e Facebook) e la sua ancora più notevole energia (a partire dall'insediamento ha tenuto sedici tavole rotonde e riunioni di municipio su ogni genere di questione e partecipa regolarmente ai forum politici) per focalizzare l'attenzione sugli scioperi della fame in Palestina, sulle violazioni dei diritti umani in Honduras e sui "regimi brutali" in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti.
Omar chiede agli americani di «sostenere il popolo sudanese che protesta pacificamente per i propri diritti democratici». Ha guidato i suoi colleghi nell'esprimere allarme per la decisione del governo indiano di «chiudere tutte le comunicazioni verso, da e all'interno del Kashmir» e di arrestare centinaia di leader politici kashmiri. Le tensioni nella regione, avverte, «minacciano la già fragile relazione tra India e Pakistan, e un'escalation del conflitto tra le due potenze nucleari potrebbe avere effetti catastrofici».
Quando neoconservatori di spicco sono comparsi in audizione davanti alla Commissione Affari Esteri della Camera, Omar li ha messi sulla graticola senza dar loro tregua. Elliott Abrams, inviato speciale di Trump in Venezuela, è stato tra coloro che ne hanno fatto esperienza.
«Signor Abrams, nel 1991 lei si è dichiarato colpevole di due capi d'accusa per aver nascosto al Congresso informazioni sul suo coinvolgimento nell'affare Iran-Contra, per i quali è stato poi amnistiato dal presidente George H.W. Bush», ha osservato. «Non riesco a capire perché i membri di questo Comitato, o il popolo americano, dovrebbero trovare attendibile la qualsivoglia testimonianza che lei rendesse oggi». Quando Abrams ha tentato di replicare, Omar lo ha zittito: «Questa non era una domanda».
In un ambiente politico in cui l'attenzione è più frequentemente focalizzata sulla politica di corto respiro e in cui le questioni interne ricevono sempre la massima attenzione, Omar ha scelto d'impegnarsi nell'ardua opera della definizione e promozione di un internazionalismo progressista. Non sempre lo fa efficacemente, come ha riconosciuto.
A febbraio, il giornalista Glenn Greenwald ha twittato: «Il leader repubblicano Kevin McCarthy minaccia sanzioni nei confronti di @IlhanMN e @RashidaTlaib per le loro critiche a Israele. È stupefacente quanto tempo i leader politici statunitensi passino a difendere una nazione straniera anche se ciò significa attaccare la libertà di parola degli americani». Omar ha replicato: «È solo una questione di soldi» [“It’s all about Benjamins baby”. L'espressione "Benjamins baby" nel linguaggio gergale statunitense, indica chi si lascia prezzolare e fa riferimento alle banconote da 100 dollari, che riportano il ritratto di Benjamin Franklin. L'interpretazione del tweet di Ilhan Omar proposta per attaccarla è stata che essendo "Benjamin" un nome ebraico, la frase farebbe riferimento agli ebrei. Non si hanno tuttavia riscontri di nessun tipo in merito al fatto che questa espressione sia mai stata usata specificamente in riferimento agli ebrei. N.d.T.)].
Ciò ha comprensibilmente suscitato proteste clamorose che l'hanno portata a dichiarare: «L'antisemitismo è reale e sono grata agli alleati e colleghi ebrei che mi stanno istruendo sulla dolorosa storia dei luoghi comuni antisemiti. La mia intenzione non è mai di offendere i miei elettori o gli ebrei americani nel loro insieme. Dobbiamo sempre essere disposti a fare un passo indietro e riflettere sulle critiche, proprio come mi aspetto che la gente mi ascolti quando altri mi attaccano per la mia identità. È per questo che mi scuso in modo inequivoco».
Anche chi ha difeso Omar si è lamentato, a volte, che il rigore del suo approccio la isoli politicamente e renda complicata la costruzione di alleanze. In ottobre, ad esempio, si è astenuta su una risoluzione della Camera dei Rappresentanti che condannava il genocidio degli armeni di un secolo fa, suscitando forti critiche da parte di molti a sinistra. «Il mio problema non riguardava la sostanza della risoluzione. Naturalmente dovremmo riconoscere il Genocidio», ha risposto Omar su Twitter. «Il mio problema riguardava i tempi e il contesto. Penso che dovremmo chiedere conto delle violazioni dei diritti umani in modo coerente, non solo quando è funzionale ai nostri obiettivi politici».
Tuttavia, il rifiuto di Omar di sostenere la risoluzione ha suscitato critiche da parte di commentatori di spessore tra cui Joe Eggers, coordinatore della ricerca del Centro per gli studi sull'Olocausto e sul genocidio dell'Università del Minnesota, che ha sostenuto che «il riconoscimento del genocidio è un passo essenziale per aumentare la consapevolezza di altri episodi di violenza di massa».
Omar è a suo agio nei confronti di chi mette in discussione i suoi presupposti. Rispetta il dare-e-ricevere. Ma ciò che la frustra è l'inclinazione dei commentatori a stereotiparla senza impegnarsi nelle discussioni più profonde che è determinata ad animare. «Molti giornalisti hanno già il loro articolo scritto in testa. Che io parli con loro o legga le mie dichiarazioni non ha molta importanza, per loro», dice. «Quindi il titolo che scrivono è che la mia politica è guidata dall'odio».
Per quanto sia difficile confrontarsi con questioni complicate su come contrastare al meglio le violazioni dei diritti umani o se le sanzioni che i politici statunitensi sono così inclini a imporre ad altri paesi facciano più male che bene, Omar insiste sul fatto che le sfumature della politica estera non possono essere trascurate. Si prenda ad esempio la questione delle sanzioni. Sì, riconosce, è spesso considerato "buona politica" imporre sanzioni a un paese con cui il governo degli Stati Uniti non è d'accordo. Ma, aggiunge, farlo non è sempre una buona politica.
«L'applicazione di sanzioni può chiaramente condurre una nazione alla paralisi», avverte. «Non si può sanzionare a morte i popoli. Ed è quello che abbiamo fatto. Abbiamo strumenti migliori nella nostra cassetta degli attrezzi e dobbiamo capire come usarli».
Nonostante le sue frequenti incursioni in discussioni controverse, Omar è eccezionalmente accomodante e di buon umore. Scherza sulle sue abilità nella pesca e sul suo amore per la musica country. Eppure ha riflettuto molto sulla sua esperienza di rifugiata che è stata costretta a fuggire da casa sua e di immigrata che ha trovato razzismo e xenofobia al suo arrivo negli Stati Uniti.
Ilhan Omar ha imparato molto tempo fa a tenere a bada gli odiatori e a concentrarsi sul lavoro che deve essere fatto ed ha fiducia nella sua capacità di riuscire dove altri membri del Congresso hanno fallito, nel ridefinire il dibattito su Israele e Palestina, sull'autoritarismo e sul militarismo.
«Io ragiono come qualcuno che è un immigrato, che ha avuto un posto in prima fila per guardare la nostra politica estera dal punto di vista di uno straniero», mi dice. «Sono in grado di vederla da entrambe le parti. Sono in grado di dire: "Questo ha senso" e "Questo non ha pienamente senso". Come possiamo modificare queste cose? Come ci assicuriamo di essere davvero all'altezza delle nostre più alte aspirazioni?»
Il testo originale è disponibile sul sito della rivista The Progressive.
Traduzione per La Città Futura di Alessio Arena