Il mancato riconoscimento del popolo palestinese

Fino a che non verrà riconosciuta la portata storica della Nakba, non sarà possibile giungere a una reale soluzione della questione palestinese.


Il mancato riconoscimento del popolo palestinese Credits: https://gazanews.wordpress.com/

Segue da: A settant’anni dall’inizio dell’esodo dei palestinesi dalla loro terra.

Nel 1969 l’ex primo ministro israeliano Golda Meir dichiarò al quotidiano inglese Sunday Times: “non bisogna credere che quando siamo arrivati in Palestina ci fosse gente che si considerasse palestinese e che noi avremo, dunque, cacciato, portandoli via il loro paese. I palestinesi non esistevano nemmeno” [1]. Del resto, come ricorda lo storico israeliano Katz, a lui come a molti altri bambini, era stato insegnato a scuola “che vi era un popolo senza terra che cercava una terra senza popolo. Per cui la popolazione che abitava la terra chiamata Palestina, forse era qui, ma non costituiva certo un popolo. Cioè un milione e trecentomila persone – secondo la narrazione dominante in Israele – che erano presenti nel 1948 in Palestina [quando fu proclamato lo Stato ebraico] o non erano un popolo o non si trovavano lì. E i 553 villaggi palestinesi che furono completamente distrutti dall’esercito israeliano non avrebbero avuto nessun popolo che li abitava. Nessuno, fino a oggi, è riuscito a mettere in discussione questa versione generalmente accettata di un popolo senza terra per una terra senza popolo”. Risiede proprio in questo mancato riconoscimento dell’altro, del popolo palestinese. Non solo la Nakba che seguì alla fondazione in Palestina dello Stato ebraico, ma il mancato riconoscimento di tale tragedia storica purtroppo ancora in atto.

Come ha osservato un altro grande storico israeliano, I. Pappe, a proposito della pulizia etnica portata avanti in Palestina: “non c’era preoccupazione da parte dei sionisti che i soldati non avrebbero potuto capire ciò che ci si aspettava da loro, perché avevano già disumanizzato i palestinesi nelle loro teste molto prima che le operazioni militari iniziassero”. È, dunque, questo mancato riconoscimento dell’altro, del palestinese, dell’arabo da parte di coloni sionisti di origine essenzialmente europea e nordamericana alla base della disumanizzazione degli abitanti della “terra promessa” che diventavano, così, un mero ostacolo fisico alla realizzazione dell’ideale di uno Stato ebraico.

Tale mancato riconoscimento non è solo alla base della catastrofe che ha colpito il popolo palestinese dopo la fondazione nella sua terra dello Stato ebraico, ma è a fondamento della stessa mancata soluzione della questione palestinese. In effetti questa incapacità di riconoscere l’altro come un essere umano, dotato di ragione, e quindi uguale a tutti gli effetti a noi, è stato esteso dalla maggioranza dei sionisti ai popoli arabi in generale, al centro dei quali hanno istituito il proprio Stato ebraico. Come a ragione ha osservato un altro eminente storico israeliano, A. Shlaim, a proposito del suo Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo, alla base di questo corposo volume, pieno di essenziali elementi probatori, vi è “un’idea molto semplice, ovvero che Israele nel corso della storia è sempre stata pronta a ricorrere alla forza militare e riluttante a usare la diplomazia con i suoi vicini arabi”.

A complicare le cose vi è il fatto che questo mancato riconoscimento dei palestinesi, era pienamente condiviso dalla stessa mentalità colonialista dei britannici, che avevano occupato e dominato la Palestina dalla fine della Grande guerra alla fondazione dello Stato ebraico. A tale proposito, ha osservato acutamente ancora lo storico Shalim: “la colpa del Regno Unito non consiste tanto nel fatto che non abbia cercato di impedire la nascita di uno Stato ebraico, ma di aver fatto di tutto per prevenire, rendendola nei fatti impossibile, la nascita di uno Stato indipendente palestinese”.

Ciò, ad esempio, permette di capire il fatto che i sionisti poterono intraprendere l’operazione di pulizia etnica dei villaggi palestinesi, finiti sotto il loro controllo, anche prima del ritiro britannico. La disumanizzazione del nemico ci permette allo stesso modo di comprendere i veri e propri crimini di guerra che furono perpetrati durante tale operazione propedeutica alla fondazione dello Stato ebraico. Particolarmente tragica fu, ad esempio, la sorte degli abitanti palestinesi di Tantoura, che conosciamo grazie alla testimonianza diretta di un ebreo, che è stato avvocato nello Stato di Israele, ricordata dallo storico israeliano Katz: “i palestinesi del villaggio furono portati al cimitero, messi in riga e costretti a scavare. Non appena una riga terminava l’opera gli sparavano facendoli precipitare nelle fosse”.

In tal modo la pulizia etnica proseguì senza tentennamenti e consentì ai sionisti di occupare aree sempre maggiori della Palestina. Nel frattempo gli ebrei continuavano e emigrare in Palestina, con il rischio che rimpiazzassero gli sfollati arabi, che erano stati sradicati dalle terre che avevano da secoli antropizzato. Così, verso la fine di luglio del 1948, più di 400.000 palestinesi erano stati espulsi dalle loro terre. Agghiaccianti sono le testimonianze dei profughi costretti a fuggire senza risorse e senza un luogo in cui trovar rifugio, patendo la fame più nera. In tali miserevoli condizioni, a morire, anche per le più curabili malattie, furono in primo luogo i più deboli, i bambini, dal momento che i loro genitori non avevano nulla per comprare le medicine. Così i profughi, spesso terrorizzati dai bombardamenti dell’aviazione sionista, furono costretti a sopravvivere ammassati in accampamenti di fortuna, in tende costruite con quanto gli rimaneva, ad esempio sacchi di zucchero vuoti, finendo così con l’essere esposti a ogni tipo di intemperie, che spazzavano via con facilità i fragili e precari rifugi in cui erano costretti a cercare di sopravvivere.

Tale tragedia umanitaria, mentre non aveva praticamente nessun effetto nei riguardi di chi era stato convinto a disumanizzare i palestinesi, colpì profondamente l’inviato dalle Nazioni Unite in Palestina, sebbene si trattasse di un aristocratico scandinavo, il conte svedese F. Bernadotte. Così, dopo aver visitato i villaggi palestinesi devastati e i rifugiati nei campi profughi in Palestina e in Giordania non poté che rimanere profondamente scosso nel costatare come un popolo fosse stato ridotto in condizioni talmente misere da poter sopravvivere unicamente grazia agli aiuti internazionali. Perciò, nel suo resoconto alle Nazioni Unite dell’agosto 1948 sostenne: “sarebbe un’offesa contro i principi alla base della giustizia se a queste vittime innocenti fosse negato il diritto di tornare nelle loro abitazioni”. Tale “naturale” indignazione dinanzi alla tragedia palestinese fu fatale per l’inviato delle Nazioni Unite e per il suo assistente, il colonnello francese Serot, che furono assassinati in un attentato terroristico a opera della banda sionista Stern. Tale attentato che, al tempo, sconvolse l’opinione pubblica internazionale, diverrà motivo di vanto per il dirigente della banda Stern, Y. Shamir, che farà una rapida carriera nello Stato ebraico sino a divenire primo ministro di Israele. In seguito, pubblicando le sue memorie, si vanterà di tutte le operazioni terroriste che aveva portato a termine, dimostrando ancora una volta la totale incapacità di riconoscersi nell’altro.

Prima di essere ucciso, Bernadotte aveva inviato un rapporto alle Nazioni Unite con delle indicazioni precise per porre fine alla questione palestinese. Le sue proposte prevedevano in primis l’attuazione delle raccomandazioni dell’Onu del novembre 1947, che avrebbero dovuto garantire uno Status internazionale a Gerusalemme. Nonostante ciò, non ci fu nessuna reazione da parte della comunità internazionale quando i sionisti occuparono l’85% dell’area di Gerusalemme al di fuori delle mura della città vecchia, espellendo 30.000 palestinesi da quella che è, in seguito, stata definita Gerusalemme ovest. Come è noto oggi, la risoluzione dell’Onu rischia di divenire del tutto carta straccia, visto che alcuni paesi, a partire dagli Stati Uniti, considerano Gerusalemme la capitale dello Stato ebraico, dimostrando ancora una volta la completa disumanizzazione dei palestinesi.

In tal modo, Israele poté continuare indisturbata la sua espansione nei territori palestinesi, con raid aerei e incursioni nelle aree abitate dagli arabi, che continuarono a essere espulsi dalle loro terre. Così nel dicembre 1948 i palestinesi rifugiati erano più di 700.000. L’assemblea generale delle Nazioni Unite rispose, a tale pulizia etnica, adottando la risoluzione 194 che asserisce il diritto al ritorno nelle loro case dei rifugiati, il più presto possibile. Tuttavia, come sottolineato dal giornalista inglese D. Hirst “tutte le risoluzioni dell’Onu volte a risolvere la questione palestinese sono rimaste in sospeso. Non sono mai state applicate” generalmente a causa del veto imposto dagli Stati Uniti. L’invasione israeliana e l’espulsione dei palestinesi si protrasse, così, per tutto il 1949. Nell’aprile del 1949 la gravità della Nakba, della catastrofe palestinese divenne evidente. Quasi 500 villaggi erano stati distrutti, 11 città e 100 altri villaggi palestinesi furono colonizzati. Più di 13.000 palestinesi furono uccisi e 30.000 feriti. Almeno 850.000 palestinesi furono espulsi, ovvero l’85% della popolazione araba che viveva nella zona assegnata ai coloni per la costruzione dello Stato ebraico.

Nel 1949 le Nazioni Unite si adoperarono per realizzare una pace separata fra Israele e i paesi arabi circostanti. Tali accordi vennero realizzati per proteggere lo Stato di Israele da ogni futuro attacco. Dopo l’armistizio con Egitto, Libano e Giordania, che comportò l’annessione di ulteriori territori palestinesi allo Stato ebraico, quest’ultimo nel maggio del 1949 divenne membro delle Nazioni Unite, come monito dell’irreversibilità della colonizzazione sionista della Palestina. Il rappresentante israeliano alle Nazioni Unite asserì che a Israele era sufficiente l’armistizio, perché la pace avrebbe comportato delle concessioni agli arabi, a partire dalla questione del diritto al ritorno dei rifugiati. Firmato l’armistizio anche con la Siria, nel luglio del 1949 Israele passo a rinominare in ebraico gli insediamenti palestinesi sui cui era sorto lo Stato di Israele, con l’obiettivo di farli scomparire anche dalla memoria.

Del resto la negazione di ciò che è realmente successo riguardo alla cacciata dei palestinesi dalle loro terre, significa negare l’enormità di quanto era avvenuto. Ammettere la gravità del crimine, infatti, avrebbe delle conseguenze disastrose per lo Stato ebraico, in quanto implicherebbe, in primo luogo, un enorme esborso di risorse atte a indennizzare i profughi palestinesi delle disumane condizioni di vita in cui sono stati costretti a sopravvivere per anni oltre che, naturalmente, il diritto al ritorno nelle loro terre e nelle loro case.

Al contrario, il mancato riconoscimento di quanto commesso ai danni dei palestinesi, da parte della stessa comunità internazionale, consentì allo Stato israeliano di dividere il 22% della Palestina che non aveva direttamente occupato in due zone separate. La parte a est, ridenominata Cisgiordania, fu annessa nel 1950 alla Giordania, mente la zona a ovest, ribattezzata striscia di Gaza, finì sotto l’amministrazione egiziana. In tal modo lo stesso nome Palestina veniva cancellato. Cosa ancora più incredibile, se non si tiene conto del mancato riconoscimento dei palestinesi, nel giro di un anno la Palestina fu rimossa dall’opinione pubblica occidentale e sostituita con lo Stato di Israele.

Del resto, in questo mancato riconoscimento della tragedia palestinese, anche i paesi arabi hanno le loro responsabilità. Tanto che diversi profughi palestinesi nei paesi arabi circostanti li accusano di aver fatto di tutto per impedire di rivendicare con i fatti il loro diritto al ritorno in Palestina, finendo per costruire una sorta di cerchio protettivo intorno allo Stato ebraico, arrestando gli sfollati che provavano ad avvicinarsi ai confini.


Nota

[1] Le citazioni sono riprese da Al Nakba, documentario prodotto da Al-Jazeera per il 60° anniversario della catastrofe palestinese, sulle cui testimonianze questa serie di articoli si è essenzialmente basata.

28/07/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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