Alla domanda se fosse ancora possibile cambiare la Bolivia, il presidente in esilio Evo Morales, intervistato da Rafael Correa per RT, ha risposto: “Sì, ma bisogna avere i media dalla propria parte”. Come dargli torto? I suoi governi hanno cambiato il volto del paese, uno dei più poveri dell’America Latina, risollevandolo dal baratro in cui era precipitato negli anni di neoliberismo.
Tra ostacoli e conflitti che hanno mostrato la pervicacia del sistema oligarchico alleato di Washington, Evo è riuscito a realizzare le tre principali promesse della sua campagna elettorale: l’Assemblea costituente, la re-nazionalizzazione degli idrocarburi, e la riforma agraria. Molto più difficile, però, è stata la lotta contro il latifondo mediatico, pur prospettata dalla nuova costituzione che proibiva la concentrazione monopolistica.
L’ultimo rapporto dell’UNESCO, pubblicato nel 2016, indicava che oltre l’80% dei mezzi di comunicazione restavano nelle mani dei privati, e rilevava la coesistenza di “una minoranza di media comunitari, sindacali, confessionali e statali”. I giornali registrati erano circa 60, ma – indicava - quelli che “possono essere qualificati come grandi media sono: una decina di giornali privati, 7 reti televisive (una delle quali statale) e 4 reti radiofoniche (una statale)”.
I grandi media – rilevava ancora l’UNESCO – concentrano le loro attenzioni e la portata nelle tre città del cosiddetto “asse” boliviano: La Paz, Cochabamba e Santa Cruz, anche se le reti di radio e TV coprono varie zone del territorio nazionale, soprattutto dell’area urbana. I media si finanziano fondamentalmente con la pubblicità commerciale e con quella del governo, le cui risorse sono captate prima di tutto dalle reti televisive, seguite dai giornali più grandi e dalle reti radiofoniche. Il rapporto rilevava lo sforzo per potenziare l’informazione pubblica e i media di proprietà dello Stato, specialmente con la creazione della rete di radioemittenti Patria Nueva e la pubblicazione del giornale Cambio, primo nel suo genere nel XXI secolo in Bolivia.
Quanta strada abbia compiuto la Bolivia di Evo durante i suoi governi è testimoniato anche dal numero degli internauti che, in dieci anni, si è quadruplicato, passando dal 3 al 12% circa.
Il rapporto fa riferimento alla Ley General de Telecomunicaciones, Tecnologías de la Información y la Comunicación y Servicio Postal secondo la quale il quadro generale delle comunicazioni si sarebbe dovuto modificare come segue: un 33% ai privati, l’altro 33% allo Stato, il 17% ai media social-comunitari, e un altro 17% ai media indigeni.
L’arroganza di chi è abituato a possedere le principali leve dell’economia e a pilotare le coscienze mediante la proprietà dei grandi media, non ammette però simmetria. La natura del capitalismo – spiegava Marx – è vorace: se gli dai un dito, si prendono prima il braccio e poi ti divorano, calpestando quei diritti che pretendono di farti rispettare.
I grandi media boliviani hanno accompagnato le manovre di Washington, che hanno tenuto nel mirino il “presidente indio” fin dal 2006. Vale ricordare il 3 luglio del 2013. Si era nel pieno dello scandalo del Datagate, scatenato dall’ex operatore della Cia Edward Snowden, allora in fuga verso Mosca. Francia, Portogallo, Italia e Spagna vietarono all’aereo presidenziale di Morales, che volava da Mosca a La Paz, di fare scalo per rifornirsi di carburante.
Il presidente è stato allora trattenuto illegalmente all’aeroporto di Vienna, in Austria, con il pretesto che stesse trasportando il ricercato Snowden al quale allora avevano offerto asilo diplomatico diversi paesi dell’America Latina. Ne seguì un conflitto diplomatico che si risolse solo grazie alla levata di scudi di quell’America Latina ancora in pieno “rinascimento” per una seconda indipendenza.
In quel clima, anche i grandi media occidentali erano stati obbligati a diffondere, seppur con molte cautele, la montagna di documenti sullo spionaggio pervasivo messo in campo dall’imperialismo a livello planetario con il supporto delle nuove tecnologie. Denunce che è opportuno ricordare anche rispetto agli attacchi cibernetici portati dall’imperialismo contro i sistemi automatizzati degli stati, con la complicità delle multinazionali dell’informatica che controllano i brevetti e che posseggono le chiavi dei sistemi.
Qualche anno fa, si è denunciato l’hackeraggio del sistema informatico del Parlamento Europeo. Quest’anno, la rete elettrica della Repubblica bolivariana del Venezuela è stata presa di mira da un sabotaggio che ha colpito il sistema idrico. Un’azione criminale subito “rivendicata” con minacce esplicite provenienti dagli USA. Un altro feroce capitolo della “guerra totale in tempo di globalizzazione” che cerca di mettere in ginocchio il paese.
Da un attacco cibernetico al sistema informatico del CNE boliviano si è innescata la denuncia di frode che ha dato il via al copione del golpe in Bolivia. Ma se la notizia di un “anomalo” ritardo nel conteggio dei voti è stata diffusa subito con grande ampiezza dai media nazionali e internazionali, debitamente attizzati dall’Organizzazione degli Stati americani, quella emersa successivamente in merito all’attacco cibernetico, partito dalla solita stanza dei bottoni nordamericana, è stata diffusa solo dalle reti sociali.
Quanto pesino i grandi media sugli scenari politici lo ha messo a nudo anche il lavoro giornalistico del sito Wikileaks. Uno dei suoi fondatori, Julian Assange, colui che ha rivelato lo scandalo dei cablogrammi di guerra nordamericani (il Cablogate) ha pagato un prezzo salato. Dopo essersi rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra ai tempi in cui alla presidenza c’era ancora Rafael Correa, è stato abbandonato al suo destino dal tradimento di Lenin Moreno, e rischia di finire in pasto a Trump, visto che Londra lo considera estradabile.
Il suo lavoro, poi continuato anche dal sito The Intercept, e soprattutto la sua vicenda, ha messo in luce una volta di più l’intreccio tra apparato mediatico politico e giudiziario nella distruzione degli avversari politici e, in questo caso, dei giornalisti scomodi. Un intreccio che, tra allarmi e “anticipazioni” di inchieste giudiziarie e anche di sentenze non ancora emesse dai tribunali ha fortemente pesato nel golpe istituzionale contro Dilma Rousseff in Brasile e poi nella condanna di Lula.
Un meccanismo che ha connotato la persecuzione di Cristina Kirchner poco prima della fine del suo ultimo mandato da presidenta, quando si è cercato di coinvolgerla nella morte del giudice Nisman che indagava sull’attentato alla Mutua ebraica compiuto nel 1994. Una copertura che ha preparato e accompagnato le campagne sporche contro i presidenti non subalterni agli USA per costruirne la sconfitta, la destituzione e anche l’eliminazione.
Come ha fatto notare il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, la goccia che ha fatto traboccare il vaso al Pentagono è stato l’ultimo discorso di Evo Morales all’ONU, “quando le ha cantate chiare a Donald Trump”. La sua eliminazione fisica era già stata decisa dai golpisti, come anticipato dagli incendi, dalle devastazioni e dalle minacce dirette alla famiglia del presidente e degli esponenti di governo.
Il ruolo dei media – potentissimo quando si tratta di strumenti in mano alle multinazionali religiose (in Bolivia sono al primo posto) - è quello di demonizzare e demolire la credibilità e l’immagine dei dirigenti scomodi, creando grandi polveroni che poi nessuno smentisce quando risultano essere menzogne. Per questo, esistono veri e propri laboratori che diffondono dati avariati attraverso fondazioni e grandi agenzie dell’umanitarismo, considerate come il verbo rivelato quando stilano rapporti annuali a senso unico.
Grandi centri di intossicazione che hanno i propri attrezzatissimi uffici stampa, servono gli interessi del complesso militare-industriale, e per questo investono fiumi di denaro per “ungere” i microfoni o le tastiere giuste. Si tratta di vere e proprie cinghie di trasmissione del grande capitale transnazionale che, dietro la patina del capitalismo filantropico e della difesa di cause specifiche – anche lodevoli – o dei “diritti umani” diffondono una filosofia votata alla conservazione del mondo diviso in classi e alla frammentazione delle società: per impedire la formazione di movimenti uniti nel conflitto da obiettivi comuni.
Quello dell’”umanitarismo” è oggi un enorme business calcolato a circa 150 miliardi di dollari l’anno. In America Latina – uno dei continenti con il maggior tasso di disuguaglianza al mondo – ong e fondazioni sono circa un milione. Le grandi multinazionali dell’umanitarismo influenzano, in modo diretto o indiretto, le politiche e l’opinione pubblica. Alcune fondazioni, i cui bilanci superano quello di molti paesi messi insieme, disegnano la politica nazionale e internazionale fuori dal controllo democratico.
Lo si è visto in Brasile, paese dove il numero di queste fondazioni pilotate dalla Cia è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi dieci anni. Lo si vede nell’influenza che hanno certi rapporti annuali (di Amnesty International, di Human Right Watch e consimili) nelle sanzioni decise dagli USA contro i paesi che, come Cuba e il Venezuela, non si inginocchiano ai suoi voleri. Lo si vede anche nella situazione attuale nei vari paesi dell’America Latina.
Come ai tempi dell’Unione Sovietica, la retorica sui “diritti umani”, amplificata dai grandi media, vale a senso unico: lancia strali solo contro quei paesi che non si muovono nell’orbita di Washington, mentre volge lo sguardo altrove quando repressione e torture si perpetrano in paesi come Cile, Colombia, Honduras, o quando si verificano colpi di Stato, classici o di nuovo tipo. L’influenza nefasta di questi laboratori di guerra costruiti nei centri del potere mediatico, finanziario e militare, la si è vista nella preparazione della guerra in Libia e nell’uccisione di Gheddafi, e anche nella guerra in Siria, mediante la diffusione sul web di false stragi perpetrate dal governo, costruite come in un set hollywoodiano.
Lo sviluppo delle nuove tecnologie è peraltro un’arma a doppio taglio, che consente sia a chi non ha mezzi di contrastare l’informazione dominante anche con un video da cellulare, sia di pilotare false “rivoluzioni”, facendole sembrare spontanee e partite “dal basso”; oppure di costruire personaggi mediatici come la Greta di turno, tanto sponsorizzati quanto innocui a fronte di un problema sistemico com’è quello della distruzione della natura.
L’indubbia democratizzazione prodotta dallo sviluppo del web – comunque gestito da grandi corporazioni a guida USA – ha per contraltare la “verità del post” in cui tutto appare uguale a tutto, senza gerarchie di valori. Quando, a ridosso del referendum che avrebbe dovuto decidere se la coppia Morales-Linera poteva ricandidarsi, è scoppiato lo scandalo del falso figlio di Morales, si sono rincorse lacrime e dichiarazioni. A chi credere? Seminare il dubbio e il disorientamento, è già un grande risultato.
Un compito a cui si dedicano anche i grandi media europei, soprattutto quando si tratta di demolire l’immagine di Nicolas Maduro e del Venezuela: basta chiamare sempre “regimi” i governi che non piacciono e dittatori i presidenti, e definire sempre “democrazie” gli stati-canaglia graditi agli USA. Basta appropriarsi dei simboli delle rivolte vere e capovolgerli a favore delle rivolte finte, le rivolte dei ricchi. Il problema, come sempre, è il controllo, e dunque il potere: sui mezzi di produzione e sui monopoli mediatici che servono gli interessi di quelle 60 famiglie che governano il mondo.
La globalizzazione capitalista, com’è noto, si è strutturata e si struttura nella profonda trasformazione produttiva delle economie nazionali, subordinate ai circuiti multinazionali. Le grandi corporazioni internazionali centralizzano la produzione e generano in diversi punti del mondo i singoli componenti di un prodotto finale, per minimizzare i costi di produzione. Di conseguenza, circolano nel mondo prodotti in via di definizione, trasferiti da un’impresa all’altra fino alla loro elaborazione finale in un determinato paese.
Queste imprese, però, sono semplici filiali delle grandi corporazioni. È così anche per la merce-informazione. Un sistema che, soprattutto in Europa, dove la concentrazione monopolistica tra padroni dei media e padroni della politica è gigantesca, forma i giovani giornalisti all’autocensura.
A riguardo, circola una simpatica vignetta. Dice: “Se Tizio sostiene che piove e Caio che c’è il sole, cosa deve fare un giornalista? Aprire la fottuta finestra e andare a vedere”. Ma cosa fare se quel giornalista non ha più occhi per vedere e orecchie per sentire? Qui, la parola passa alla lotta di classe.