Disperazione e armamenti

Il declino Usa si manifesta nella loro politica aggressiva e nel sempre più ampio investimento nelle armi, che beneficia solo il complesso militare-industriale


Disperazione e armamenti

Da vari anni si parla della volontà disperata degli Usa di mantenere in vita la loro declinante egemonia imperialistica sul mondo, basata sulla forza militare, sul controllo dei mezzi di comunicazione di massa, sul signoraggio del dollaro e sulla penetrazione globale dei loro capitali. In particolare, mi sembrano interessanti a questo proposito due articoli, uno risalente al 2020, scritto da Rainer Shea per l'Orinoco Tribune, intitolato A desesperate plan to preserve US imperialist Hegemony; l'altro, segnalatomi da Ernesto Burgio, scritto da Vijay Prashad, uno storico indiano marxista, direttore esecutivo dell'Istituto per la Ricerca sociale, Tricontinental, e pubblicato poco tempo fa dal Morning Stard on line, e significatamente intitolato Us desperate to preserve its dwindling hegemony.

Non credo che i due autori, così distanti tra loro, si siano messi d'accordo nello scegliere titolo ed argomento e che, pertanto, sia utile riflettere su questo complicato fenomeno, accompagnato dal degrado impressionante delle condizioni di vita dei lavoratori statunitensi, dall'incremento della povertà, della criminalità, dalla conflittualità tra le diverse regione di quel grande paese.

Nel primo articolo si parla di un'importante riunione, organizzata nel giugno 2020 dai neoconservatori presenti nell'Atlantic Council, nel corso della quale il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, ormai famoso per l’atteggiamento bellicista, ha annunciato il progetto di Riforma della NATO chiamato NATO 2030. Questo progetto, ribadito in una successiva riunione a Bruxelles e poi a Madrid quest'anno, consiste nella volontà di incorporare nell'organizzazione l'Australia, la Nuova Zelanda, il Giappone e la Corea del Sud e nello stesso tempo di espandere la sua influenza oltre la sfera militare alla più estesa dimensione politica dei paesi a essa vincolati. Stoltenberg ha chiarito che occorre combattere le tendenze isolazioniste, seguite da Trump, affermando che si deve resistere alla tentazione di trovare soluzioni nazionali e che “bisogna rivitalizzare i nostri valori: libertà, democrazia, il rispetto della legge (la solita consunta retorica). Per raggiungere questi obiettivi occorre rafforzarci militarmente, essere più uniti politicamente e sviluppare un più ampio approccio globale”. Certamente ciò ha a che fare con la necessità di controllare la cosiddetta area dell'Indo-Pacifico e l'espansiva potenza della Cina.

Si tenga presente che, in queste circostanze, si è ritenuto possibile pensare ad attivare l'articolo 5 del Trattato Atlantico, in caso di violazioni del Cyberspazio, in quanto esse si configurerebbero come attacchi alla sicurezza della stessa alleanza. Inoltre, si sono finanziate le cosiddette emerging and disruptive technologies, ossia quelle tecnologie in fase di sviluppo che influenzeranno notevolmente la società e l'attività militare.

Questi tentativi di ridare smalto alla NATO, che secondo Macron si troverebbe in morte celebrale, costituiscono una pericolosa dimostrazione di debolezza e una reazione al mondo multipolare che si sta prospettando, dopo la lacerante rottura Europa/Russia in seguito all'operazione speciale di Putin. Non solo, costituiscono anche un disperato intento di mantenere uniti i conflittuali imperialismi, conviventi nella NATO, spaccati al loro interno dai diversi interessi nazionali e dall'ormai evidente contraddizione tra il settore high tech e quello capitalistico tradizionale, fortemente penalizzato, a differenza dell'altro, dalle misure anti-covid [1].

Come abbiamo visto, questa strategia aggressiva, fondata sull'acquisto di nuove e sempre più sofisticate armi dal complesso militare-industriale, per esempio in Australia (ma non solo) ha prodotto la riduzione dei salari, l'austerità, l'aumento dei prezzi, essendo state le industrie di quel paese danneggiate dalla guerra fredda con la Cina, con cui aveva forti legami. Tali processi scalfiscono la legittimità degli Stati e accrescono le dispute tra gli stessi, finendo così con fiaccare tutto il sistema che diventa sempre più instabile.

In questo senso risulta molto interessante il libro intitolato Qui est l'ennemi? pubblicato nel novembre scorso dall'Ecole de guerre économique, fondata nel 1997 e che fornisce ai suoi studenti già laureati corsi di intelligenza e strategia competitive, come del resto si ricava dal suo stesso nome. Il libro è frutto di una ricerca da cui si evince che il popolo francese, ma anche i membri dei servizi di intelligenza sono tutti convinti che gli Usa sono il vero nemico della Francia. Per paura del comunismo, le élite francesi hanno accettato il dominio Usa, rifiutato da De Gaulle, e ora hanno dovuto ingoiare il disastro delle sanzioni alla Russia. Tuttavia, voci di dissenso si levano da tutta Europa, come per esempio quella della deputa al Parlamento europeo Claire Daly, della Sinistra Europea, la quale prima di Natale ha affermato che inviare armi all'esercito ucraino non conduce alla pace; poi si è chiesta retoricamente perché non mandiamo armi in Palestina o Yemen, giacché anche questi territori sono stati entrambi occupati. Infine, ha concluso: “Non è necessario essere proeuropei, prorussi, proucraini per difendere la pace, basta essere umani”.

Purtroppo queste voci né gli interessi opposti a quelli Usa riescono a modificare la gravissima situazione delle classi lavoratrici europee vere vittime di questa inutile guerra. Anzi, come di mostra l'articolo su menzionato di V. Prashad dello scorso 23 dicembre, gli Usa sembrano persistere su questa pericolosa china. Infatti, come ci riporta il nostro autore indiano, il governo Usa approva ogni anno un presupposto militare sempre più consistente, qualcosa di veramente osceno dati l'aumento del costo della vita che colpisce tutti, la crisi climatica e ambientale. Ci sarebbero modi migliori per spendere più saggiamente questo surplus sociale estratto dal lavoro vivo, garantendo migliori condizioni di vita a tutti.

Secondo a quanto scrive l'autore marxista, il Congresso Usa - “con un atto di entusiasmo di democratici e repubblicani” – ha deciso di stanziare per  il bilancio militare 713 bilioni di sterline, 37 di più di quanto richiesto da Biden (una sterlina oggi vale 1,14 euro). Ma un esame più approfondito mostra che in totale la macchina da guerra della grande potenza ormai decadente assorbe 1,36 trilioni di sterline. Secondo il SIPRI [2] quest'anno la spesa militare Usa supera di  66 miliardi sterline la spesa militare di quasi tutti i paesi del mondo. Dopo gli Usa vengono la Cina e l'India, che è  ormai diventata la quinta potenza economica al mondo, prendendo il posto della sua antica metropoli. 

D'altronde, questa spesa è giustificata dal fatto che i gringos hanno 1000 basi e postazioni militari in quasi la metà dei paesi del mondo, 5.500 testate nucleari e 1.800 sistemi per il lancio di bombe. Inoltre, i loro documenti parlano chiaro: intendono contenere e indebolire la Russia e la Cina, impiegando una bomba nucleare per scoraggiare attacchi strategici di qualsiasi tipo. Nessun paese può competere con questa capacità di controllo, messa a rischio tuttavia dalla rivendicazione della Russia di riprendersi il ruolo dell'URSS e dalla volontà della Cina di inglobare Taiwan con la sua eccezionale industria di microchip.

Così il complesso militare si arricchisce sempre più, mentre il futuro dell'umanità, costretta a vivere in un ambiente avvelenato dalla guerra e angosciata dal pensiero della stessa, diventa sempre più precario e incerto.

 

Note:

[1] G. Palermo, Il conflitto russo-ucraino. L'imperialismo Usa alla conquista dell'Europa, Roma 2022.

[2] Stockholm Internacional Peace Research Institute.

06/01/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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