Dall’Urss alla Russia contemporanea

Il passaggio dall’Urss alla Russia contemporanea è stato travagliato e ne è venuto fuori un paese contraddittorio, che non ha senso scacciare dalla scena internazionale.


Dall’Urss alla Russia contemporanea

Ormai da più di un mese non si fa che parlare di Vladimir Putin e della Russia dei famosi oligarchi in un’ottica assai semplicistica e binaria che tende a opporre il male al bene, l’autoritarismo alla democrazia, la costrizione alla libertà. È proprio in opposizione a questa visione grossolana che mi sono decisa a mettere insieme qualche riflessione su come è avvenuto il passaggio dall’Urss alla Russia contemporanea, sul contributo dato dal cosiddetto Occidente a questo processo e sui caratteri attuali del grande paese euroasiatico.

Tutti ricorderanno quanto entusiasmo suscitò la vera e propria apertura del muro del Berlino, dovuta ad accordi tra le parti, in quelli stessi che oggi identificano Putin con Hitler e che lo accusano senza verifiche e prove di stragi atroci, ma che non si sconcertano per nulla se allo scioglimento del Patto di Varsavia non seguì quello della Nato. Eppure era evidente a chi voleva capire che si erano rotti gli equilibri internazionali, e che questa lacerazione avrebbe provocato problemi gravissimi. Infatti, non più limitati dal peso politico e militare dell’Urss, per costruire e rafforzare la loro indiscussa egemonia, gli Stati uniti si dettero alla disgregazione di quegli Stati che, in qualche modo, ostacolavano l’espansione del loro dominio, attaccandoli con guerre o logorandoli con sanzioni, che costituiscono veri e propri crimini contro l’umanità, giacché colpiscono le popolazioni nelle loro esigenze basilari [1].

In simultanea con questi drammatici eventi, la Nato fu trasformata e ciò avvenne durante le guerre dei Balcani, nelle quali l’organizzazione non operò in funzione di mera autodifesa, ma si frappose tra i belligeranti, uscendo anche dai propri confini, nel tentativo di operare per ristrutturare gli equilibri europei alla conclusione della cosiddetta guerra fredda. L’articolo 5 del Trattato nordatlantico stabilisce che le componenti dell’organizzazione considerano “un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale” come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente… l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale”.

Questo articolo fu invocato dopo gli attentati dell’11 settembre, dato che furono ritenuti un attacco ingiustificato contro tutti gli alleati e meritevoli di una risposta punitiva da parte dell’organizzazione, anche se i loro presunti autori si trovavano al di fuori dei territori di competenza della Nato. Inoltre, essa ha cominciato ad accogliere anche paesi extraeuropei come la Colombia, stretta alleata degli Stati Uniti nella cosiddetta guerra contro il narcotraffico che di fatto ostacola la realizzazione dell’accordo di pace con la guerriglia.

Nessun critico dell’Urss può negare che, nonostante i problemi sorti con le scelte economico-politiche post-rivoluzionarie, questo paese è divenuto “in un arco di tempo ristretto una delle maggiori potenze economiche, superando un’enorme arretratezza culturale”, ricostruendosi “in modo sorprendentemente rapido dopo le enormi distruzioni della Seconda guerra mondiale, assicurando alla sua popolazione livelli di vita senza paragone superiori a quelli del periodo prerivoluzionario e, non dimentichiamolo, a quelli della grande maggioranza dei paesi nell’orbita de sistema capitalista” (Livio Maitan, Dall’Urss alla Russia. 1917-1995, Datanews, Roma 1996, pp. 13-14).

Questa grande trasformazione era avvenuta nonostante – come ricorda Alexander Höbel [2] l’immaturità delle condizioni di partenza, e aveva fatto del grande paese euroasiatico la seconda potenza industriale del mondo sin dal 1937. La sua economia si basava sul “predominio dell’industria sull’agricoltura, e sul predominio dell’industria pesante, produttrice di macchine, su quella leggera, produttrice di beni di consumo”. In un contesto politico dominato da un potere fortemente centralizzato e burocratizzato e nell’isolamento internazionale, questi aspetti che avevano portato al successo cominciarono successivamente a mostrarsi problematici nel parallelo con il grande sviluppo delle società a capitalismo avanzato, nelle quali il tenore di vita complessivo delle masse era particolarmente progredito.

Secondo Höbel, negli anni della coesistenza pacifica, quando l’Urss cominciò a integrarsi nel mercato mondiale e a “concepire la competizione con l’Occidente in termini di tassi di sviluppo e livello di consumi”, finì col non considerarsi più una società alternativa al capitalismo; ponendosi inconsapevolmente “sul terreno di quest’ultimo”, preparava la sua sconfitta con le sue stesse mani. Questa scelta si concretò nell’indebitamento del blocco sovietico con i paesi capitalisti, il cui scopo era quello di importare beni di consumo e prodotti di alta tecnologia e che successivamente fu pagato con dure politiche di austerità. Queste ultime accrebbero le crisi interne e innescarono i movimenti di rivolta sviluppatisi nel 1989.

A partire dagli anni Settanta non si registra nessuna crescita economica, si riducono gli investimenti, aumentano le disuguaglianze e si ferma il miglioramento delle condizioni di vita. La società sembra paralizzata da un immobilismo strutturale, mentre in vari paesi dell’Unione si hanno manifestazioni di malcontento e del desiderio di cambiamenti. L’intervento in Afganistan del 1979 non fa che acuire i problemi dovuti anche dalla corsa agli armamenti, che impegnava il 10/15% del reddito nazionale e che non conduceva al superamento dell’armamento statunitense (Ibidem pp. 40-41).

Sempre come si ricava da Höbel, un altro dei gravi problemi che affliggevano l’Urss era rappresentato dalla “coesistenza antagonista del piano e del mercato”, che studiosi come Ernest Mandel e Paul Sweezy considerano in parte inevitabile e caratteristica della società di transizione. A loro parere, pur tendenzialmente opposti, possono coesistere, anche se non in forma pacifica, perché la forma-mercato se non tenuta a bada può sempre riaprire alla restaurazione capitalistica. Tensione che vediamo attualmente in tutti quei paesi cosiddetti socialisti, ma che sarebbe meglio inquadrare appunto nella categoria “società di transizione”.

In particolare, con le riforme ispirate da Krusciov e da Breznev la tensione tra piano e mercato si acuisce al punto che assistiamo a una grave crisi della pianificazione centralizzata, indebolita dai processi di decentramento amministrativo e gestionale, dagli scambi economici di carattere privatistico tra imprese e tra istituzioni ora permessi. In questo nuovo contesto si viene conformando un settore economico autonomo e occulto, definito economia ombra, basato su relazioni di tipo mafioso e sull’appropriazione illegale delle risorse comuni, alimentato da comportamenti illeciti e corrotti, non più puniti dallo Stato. La cosiddetta economia ombra legava importanti settori delle burocrazia a una folla di mediatori, che agivano rapinando lo Stato per rifornire non gratuitamente le varie aziende. Legato da comuni interessi materiali e illegittimi, questo blocco, come ci dice Höbel, fu l’embrione di una protoborghesia paracriminale, da cui sono scaturiti i cosiddetti oligarchi, che poi non sono altro che miliardari che hanno realizzato la loro accumulazione primitiva attraverso furti, frodi, violenza. Ossia, proprio come è avvenuto agli albori del capitalismo e si è sempre ripetuto quando diveniva necessario rinvigorire la valorizzazione del capitale. Naturalmente tutto ciò avviene ancora, in tutto il mondo capitalistico, senza che nessuno se ne scandalizzi.

Mandel descrive molto bene questo processo: con le “riforme” il direttore riceve forti incentivi per accrescere i profitti della sua fabbrica, che sono da lui controllati, e decide di collaborare con le imprese straniere, nei cui paesi dirotterà parte di questi profitti, facendo investimenti e aprendo conti bancari. Come i feudatari trasformarono i feudi assegnati dall’imperatore in proprietà privata, in quel contesto, in cui si arrivò a usare una bottiglia di vodka come mezzo di scambio, diventa assai facile ai direttori appropriarsi di un bene dello Stato da loro stessi incrementato e già controllato anche con operazioni assai discutibili (E. Mandel, F. Charlier, L’Urss è uno Stato capitalista?, Roma 1971, pp. 28-29).

Tenendo bene a mente quanto sostiene Ernest Mandel, “ il socialismo significa società senza classi e quindi presuppone non solo la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione, che d’ora in poi saranno diretti in modo pianificato dagli stessi produttori associati, ma richiede anche un livello di sviluppo delle forze produttive che renda possibile l’eliminazione progressiva delle produzioni di merci, del denaro e dello Stato”; credo avesse ragione il Che quando sosteneva che il socialismo è il risultato di una lunga opera di costruzione. Partendo da questa considerazione, come si è accennato in precedenza, Mandel in maniera del tutto realistica scrive che, abbattuto il capitalismo, “La produzione delle merci continuerà a prevalere nel campo dei beni di consumo. L’automatismo economico non riprodurrà i rapporti «socialisti» della società; sarà necessario adoperare la coercizione statale per correggerli. E quindi avremo una società di transizione fra capitalismo e socialismo caratterizzata (come l’Unione Sovietica) [3] dalla contraddizione fondamentale fra il modo di produzione non capitalista e le norme di distribuzione essenzialmente borghesi, e dalla combinazione di questi due fenomeni” (Ibidem, pp. 33-34).

Con l’arrivo al potere di Mikhail Gorbaciov (1985), ultimo segretario del Pcus e presidente dell’Urss dal 1990 al 1991, viene posta la necessità di attuare al contempo un’ulteriore riforma politica e una economica, definita da qualcuno catastrojoka, i cui pilastri erano basati sulla democratizzazione e sulla decentralizzazione. Viene riconosciuto formalmente il pluripartitismo e si avviano ristrutturazioni economiche, che sono accolte con numerosi scioperi i cui protagonisti non si limitano a sole rivendicazioni economiche come il diritto dei lavoratori a decidere sulle condizioni di lavoro. In questa difficile situazione riemerge la questione nazionale in varie regioni, in particolare nell’Asia centrale e negli Stati baltici fortemente nazionalisti. Quanto alla decentralizzazione, nel 1987 fu decisa l’autonomia delle aziende estesa nel 1990 anche al settore statale, aziende alle quali fu dato anche il diritto di emettere azioni, mentre ai lavoratori fu tolto quello di eleggere il loro direttore. Nel 1988 le aziende poterono anche trattare direttamente con società estere e stabilire la somma delle esportazioni e delle importazioni. Si tentò di dare il via alle cooperative, che si svilupparono nell’edilizia privata, nell’agricoltura e nelle attività culturali; mentre i contadini potevano coltivare terreni ottenuti gratuitamente e che potevano essere lasciati in eredità. Si tratta di tutti fenomeni, che con varie differenze abbiamo visto in tutti i paesi “socialisti”, in realtà in transizione, che hanno cominciato ad aprirsi più o meno timidamente verso la cosiddetta economia socialista di mercato con risultati assai diversi, condizionati ovviamente di diversi fattori oggettivi.

Nel caso dell’Urss, come mi pare scriva giustamente Maitan, la natura ibrida della società ha innescato “tendenze contrastanti e centrifughe di ogni tipo… i vecchi meccanismi e le vecchie molle di un’economia pianificata in modo amministrativo non funzionavano più o funzionavano sempre meno mentre non si precisavano ancora nuovi meccanismi e nuove molle”. Pertanto, il paese restava incastrato tra i problemi del vecchio sistema e l’applicazione, sia pure parziale, dei criteri dell’economia di mercato (Ibidem pp. 61-62).

L’opposizione a questo processo di disgregazione del potere sovietico e della società di transizione venne da un gruppo ristretto di uomini politici il 19 agosto del 1991, i quali mettendo da parte Gorbaciov volevano bloccare il processo ormai inevitabile di restaurazione del capitalismo, ma il progetto fallì anche per l’insignificante appoggio delle masse popolari che evidentemente non aspiravano solo al ritorno al passato.

Fallito il colpo di Stato, Boris Eltsin, eletto nuovo presidente, mise fuori legge il Partito comunista e ne confiscò le proprietà, mentre l’organizzazione della gioventù comunista si era autosciolta in precedenza. Ciò che colpisce in tutto questo è l’inconsistente partecipazione agli eventi delle masse, le quali evidentemente si sentivano distanti dal potere sovietico per molte ragioni. Nonostante nel marzo 1991 si fosse tenuto un referendum sul mantenimento dell’Unione, boicottato dalle repubbliche, che intendevano rendersi indipendenti, al cui quesito dettero parere favorevole il 76% dei votanti, i presidenti della Russia, della Bielorussia e Ucraina dettero vita alla Comunità degli Stati indipendenti, dissolvendo così l’Urss. Da quel momento lo spazio ex sovietico ha perduto sei dei quindici Stati che ne facevano parte: i paesi baltici, Turkmenistan, Turkmenistan, Georgia e Ucraina, il cui futuro è attualmente in gioco.

Ci siamo soffermati rapidamente sulle contraddizioni economiche della società di transizione e sui principali eventi che l’hanno travolta, è bene però dedicare un po’ di spazio alla sua dimensione politica. A mio parere è corretta quell’affermazione secondo la quale l’Urss ha dovuto sempre vivere in uno stato di eccezione per far fronte a quella minaccia esistenziale che ha preso corpo, per esempio, con i progetti di colpire con bombe atomiche le città sovietiche nel 1945 e con l’espansione della Nato degli ultimi anni. Se questi elementi esogeni furono importanti per l’aborto della democrazia socialista, non dobbiamo dimenticare il retaggio bizantino-zarista, l’immaturità democratica delle masse sovietiche e il discusso divieto del frazionismo all’interno del partito nel 1921.

Credo anche che proprio il mancato sviluppo della democrazia socialista possa spiegare l’impreparazione delle masse e la loro distanza dalle vicende che portarono alla dissoluzione dell’Urss, che avvenne con scarse proteste, nonostante il passaggio al capitalismo selvaggio, attuato da Eltsin con l’aiuto di consiglieri economici e militari occidentali, abbia comportato gravissimi danni alle condizioni di vita dei cittadini est europei. Si pensi solo che, in seguito al disgregarsi delle istituzioni della sanità, della previdenza sociale, alle privatizzazioni e alla liberalizzazione dei prezzi, morirono circa 18 milioni di individui in tutto il blocco ex socialista, 12 milioni nella sola ex Urss, dove l’aspettativa di vita degli uomini si abbassò arrivando al livello degli abitanti maschi dell’India. È questo sicuramente un altro crimine commesso dal capitalismo, taciuto e addossato alla crisi del socialismo sovietico.

Per concludere questa panoramica, mi soffermerò brevemente sulla Russia attuale, per intenderci quella che in questo momento sta combattendo in Ucraina e che è governata da Vladimir Putin, il quale però è solo l’esponente di spicco di una certa élite, e non certo un comunista, come molti semplicioni pensano e ci vogliono talvolta far credere. Questa élite ha una natura conservatrice e nazionalista e, per difendersi dalla pericolosa occidentalizzazione disgregante, ha ripreso il controllo delle grandi industrie privatizzate ai tempi di Eltsin, al contempo ha sostenuto il settore privato, non imponendo imposte progressive e abbassando le tasse alle piccole e medie imprese. Putin appartiene al partito Russia unita, mentre la seconda forza politica nel paese è rappresentata dal Partito comunista della Federazione russa, che nel 2021 ha conquistato quasi il 20% dei voti e che sostiene l’operazione militare speciale in Ucraina.

Come già fece Stalin ai tempi della Grande guerra patriottica, Putin ha stabilito forti rapporti con la Chiesa ortodossa, ai cui riti partecipa, come quello dell’immersione nell’acqua gelida in occasione dell’inizio dell’anno, mostrandosi rispettoso e compunto. La Chiesa ortodossa nutre una grande ostilità verso il comunismo, ha canonizzato Nicola II e trasformato la tomba del piccolo erede al trono, Aleksej, in un luogo di culto e di pellegrinaggio. Come si ricorderà, tutta la famiglia dello zar fu uccisa a Ekaterinburg dai bolscevichi per evitare che, nel corso della guerra civile, gli oppositori la utilizzassero per restaurare il regime zarista.

L’amalgama tra il nazionalismo e la fede ortodossa si manifesta nel panslavismo di Putin, ma non nel completo ripudio dell’eredità lasciata dai sovietici, alla quale d’altra parte si deve la trasformazione dell’Urss in grande potenza. La rivalutazione del panslavismo e dei suoi valori fortemente conservatori genera un inevitabile rifiuto di molti aspetti sicuramente decadenti del mondo occidentale, fenomeno messo in luce da molti suoi intellettuali, tra i quali spicca per esempio Noam Chomsky.

La politica estera di Putin e dei suoi sodali è molto pragmatica: ha avuto rapporti con leader di destra come Marine Le Pen, Matteo Salvini, recentemente con Jair Bolsonaro, cui ha promesso di appoggiarlo per far ottenere al Brasile un seggio nel Consiglio di sicurezza delle Nu; nello stesso tempo, la Russia è strettamente legata alla Cina comunista, con cui ha stipulato nuovi accordi in seguito alla sanzioni occidentali, sostiene il Venezuela e persino l’angariata Cuba. Insomma, possiamo concludere che per necessità deve portare avanti una politica ostile all’imperialismo statunitense.

Concludendo, possiamo affermare che la Russia è un paese contraddittorio, ricco di importantissime risorse e di una straordinaria cultura, con il quale sarebbe opportuno mantenere quelle relazioni di cui possono beneficiare le reciproche popolazioni, mentre il tentativo di scacciarlo dalla scena internazionale non apporterà vantaggi nemmeno alle élites che da Washington pretendono di governare il mondo e a cui si inchinano con disgustoso servilismo i loro amici europei.

 

Note:

[1] È ormai celebra la frase di Madeleine Albright, la quale dichiarò che era valsa la pena che 500mila bambini iracheni fossero morti per le sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Chissà se pensava la stessa cosa a proposito dei bambini cubani o afgani.

[2] Consiglio la lettura del saggio di Höbel per avere una visione approfondita di tutti gli argomenti che qui sono trattati assai rapidamente.

[3] Come la Cina, dove secondo la stessa dirigenza cinese la borghesia è stata espropriata politicamente dal partito-Stato, ma gestisce larga parte della produzione, anche quella d’esportazione.

23/04/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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