A voler commentare con una parola il rapporto Il mercato del lavoro: verso una lettura integrata 2017, primo della collaborazione sviluppata nell’ambito dell’Accordo quadro tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Istat, Inps, Inail e Anpal, si potrebbe usare il termine FALLIMENTO: delle riforme del lavoro che si sono susseguite negli ultimi anni; delle politiche sul lavoro; delle decontribuzioni per le assunzioni, che la lettura del rapporto mostrano in tutta la loro inefficacia.
La ripresa che traina l’occupazione. Quale?
La ripresa è affidata al segno più sulla crescita del Pil, che indica per l’Italia una variazione tendenziale positiva nel terzo trimestre 2017 dell’1,7%, ma molto minore della media Ue (+2,5%). Una ripresa che stando alle prime pagine del rapporto avrebbe accelerato e trainato il mercato del lavoro, tanto da aver permesso di recuperare “in buona parte, i livelli occupazionali della situazione pre-crisi”. Ma intanto rimane l’alto tasso di disoccupazione (11,2%), che pure se in calo risulta ancora ampiamente al di sopra di quanto si registrava prima della crisi. E la distanza con la media dei Paesi dell’Unione europea non si ferma qui. Così, scorrendo le pagine del rapporto si nota che ad aggravare la situazione italiana è l’incidenza dei disoccupati di lunga durata, che dal primo trimestre del 2008 ad oggi è aumentata di oltre dodici punti percentuali, raddoppiando il divario dalla media europea (da 6,3 a 13,2 punti).
Un dato, quello appena visto, che non può che dare immediatamente l’idea della grave condizione di sofferenza in cui si possono trovare i lavoratori nel nostro paese qualora il loro posto di lavoro venga messo a rischio. Soprattutto i giovani, ed in particolare nella fascia d’età dei 25-34enni, “sperimentano carriere lavorative intermittenti e hanno anche maggiori difficoltà a trovare il primo impiego”. Ma nel frattempo, la perversione politica in materia di lavoro e pensionistica si accanisce sia contro i lavoratori anziani, costretti a rimanere al lavoro fin a 67 anni di età, sia contro i giovani, dal momento che le riforme pensionistiche hanno procrastinato per chi è più avanti negli anni l’uscita dall’occupazione. E per quanto in tutte le maniere i fautori dell’innalzamento dell’età pensionabile tentino di far passare certi automatismi come necessario adeguamento all’aspettativa di vita, nel rapporto si legge che la spinta verso l’innalzamento dell’età pensionabile ha portato ”a un innalzamento dell’età media della forza lavoro più intenso di quello nella popolazione (+5,2 anni, rispetto a +3,2 anni della popolazione)”.
Così, tra giovani che hanno difficoltà a trovare un primo impiego e anziani che non riescono ad andare in pensione, aumentano senza sorprese le differenze intergenerazionali, “con un più forte calo del tasso di occupazione e un maggior aumento di quello di disoccupazione per i giovani di 15-34 anni. Di contro, per gli ultracinquantacinquenni il tasso di occupazione è cresciuto in tutto il periodo”. Abbiamo perciò i giovani sono sempre più spesso presenti nei comparti degli alloggi e ristorazione e sempre meno nel pubblico impiego, a causa delle responsabilità di chi ha portato avanti in questi anni politiche di indebolimento della base occupazionale del settore pubblico, dove sulla spinta di supposti tagli agli sprechi e lotta ai fannulloni è stata aumentata la precarietà ed è stato posto un blocco al turnover.
Una struttura produttiva in costante impoverimento
A questo punto, tra giovani spesso costretti ad emigrare per non vedersi costretti a svolgere lavori a basso valore aggiunto (nei quali le competenze risultano avvilite) e senza accumulo di competenze ed esperienze a causa di lavori precari e disoccupazione, si evidenziano difficoltà a fare incontrare domanda ed offerta di lavoro. Una situazione presa in considerazione anche dall’Ocse nel rapporto di questi giorni, Ottenere le giuste competenze, dove si evidenzia che il 35% delle persone svolge un lavoro che non è in linea con quello per cui ha studiato, dato con cui l’Ocse spiega la cosiddetta fuga di cervelli. Ma, paradossalmente, la risposta che l’Ocse pensa si debba dare è di puntare ancora di più sulle ricette che hanno portato alla situazione attuale: legare ancora di più gli stipendi alla produttività e spingere su Buona Scuola e Jobs Act, che secondo l’organizzazione possono contribuire a ridurre i preoccupanti squilibri fra l'offerta e la domanda di competenze nel mercato del lavoro Italiano.
Ma come hanno mostrato Marta Fana e Davide Villani in un articolo pubblicato dalla rubrica Econopoly de Il Sole 24 Ore, “non è l’offerta di lavoro a non essere adeguata, ma la struttura produttiva in costante impoverimento. In altre parole, più che un problema di offerta di lavoro l’Italia attraversa un problema di quantità e qualità di domanda di lavoro”. In sostanza, viene smontata la retorica della polarizzazione attribuita a chi la subisce, cioè i lavoratori che vedono impoverirsi, perché, semmai, a impoverirsi è la struttura produttiva che gioca tutto sulla riduzione del costo del lavoro, cioè sulla riduzione dei salari. Insomma, la questione è che anche laddove cambia il lavoro lo sfruttamento rimane. D’altronde, lo stesso rapporto congiunto che stiamo discutendo afferma che “dal punto di vista della struttura produttiva e occupazionale il periodo 2008-2016 ha rafforzato lo spostamento strutturale verso i servizi”, ai quali però afferiscono il 43% dei rapporti di lavoro brevi, cioè quell’insieme di forme contrattuali che si caratterizzano per durata inferiore a tre mesi, bassa continuità lavorativa e bassi livelli retributivi.
La precarietà coinvolge sempre più anche i meno giovani
Stiamo parlando, quindi, di condizione estrema di precarietà lavorativa che oggi investe sempre più anche i meno giovani. La generalizzazione della precarietà lavorativa è dimostrata dai numeri impietosi. Il lavoro sta diventando sempre più discontinuo per una platea di lavoratori sempre più estesa. I contratti a termine nel secondo trimestre di quest’anno hanno subito un incremento di quasi il 5%, quasi 6 milioni di attivazioni. Nel frattempo a rallentare è stata l’attivazione dei contratti a tempo indeterminato che nel terzo trimestre del 2017 mostra un saldo negativo (-10 mila). E sarà da vedere cosa accadrà allo scadere dei tre anni dall’attivazione dei contratti a tutele crescenti a tempo indeterminato quando la decontribuzione approvata dal governo Renzi nel 2015 non rimpinguerà più le casse delle aziende. Ma già si può prevedere un ulteriore aumento dell’incidenza dei contratti precari sul totale delle posizioni lavorative.
Come non bastasse, a peggiorare le cose c’è la ridottissima durata dei contratti a termine. Basti pensare che quasi il 60% del totale dei contratti a termine ha avuto durata inferiore a 30 giorni; in più di un caso su quattro il contratto prevedeva un solo giorno di lavoro. Quando poi i contratti a termine assumono la forma del lavoro in somministrazione, cioè il vero e proprio affitto di mano d’opera, che sta crescendo notevolmente negli ultimi anni specie dopo la (finta) abrogazione dei voucher, il dramma della precarietà diventa un fardello ancora più pesante. In questo caso, infatti, il 95% dei rapporti di lavoro è previsto come di breve durata: mediamente non si supera i 12 giorni di lavoro. Ora, si rifletta sul fatto che le attivazioni di lavoro a termine hanno toccato nel 2016 il massimo storico di quasi 2,7 milioni di lavoratori, oltre mezzo milione con contratti di somministrazione e si avrà un’idea più precisa di quanto ampio sia il dramma sociale della precarietà.
Le difficoltà ad uscire dalla precarietà
Dalla condizione di precarietà, peraltro, è sempre più difficile uscire. Nella maggior parte dei casi (oltre il 70%) i rapporti di lavoro a tempo determinato di breve durata cessano al termine previsto, senza pertanto essere oggetto di proroghe o trasformazioni; solo nel 15% dei casi si prolungano con proroghe; molto esigua la probabilità che un contratto a termine si prolunghi con una trasformazione. Ma se il contratto a termine è in somministrazione, la spada di damocle della precarietà risulta anche più affilata. Per lavoratori inquadrati in questa forma contrattuale “Bassa risulta la probabilità, per un contratto di somministrazione breve, di essere prorogato per un periodo significativo o interessato da una trasformazione a tempo indeterminato” e ambire ad un contratto di lavoro stabile pare una speranza remota come una vincita milionaria alla lotteria, dato che la transizione ad un lavoro stabile è una fortuna toccata nemmeno all’1% dei lavoratori in somministrazione.
Se questa è la condizione generale del lavoro, con una precarietà che diventa sempre più generalizzata, alla quale le imprese ricorrono con sempre più intensità ed estensione coinvolgendo sempre più numerose categorie di lavoratori, la conseguenza ovvia è l’intensificazione ed estensione del ricatto. Lo si evince ad esempio dalla riduzione delle ore lavorate per occupato (che passano da 454 del terzo trimestre 2008 a 433 del secondo trimestre 2017) dovuta soprattutto alla crescita del part-time. Due elementi possono chiarire meglio.
In Italia l’incidenza dei lavoratori part time sul totale degli occupati è più che doppia rispetto alla media europea; ma soprattutto, il part time involontario incide sul totale degli occupati nel nostro Paese dell’11,8%, contro il 5,3% dell’Ue. Ciò si aggiunge all’incremento delle attivazioni a termine ed alla riduzione delle loro durata media, tale che, nonostante il numero di lavoratori coinvolti sia aumentato di 100mila unità (quindi segnando un’estensione della precarietà) è aumentato anche il numero medio di attivazioni per lavoratore, passando da 2,9 a 3,5 (mostrando una intensificazione della precarietà).
Ora, si nota che man mano che aumentano i rapporti di lavoro per lavoratore, diminuiscono i “tassi di sopravvivenza” e di “saturazione”, cioè diminuisce sia la quota di lavoratori che dopo un anno dalla data di attivazione del rapporto di lavoro risultano ancora occupati, sia la percentuale di giornate in cui il lavoratore ha un contratto attivo nell’arco dell’anno. Detta altrimenti, quanto più un lavoratore è costretto alla precarietà e ad accettare più contratti, tanto più rischia di rimanere disoccupato e di lavorare meno. Alla faccia di quanti in questi anni hanno parlato di giovani choosy (Fornero), di monotonia del posto fisso (Monti); di quelli che hanno paragonato chi chiede tutele del posto di lavoro a chi, volendo “prendere un iPhone, dice: dove metto il gettone del telefono?” (Renzi) e che per questo ha approvato le peggiori riforme del lavoro almeno degli ultimi trent’anni insieme a chi oggi è uscito dal Pd per ricostruirsi una biografia politica (Bersani, D’Alema, Speranza).
Un fallimento, per chi?
Si diceva, all’inizio, del fallimento delle politiche e delle riforme del lavoro che hanno portato a questa situazione di precarietà ed impoverimento strutturale e consolidato del lavoro e dei lavoratori. Ma in conclusione bisogna essere più precisi. Il fallimento è solo rispetto alla verbosità imbonitrice della propaganda neoliberista, che pure ha un suo ruolo nell’esercizio del dominio delle classi dirigenti e privilegiate. Per queste ultime, invece, concretamente, la situazione attuale non ha fatto altro che aumentare il loro peso nei rapporti di forza contro i lavoratori. Insomma, un successo, invece, per la classe padronale, rispetto alla quale l'attuale ceto politico dirigente svolge un ruolo rappresentativo ed esecutivo. Il lavoro è perciò di fronte ad un suo indebolimento prodotto scientemente con le riforme (particolarmente Fornero e Jobs act), alla sua precarizzazione, alla cancellazione dei diritti. Lo stesso aumento del Pil a cui si faceva riferimento all’inizio, si basa sulla crescente estensione ed intensificazione della precarietà, cioè del lavoro non tutelato e malpagato. Un Pil che si regge sull’impoverimento dei lavoratori che intanto fa crescere i profitti di pochi.
Evidentemente, per migliorare le condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone, non c'è alternativa al recupero di potere alle classi sociali più deboli e dei diritti in tutti i campi della vita, e prima di tutto dove si produce lo sfruttamento, cioè nei luoghi di lavoro.