In un libro pubblicato in Italia nel 1973 (Neocapitalismo e crisi del dollaro), in cui sono raccolti vari articoli scritti in precedenza che sono ammirevoli per la profondità di analisi e la lucidità dell’autore, Ernest Mandel riflette sulla “negazione della funzione centrale del proletariato dei paesi metropolitani nella lotta su scala mondiale contro l’imperialismo e il capitalismo” (p. 118). Come è noto, Mandel era un autorevole economista trotskista, che certo non può esser trascurato per questa ragione in una fase in cui siamo invitati a riflettere a fondo su tutta la nostra complicata e dolorosa tradizione.
Esamina con cura questa tesi perché polemizza con chi sostiene che la stabilità del sistema capitalista non può esser alterata se non sollecitata dalle rivoluzioni avvenute nei paesi ex coloniali (Lin Piao) e con chi invece ritiene che i seppellitori di esso saranno i “gruppi ai margini della società: le minoranza nazionali e razziali, i settori supersfruttati della popolazione, le nuove avanguardie giovanili”.
Queste tesi poggiano su una generalizzazione sbrigativa di fatti inconfutabili: “il proletariato occidentale è passato in secondo piano nella lotta rivoluzionaria mondiale durante gli ultimi 20 anni tra il 1948 e il 1968”, anche per le manipolazioni ideologiche cui è sottoposto. Le tesi su indicate si fondano su argomentazioni tutt’oggi valide che prendono le mosse dalle profonde trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche che hanno investito il neocapitalismo o tardo capitalismo (p. 118).
L’espressione neocapitalismo, ripresa successivamente da molti autori, è usata da Mandel per distinguere tre fasi dello sviluppo capitalistico: laissez faire, capitalismo monopolistico, e ultimo stadio di quest’ultimo, nel quale “le accelerate innovazioni tecnologiche, la guerra economica permanente, l’espansione della rivoluzione coloniale – hanno spostato la fonte principale dei sopraprofitti monopolistici dai paesi coloniali agli stessi paesi imperialisti e reso le gigantesche società più dipendenti e più vulnerabili”.
Un’altra significativa domanda posta da Mandel è questa: questo capitalismo quasi snaturato ha cambiato la sua essenza? La risposta di Mandel si articola in tre punti, che illustrerò brevemente. 1. Produzione e distribuzione della ricchezza resta basata sull’industria e sulla fabbrica. La terza rivoluzione industriale, derivata dall’estensione dell’automazione, ha dato impulso all’aumento del lavoro dipendente nell’agricoltura, nella distribuzione, nei servizi e nell’amministrazione. Si è realizzato così un vasto processo di “industrializzazione” di tutta l’attività economica e sociale; fatto che ha comportato che il lavoro dipendente “occupa più che mai il posto centrale nella struttura economica” (pp. 118-119). 2. Benché nei paesi capitalisti avanzati la classe operaia abbia migliorato le sue condizioni di vita e abbia aumentato i suoi consumi, non è stato per nulla cancellato il lavoro alienato, così come lo descriveva Marx già nei Manoscritti economici del 1844. Addirittura, si potrebbe affermare che il lavoro si è fatto ancora più alienato, in quanto si impone all’operaio non solo cosa debba produrre, ma anche cosa deve consumare, desiderare e sognare. 3. Il terzo punto è questo: “il lavoro vivo resta più che mai la sola fonte del plusvalore, la sola fonte del profitto, che è quello che fa funzionare il sistema”.
Secondo Mandel questi tratti del lavoro moderno costituiscono “le radici oggettive della sua funzione potenziale come forza principale per rovesciare il capitalismo, le radici oggettive della sua già ricordata missione rivoluzionaria”.
Secondo questa visione “ogni prospettiva di trasferire questa funzione ad altri strati sociali che sono incapaci di paralizzare la produzione di un solo colpo, che non hanno un ruolo chiave nel processo produttivo, che non sono la fonte principale del profitto e dell’accumulazione del capitale, rappresenta un passo indietro dal socialismo scientifico al socialismo utopistico…” (pp. 119-121).
La possibilità di distinguere con precisione la “classe rivoluzionaria” si è fatta più difficile per il fatto che, a seguito delle trasformazioni del sistema capitalistico, le differenze tra operaio produttivo, impiegato, improduttivo e addetto alle riparazioni semiproduttivo divengono più evanescenti e i diversi soggetti vengono integrati nel processo produttivo. Il lavoro svolto nei laboratori, nei dipartimenti di spedizione e di inventario è necessario per render possibile il consumo finale e quindi successivamente il profitto. La terza rivoluzione industriale, ossia l’automazione, dà impulso all’industrializzazione di tutti i settori economici e ciò ovviamente sollecita l’omogeneizzazione dei lavoratori, cui prima si faceva cenno.
Questa si basa su fatti quali il ridursi dei salari nei vari comparti, la somiglianza negli stili di vita, nelle condizioni di vita, l’equivalenza dei titoli di studio, il carattere monotono e ripetitivo nel lavoro in tutti gli ambiti (fabbriche, centri commerciali, amministrazione etc.). Inoltre, essa si fonda sul fondamentale processo di proletarizzazione del lavoro intellettuale, incorporato nel processo produttivo, la sua standardizzazione e uniformazione (pp. 122-124).
Gli elementi di continuità individuati da Mandel nelle varie fasi del capitalismo coincidono con la “stabilità strutturale”, che ovviamente non esclude “mutamenti congiunturali”; osservazioni simili sono presenti nella riflessione di altri studiosi.
Nel secondo dopoguerra, nella fase espansiva del capitalismo, il lavoro aveva acquisito forza rispetto al capitale, maggiori diritti, capacità di contrastare le politiche per esso svantaggiose e si era stabilita una sorta di compromesso di classe tra capitale e lavoro; “una commistione tra Stato, mercato e istituzioni democratiche che assicurasse la pace, l’allargamento della partecipazione, il benessere e la stabilità” (D. Harvey, Breve storia del neoliberalismo, 2007: cap. I). I vari Stati ricostituitisi dopo la guerra puntavano alla piena occupazione, alla crescita economica e ritenevano che il pubblico dovesse intervenire sui meccanismi del mercato, dando vita al cosiddetto embedded liberalism. I paesi del Terzo Mondo restarono esclusi da questi vantaggi e avanzamenti, che invece garantirono un certo benessere ai lavoratori dei paesi a capitalismo avanzato.
Purtroppo, ben presto tale forma di liberalismo entrò in crisi, l’accumulazione del capitale diminuiva, la disoccupazione aumentava dando impulso a una fase di stagflazione che si protrasse per tutti gli anni Settanta. In vari paesi la sinistra propose l’estensione di politiche socialdemocratiche, politiche dei redditi e persino il controllo sui prezzi e i salari. Prevalse, tuttavia, un progetto di tutt’altra natura, che ormai chiamiamo neoliberista, che mirava a potenziare la libertà di mercato per dare un’altra volta slancio all’accumulazione del capitale. A causa della disoccupazione in espansione e dell’inflazione, il malessere si acuiva sia tra i lavoratori e i diversi movimenti sociali urbani, tanto che sembrava addirittura profilarsi “un’alternativa socialista al compromesso tra capitale e lavoro”, sui cui si era basata l’accumulazione del capitale nel dopoguerra. Si tenga presente, tanto per fare un esempio citato da Harvey, che gli straricchi statunitensi (ossia l’1 % della popolazione) passarono dal 16 % del reddito nazionale a un risicato 8% nel corso di circa trenta anni dalla fine delle Seconda guerra mondiale. Continua Harvey: “Quando negli anni 70 la crescita si interruppe, i tassi di crescita reali divennero negativi e dividendi e profitti divennero irrisori”. Con l’avviarsi della neoliberalizzazione la percentuale del reddito dei paperoni è cresciuta vertiginosamente grazie alla “graduale eliminazione della tassazione sulle proprietà immobiliari e alla diminuzione delle tasse sui redditi da investimenti e sui capital gains, mentre è rimasto inalterato il prelievo fiscale su redditi e salari”.
Prendendo le mosse da questi dati e molti altri, Harvey giunge alla conclusione che la neoliberalizzazione è stata un progetto politico per ristabilire le condizioni necessarie all’accumulazione di capitale e ripristinare il potere delle élite economiche, in sostanza una controrivoluzione. Tuttavia, tale radicale trasformazione in paesi formalmente democratici e che si vantano di essere ovunque i difensori dei diritti umani non poteva essere imposta con la forza; sarebbe stato più auspicabile ed efficace integrare i valori fondamentali del neoliberismo nel gramsciano “senso comune”. Questi processi sono noti, ma è sempre bene riscoprirli. Osserva Harvey: “Perché un modo di pensare diventi dominante è necessario mettere a punto un apparato concettuale in grado di sollecitare le nostre intuizioni e i nostri istinti, i nostri valori e i nostri desideri, oltre che le possibilità intrinseche del mondo sociale in cui viviamo. Una volta rivelatosi idoneo allo scopo, questo apparato concettuale si radica a tal punto nel senso comune da apparire scontato e non essere messo più in discussione” (Harvey, 2007: La prospettiva della libertà).
Con indubitabile astuzia i fautori del neoliberalismo adottarono i concetti di libertà e di dignità individuale, gli stessi che erano stati agitati dagli studenti del 1968 in varie regioni del mondo, dai dissidenti del socialismo reale, ma anche da coloro che contrastavano tutte le forme di intervento statali che ponevano limiti alle libertà individuali, tra le quali – non dimentichiamolo – la libertà d’impresa.
Per dare maggiore risalto a questi valori i presidenti statunitensi si richiamarono addirittura all’onnipotente, come fece George Bush, il quale giustificò il suo interventismo militare affermando. “Proprio perché siamo la più grande potenza sulla terra, abbiamo il dovere di contribuire a diffondere la libertà”. E via con sanzioni, bombe, missili che violano il principio della libertà e della dignità umana, che contraddittoriamente hanno la pretesa di salvaguardare.
A questo punto qualcuno potrebbe chiedermi: cosa c’entrano i movimenti sociali, i gruppi minoritari che chiedevano e chiedono il superamento di forme sociali oppressive, per esempio la famiglia borghese, le quali ostacolano il pieno dispiegamento del desiderio, quasi questo fosse l’unica dimensione autentica che ci resta e che viene costantemente tarpata dai condizionamenti sociali?
Ahimè c’entrano, a mio parere ovviamente, e spesso hanno giocato un ruolo negativo, che si è ritorto contro quei diritti sociali che, appena conquistati, ci sono stati tolti da chi astutamente dichiarava di voler costruire una socialità più libera e più piena.
Come è noto, negli anni Settanta, soprattutto negli ambienti studenteschi e giovanili si parlava a più non posso dei diritti civili, successivamente biecamente strumentalizzati nelle “guerre umanitarie”, ci si scagliava contro lo Stato e il suo ruolo repressivo, contro il mercato e la società dei consumi per la loro capacità manipolatrice. Queste idee, spesso astratte e non sempre facilmente coniugabili con l’idea della giustizia sociale, finirono con l’essere assorbite dagli ambienti neoliberali e volte contro le legittime istanze di chi auspicava una trasformazione del sistema sociale, cogliendo l’occasione per restaurare il potere della classe capitalistica, sia pur ristrutturata e trasformata in seguito alle precedenti grandi mutazioni economiche, sociali e tecnologiche. Fu sviluppata pertanto tutta una retorica sulla libertà di scelta in particolare del consumatore (homo eligens), sulla libera adesione agli stili di vita alternativi che ha dato impulso a un libertarismo radicale, all’indagine narcisistica del proprio sé, alla perdita di ogni forma di autodisciplina e talvolta al predominio dell’onirico sul reale. Al contempo, si sono combattute tutte le forme di organizzazione collettiva, nella quali il singolo – si sosteneva – finiva solo con l’essere inghiottito, giungendo a disgregare tutto il tessuto sociale precedente e atomizzando ognuno di noi in una desolante solitudine, Insomma si è distrutto e non si è costruito nulla di alternativo, anche perché il progetto, pienamente riuscito, era quello di lasciar l’individuo solo nella negoziazione con le grandi potenze sociali, dando per scontato che nella relazione contrattuale le controparti sono uguali. Come se ciò non bastasse, le transnazionali, il cui potere economico si è ulteriormente concentrato, proprio per la loro stessa natura si sono largamente svincolate dai poteri territoriali (gli Stati), che invece di difendere i diritti dei cittadini le hanno ampiamente sostenute. Un caso emblematico è rappresentato dall’ancora vigente guerra Russia-NATO, in seguito alla quale noi paghiamo gli stratosferici guadagni del complesso militare industriale, di coloro che dominano le risorse energetiche e altre materie indispensabili alla produzione e alla sopravvivenza.
Naturalmente questa operazione di creazione di un nuovo consenso al neoliberalismo ha richiesto svariati miliardi da parte di fondazioni, istituti di ricerca, università che sono diventati semplicemente l’organo di diffusione della nuova ideologia, che attribuiva un decisivo ruolo trasformativo a questi gruppi marginali all’interno del dinamismo capitalistico, spostando la questione della trasformazione dalla dimensione economico-sociale a un fenomeno puramente culturale, puntando dunque sulla cristiana autotrasformazione interiore.
Come ricordano autori come Stuart Hall per la Gran Bretagna e Harvey per gli Usa, queste campagne ideologiche furono condotte senza nessun risparmio di mezzi e operarono a tutti i livelli della vita collettiva. Sia negli Usa che in Gran Bretagna, con il sostegno delle grandi imprese furono istituiti pensatoi come l’Intitute for Economic Affairs, la Heritage Foundation, l’Hoover Institute, l’American Enterprise Institute, che penetrarono tutta la vita sociale dell’idea neoliberista di libertà.
Purtroppo, per i suoi protagonisti la storia non procede in maniera lineare. Così come l’idea spontanea di libertà sviluppata dai movimenti sociali, che pure hanno le loro ragioni, è stata ripresa da forze ostili e impiegata a loro vantaggio, analogamente quest’uso della libertà (termine astratto e privo di specificazioni) ha costituito l’inimmaginabile propellente del suo contrario, ossia l’autoritarismo sotto il quale ci troviamo a vivere anche nella cosiddetta “democrazia reale”. Al proposito scrive ancora Harvey: “L’anarchia del mercato, della competizione e dell’individualismo sfrenato (speranze, desideri, ansie, paure individuali; scelte di stile di vita e di abitudini e di orientamento sessuale; forme di autoespressione e di comportamento verso gli altri genera una situazione sempre più ingovernabile. Può anche condurre a un crollo di tutti i legami di solidarietà e una condizione al limite dell’anarchia e del nichilismo sociale” (Harvey, 2007: La risposta neoconservatrice). E a questo punto riemergono la repressione, la coercizione, la criminalizzazione di cui si sta facendo grande uso in questi ultimi anni.