Come è noto, se sbagliare è umano perseverare è diabolico. Perciò non si può essere in buona fede pretendendo di sostenere il governo Draghi e, al contempo, dirsi dalla parte dei subalterni o sostenere di battersi per l’emancipazione dell’umanità. Basterebbe ricordare gli ultimi tragici esempi di governi tecnici, da Amato a Ciampi, da Dini a Monti, tutti governi che hanno massacrato nel modo più sfacciato i ceti sociali subalterni. Del resto, non essendo eletti da nessuno e non dovendo rispondere dei propri atti dinanzi alla sovranità popolare, tali governi non hanno avuto nemmeno bisogno di nascondersi dietro forme di rivoluzione passiva. Senza contare che i governi tecnici, avendo un sostegno di quasi tutte le principali forze politiche, non debbono tener conto dell’opposizione. Tanto più che il sostegno compatto delle forze della sinistra borghese, egemoni nei sindacati di massa neocorporativi, ha posto i governi tecnici fuori dalla portata del conflitto sociale dal basso.
Per altro l’idea stessa del governo tecnico proviene dall’ideologia positivista, cioè l’ideologia generalmente dominante nelle società capitaliste. Alla base di tale ideologia vi è la concezione corporativa per cui salariati e industriali avrebbero gli stessi interessi. Perciò la lotta non dovrebbe più essere fra capitale e forza-lavoro, ma contro i residui dei modi di produzione precedenti. Secondo tale ideologia vi sarebbe bisogno di uno Stato in cui a governare siano i competenti, superando così gli inutili conflitti sorti dalla libertà individuale, di parola, di pensiero e dalla stessa democrazia: dal momento che nella moderna società scientifica postmetafisica ad avere voce in capitolo debbono essere i soli competenti. Le opinioni individuali così perdono qualsiasi significato, come in ogni ambito scientifico proprio della modernità. Tanto meno ha valore la posizione della maggioranza necessariamente composta in prevalenza da incompetenti. Dunque vi sarebbe bisogno di costruire una società organica, in cui manager e banchieri costituirebbero la mente e i salariati gli arti. Del tutto insensata sarebbe la pretesa di un arto di non obbedire passivamente alle direttive del cervello. Per cui ogni forma di opposizione andrebbe considerata come un cancro, ovvero un corpo estraneo all’organismo sociale e statuale da eliminare, da estirpare prima che rischi di contaminare componenti importanti dell’organismo statuale. Al governo sarà dunque l’aristocrazia del denaro, dal momento che quest’ultimo è il segno tangibile del progresso e di un regime finalmente meritocratico. Del resto, anche dal punto di vista religioso funzionale alla classe dominante, dal momento che tutto non può che essere prodotto dalla volontà divina, il successo nella società civile è segno di elezione, mentre le masse degli sfigati incapaci di affermarsi non sarebbero altro che una massa destinata alla dannazione. Perciò diviene necessario che lo Stato non si curi dei più deboli, in quanto la stessa specie non può che evolversi con la riproduzione dei soli elementi maggiormente in grado di adattarsi a un habitat sociale naturalizzato. Dal momento che ormai la storia, le guerre e le crisi sarebbero residui di un passato destinato a non ritornare, visto che le leggi del mercato sarebbero le uniche razionali, dunque naturali per l’uomo in quanto animale razionale e anche divine, dal momento che dio è l’artefice di tutto. Da qui il pressing dei grandi sacerdoti dell’ideologia dominante affinché la stessa Meloni si adegui alla necessità progressiva del governo tecnico. Da qui la vanità di qualsiasi veto o distinguo politico, visto che il mandato del capo dello Stato – per definizione la personalità laica maggiormente autorevole – è proprio di formare un governo al di sopra di ogni contrasto politico, dal momento che di conflitto sociale ed economico sembra non sia più nemmeno il caso di parlare, se non si vuole venir considerati veteromarziani.
Non è un caso che il primo apologeta del capo dello Stato che ha affidato l’incarico di formare il governo a un banchiere – grande protagonista della svendita ai privati del patrimonio pubblico, che ha imposto il massacro sociale del governo Monti e che ha martirizzato il popolo greco, colpevole di aver creduto possibile proporre una alternativa – è il più illustre rappresentante del sindacato neocorporativo. Quest’ultimo, dal solito salotto televisivo, senza bisogno di confrontarsi con nessuno o di riflettere un momento, ha dato immediatamente la propria benedizione, a caldo, sostenendo che la scelta del capo dello Stato era la migliore possibile. Sebbene l’idea stessa di un governo del presidente andrebbe considerata eversiva, in quanto volta a trasformare la liberaldemocrazia sorta con la Costituzione in uno Stato presidenzialista, tipica espressione del cesarismo regressivo, non a caso ultimo obiettivo della Loggia massonica P2 non ancora realizzato, dopo che il suo programma controrivoluzionario è stato, infine, reso pubblico.
Peraltro, il più popolare sindacalista, sino a qualche anno fa considerato, anche dai più incalliti trotskisti, l’unico leader in grado di rilanciare dal punto di vista politico la sinistra di classe, è riuscito a dimostrarsi ancora più egemonizzato dall’ideologia dominante, cioè dalla voce del padrone, degli stessi ultraliberisti esponenti del Pd, vanamente impegnati fino all’ultimo per evitare gli effetti catastrofici di un nuovo governo tecnico.
Ancora più clamorosamente e sfacciatamente neocorporativa è stata la giustificazione data dall’esimio sindacalista del suo amore a prima vista per un governo di un banchiere neoliberista, il più autorevole rappresentante dei poteri forti nazionali e transnazionali: l’irresistibile distopica nostalgia per la concertazione inaugurata dal precedente governo tecnico del banchiere Ciampi. La concertazione, quale forma più attuale del neocorporativismo – che brama il nostro esimio dirigente sindacale, pur nella consapevolezza che un tale miracolo oggi non sarebbe più replicabile – si è inaugurata con uno dei più feroci massacri sociali che la storia del nostro paese ha conosciuto.
Del resto, l’obiettivo di ogni buon burocrate neocorporativo è di essere invitato ai tavoli concertativi dai più significativi nemici di classe, per sottoscrivere l’ennesima capitolazione onorevole, senza aver dovuto spendersi minimamente per sostanziare una qualche pur minima rivendicazione, sulla base di uno straccio di conflitto sociale.
Per affiancare a questo indispensabile pessimismo realistico della ragione l’altrettanto irrinunciabile ottimismo della volontà, animato dal sacrosanto spirito dell’utopia, non si può fare a meno di considerare che un governo smaccatamente oligarchico, espressione esemplare di tutte le componenti – anche le più sinistre – del partito dell’ordine borghese, apre praterie alla sinistra di classe, pronte a incendiarsi se solo si fosse in grado di produrre l’indispensabile scintilla. Sapranno i rappresentanti politici e sindacali delle classi subalterne sfruttare questa ennesima occasione per rilanciare, dopo anni di sostanziale latenza, un sano e consapevole conflitto sociale dal basso? Anche in questo caso il perseverare negli stessi errori non potrebbe che essere considerato diabolico.
Il rischio principale è quello di cadere, per l’ennesima volta, nel riflesso condizionato burocratico di pensare essenzialmente a mantenere in piedi la propria struttura, limitandosi – come ormai di consueto – al proprio ruolo di rappresentare una opposizione di mera testimonianza. In altri termini, si potrebbe parlare di un vero e proprio complesso di Cassandra o del grillo parlante, incapace di comprendere che, come non a caso si dice, la “ragione è dei fessi”.
Si tratterebbe, dunque, di abbandonare finalmente lo spirito donchisciottesco da uomo della virtù destinato immancabilmente a essere sconfitto dall’uomo del corso del mondo. In altri termini sarebbe necessario un sano bagno di realismo, ricordando che nel conflitto sociale – motore della storia in una società classista – ciò che conta effettivamente sono i rapporti di forza che si è in gradi di mettere in campo.
Da questo punto di vista bisognerebbe avere il coraggio di abbandonare le proprie abituali piccole ambizioni, di mera autoconservazione del proprio esistente – preoccupandosi essenzialmente del proprio particulare –, per sviluppare le grandi ambizioni di chi si impegna effettivamente nel processo di trasformazione del mondo.
A questo scopo diviene indispensabile operare in funzione della ricostruzione del moderno principe in grado di costruire un blocco sociale alternativo e credibile, in quanto non più egemonizzato dalle distopie della piccola borghesia – che vagheggiano il ritorno a una presunta età dell’oro del capitalismo – ma dal proletariato, unica classe in sé rivoluzionaria. Naturalmente non si deve cadere nel tipico errore dell’anarchico piccolo-borghese populista, che considera in modo infantile l’essere in sé come se fosse, in quanto tale, l’essere per sé. Come se l’oppressione, lo sfruttamento, l’ingiustizia provocassero da sé il loro superamento rivoluzionario. Da qui l’illusoria scorciatoia di sviluppare un populismo di sinistra che solo permetterebbe di porsi alla guida dei subalterni in quanto tali rivoluzionari. Al contrario i subalterni sono tali non solo perché sono oppressi e sfruttati dalle classi dominanti, ma anche perché sono egemonizzati – in quanto privi di una visione del mondo realmente alternativa – dall’ideologia dominante. In tal modo, consentono ai ceti dominanti di mantenere il proprio dominio con il supporto attivo o passivo degli stessi ceti subalterni.
Del resto, se non c’è teoria rivoluzionaria non può esserci prassi rivoluzionaria. Purtroppo la teoria rivoluzionaria non nasce spontaneamente dalle condizioni di oppressione e sfruttamento. Perciò lo spontaneismo privo di una direzione consapevole può portare al massimo al tradeunionismo o alle jacqueries, come ci hanno ampliamente dimostrato, ancora una volta, le primavere arabe.
D’altra parte, una direzione consapevole, per essere tale, deve dimostrarsi in grado di conquistarsi il ruolo di avanguardia all’interno di movimenti spontanei di massa. Delle avanguardie prive di un largo seguito rischiano di rimanere i soliti ciarlieri generali senza esercito.
Peraltro, la riedizione del governo tecnico di unità nazionale non potrà che favorire lo sviluppo di quei presupposti oggettivi che sono la conditio sine qua non di ogni reale soggettività rivoluzionaria. Quest’ultima naturalmente non sorge per partenogenesi, né può essere considerata idealisticamente come un prodotto coscienziale. Anche in tal caso determinanti saranno non le aspirazioni soggettive, mai i fatti che si è oggettivamente in grado di produrre, anche perché l’unico giudizio universale non può che rimanere quello della storia.
Ora fra proletari e lavoratori dipendenti è spontaneamente presente la correlazione fra governo tecnico del grande capitale finanziario e necessità di mettere mano al portafoglio, da parte di chi è stato sempre costretto a pagare il conto in queste situazioni. D’altra parte, abbiamo visto nuovamente come i mezzi di comunicazione di massa si sono immediatamente messi all’opera, come un solo uomo, per mistificare ideologicamente il sano buon senso presente nelle classi subalterne. Perciò, anche in questo caso sarà necessario attrezzarsi per una logorante guerra di posizione per cercare di strappare al nemico le casematte della società civile indispensabili per riuscire a mettere in discussione la capacità di egemonia della classi dominanti sui ceti subalterni.