Anche se nelle elezioni per il parlamento europeo non è possibile presentare liste transnazionali, in questa direzione si muove esplicitamente dal 2016 DiEM25, ovvero Il Movimento per la democrazia in Europa 2025, lanciato dall’ex ministro delle finanze greco Varoufakis, cui hanno aderito De Magistris e il movimento Generation S, lanciato dall’ex leader del partito socialista francese Hamon. A tale iniziativa hanno tentato di rispondere il 12 aprile il Bloco de Esquerda portoghese, France Insoumise di Mélenchon e gli spagnoli di Podemos lanciando a loro volta, anche in funzione delle elezioni europee previste per il prossimo anno un “movimento comune”. Come base programmatica le tre organizzazioni hanno steso una dichiarazione firmata a Lisbona.
Tale intento unitario è importante in particolare per France Insoumise e Podemos che non fanno parte del Partito della sinistra europea. D’altra parte il coordinamento a livello europeo di queste due forze risulta piuttosto complicato, dal momento che mentre Podemos mira a rappresentare una “alternativa democratica, popolare e in favore dei diritti umani e della sovranità popolare”, ma tutta interna al processo di unificazione europea, France Insoumise mira ad una “uscita concertata dai trattati europei” con il fine di rinegoziare nuove “regole”, ma al contempo, in caso di mancato successo di questo piano A, ha previsto un “piano B”, ossia la “uscita della Francia dai trattati europei”.
Dal momento che Podemos non intende prendere in considerazione il “piano B”, questo tratto caratteristico della politica europea della formazione di Mélenchon è stato omesso dalla dichiarazione di Lisbona. In tal modo, però, quel delicato equilibrio che era stato individuato affiancando al “piano A” un “piano B”, che aveva permesso una convivenza pacifica anche in Italia a formazioni della sinistra radicale “filo-europee” e “anti-europee” appare compromesso, dall’esigenza di France Insoumise di non farsi richiudere in un ambito sovranista dinanzi alla prospettiva paneuropea di Generation S.
In tal modo si sono venuti a costituire due movimenti delle forze della sinistra europea le cui prospettive rischiano di apparire, ai non addetti ai lavori, analoghe, tanto che persino Sinistra Italiana, volendo schierarsi a sinistra dei socialisti europei, guarda con interesse a entrambi i progetti. Inoltre non prevedendo nemmeno come piano di riserva la possibilità di una rottura con l’Unione europea si rischia di lasciare ulteriore spazio alle forze populiste che accrescono i loro consensi dal momento che le classi popolari sentono sempre più sulla loro pelle il peso delle politiche di austerità imposte dall’Ue e avvertono come utopistico il progetto di una sua democratizzazione. Infine l’abbandono del precario equilibrio rappresentato dalla posizione di Mélenchon, potrebbe produrre più che una necessaria ricomposizione in vista delle prossime elezioni europee delle forze antagoniste al capitalismo, un’ulteriore frammentazione fra “sovranisti” ed “europeisti”.
Quest’ultimo rischio pare per il momento scongiurato per quanto concerne Potere al popolo! (PaP). Appena tre giorni dopo la dichiarazione di Lisbona, era possibile leggere in evidenza sul sito di Pap: “la nostra adesione all’appello di Podemos, France Insoumise e Bloco De Esquerda”.
La questione, che sorgerebbe immediatamente in chi non conosca la complessa logica da inter-gruppi che presiede alle decisioni in PaP, è quale popolo abbia avuto la possibilità di riunirsi e deliberare in tre giorni questa adesione senza riserve a: “un appello importantissimo, proposto da tre delle forze popolari e di alternativa più grandi d’Europa, a cui non possiamo sottrarci”. Il non addetto ai lavori, a questo punto, dubiterebbe che una presa di posizione su una questione così importante e spinosa sia stata presa secondo lo spirito di una formazione che si autodefinisce Potere al popolo!, ossia che attraverso un ampio dibattito democratico che abbia coinvolto il popolo di PaP e in cui un’ampia maggioranza si sia espressa a favore dell’adesione incondizionata. Tanto più che nello stesso post si tiene a rimarcare nuovamente che “Potere al popolo! è nata per restituire la sovranità democratica al popolo, alla maggioranza”.
Presumibilmente si sarà deciso di aderire immediatamente e senza riserve per la necessità di mantenere buoni rapporti con quelle forze della sinistra europea che, come Podemos e France Insoumise, hanno riconosciuto PaP come un importante referente della sinistra radicale italiana. Inoltre si sarà scelto di non aprire un’ampia e democratica discussione che coinvolgesse la base per non mettere in difficoltà la complessa logica di inter-gruppi, con posizioni su diverse questioni cardine discordanti, che ha sinora ha diretto Pap. Per questo nell’adesione all’appello si è scelto di evidenziare gli aspetti più avanzati della dichiarazione, piuttosto che ragionare sugli elementi deboli e/o problematici. Anzi si è inserito un necessario: “Dobbiamo rompere i trattati militari che ci vincolano ad una follia guerrafondaia che non condividiamo” di cui purtroppo non c’è traccia nell’appello.
Del resto anche questo giornale nel numero precedente ha fatto una scelta analoga, ossia di tradurre subito la dichiarazione sottolineandone in modo volutamente unilaterale gli aspetti più avanzati. Adesso, però, ci pare giunto il momento di approfondire la riflessione ed evitare che le contraddizioni reali ora messe a tacere non riesplodano in maniera deflagrante nel momento in cui ci si troverà a definire la linea per le elezioni europee. Perciò, altrettanto unilateralmente, ci concentreremo sugli aspetti contraddittori.
In effetti sin dal titolo la dichiarazione prende una posizione quanto meno discutibile: “Dichiarazione per una rivoluzione cittadina in Europa”, nelle versioni portoghese e francese, “per una rivoluzione democratica” nella versione spagnola. In entrambi i casi si sceglie di riferirsi, in modo esplicito e diretto nella traduzione spagnola, in modo indiretto nella versione portoghese e francese, a una tradizione politica ben distinta da quella socialista comunista, ovvero alla tradizione democratica, tesa a rivendicare essenzialmente i diritti di cittadinanza, ossia i diritti del citoyen astraendo dal bourgeois, ovvero dalle differenze socio-economiche che sono alla base della visione del mondo marxista.
Si tratta dunque di una “rivoluzione” esplicitamente rivolta alla conquista dei diritti politici, di cittadinanza propri della tradizione democratica che si muove nell’orizzonte idealistico delle sovrastrutture, piuttosto che mirare a risolvere le problematiche legate alle strutture materiali, sociali ed economiche. Ma è appunto dando a queste ultime la priorità che lo stesso Marx, a partire da La questione ebraica, ha preso le distanze dalla posizione democratica per rifondare la tradizione comunista.
In secondo luogo si circoscrive questa “rivoluzione” all’ambito europeo, ovvero in una prospettiva eurocentrica che esclude necessariamente i continenti extraeuropei (e rischia anche di escludere gli immigrati privi dei diritti di cittadinanza), quindi una prospettiva ben diversa da quella internazionalista della tradizione marxista e comunista che mira all’unione non dei cittadini democratici europei, ma dei lavoratori di tutto il mondo.
A questo proposito appare quanto meno contraddittorio il seguente passaggio: “Lanciamo un appello ai popoli d’Europa perché si uniscano alla sfida di costruire un movimento politico internazionale, popolare e democratico per organizzare la difesa dei nostri diritti e la sovranità dei nostri popoli”. Dunque, si fa appello ai popoli d'Europa per costruire un movimento politico internazionale che, evidentemente, non prende in considerazione la necessità di rivolgersi anche ai popoli o agli immigrati extra-europei che, per altro, essendo da secoli vittime del colonialismo, imperialismo, e neocolonialismo europeo, sono presumibilmente il più “naturale” soggetto rivoluzionario, in quanto quello che più di chiunque non ha altro “da perdere che le proprie catene”.
Subito dopo troviamo nella dichiarazione un passaggio che si sarebbe portati a considerare un’infelice formulazione, se non fosse confermato da tutte e tre le traduzioni del testo: “L’applicazione dogmatica, irrazionale ed inefficace delle politiche d’austerità non è riuscita a risolvere nessuno dei problemi strutturali causati da questa crisi”. Innanzitutto sembra essere la crisi ad aver prodotto dei problemi strutturali e non, al contrario, come dovrebbe essere in un’ottica marxista, i problemi strutturali del modo di produzione capitalistico a produrre necessariamente questa crisi di sovrapproduzione. Inoltre, con un bizzarro rovesciamento del rapporto fra causa ed effetto, si asserisce che è stata “l’applicazione dogmatica, irrazionale ed inefficace delle politiche d’austerità” a non risolvere i problemi economici prodotti dalla crisi, come se un’applicazione efficace, meno dogmatica e più razionale delle medesime politiche avrebbe potuto risolvere i problemi strutturali del modo di produzione capitalistico, non risolvibili al suo interno.
Quindi, invece di denunciare le politiche di austerità in quanto strumento mediante cui la classe dominante – che imponendo questo sistema di produzione, ormai in sé irrazionale, è responsabile della crisi – ne intende far pagare i costi negativi alle classi subalterne, si sostiene che una diversa applicazione possa risolvere i problemi prodotti dalla crisi. Qui, presumibilmente, vi è la necessità, da parte del Blocco di sinistra portoghese, di difendere la propria scelta di sostenere il governo dei socialisti portoghesi che sta portando avanti una politica proprio volta ad applicare in modo non dogmatico, irrazionale e inefficace le politiche di austerità imposte dai trattari europei.
Ora non intendiamo affrontare in questa sede la scelta del Blocco di sinistra di sostenere il governo dei socialisti che non intendono mettere in discussione le politiche liberiste alla base dei trattati europei. Ci sembra però quantomeno discutibile fare di necessità virtù, ossia confondere il fatto che in Portogallo la sinistra radicale si è trovata a dover sostenere un governo che porta avanti una politica di austerità dal volto umano – visto che magari il proletariato portoghese non avrebbe compreso l’esigenza di contrastare dall’opposizione le politiche liberiste applicate in modo “dogmatico, irrazionale e inefficace” dai precedenti governi anche a guida socialista – con il proporre quale obiettivo su cui unificare la sinistra radicale europea un neoliberismo eretico, razionale e, quindi, efficace. Tanto più che questa presa di posizione appare in stridente contraddizione con la richiesta della stessa France Insoumise di espellere Syriza dalla Sinistra europea.
Proseguendo nella lettura, ci imbattiamo subito in un altro passaggio quantomeno controverso, visto che si sostiene che le politiche liberiste hanno colpito “i più vulnerabili”, che sarebbero quelli “che hanno più bisogno della politica e dello Stato”. Al di là del fatto che non si specifica di quale politica si tratti, come se la politica fosse in sé buona mentre l’economia in sé cattiva – secondo la concezione politicista dei democratici sempre rivolta al cielo delle sovrastrutture per paura di sporcarsi le mani con le strutture economiche e sociali – colpisce che sarebbero proprio i ceti subalterni ad avere più bisogno dello Stato in quanto tale. In tal modo si fa propria la concezione statolatrica della tradizione idealistica hegeliana e democratica, di contro alla quale si è sviluppata la concezione fondata sul materialismo storico del marxismo secondo la quale lo stato è, e sempre sarà, in una società divisa in classi, uno strumento al servizio della classe dominante per garantire il suo dominio e sfruttamento a danno delle classi subalterne.
Evidentemente, muovendosi in un ambito concettuale prettamente democratico si tende a considerare la politica e lo Stato, il regno astratto del citoyen, come l’ambito della libertà, in contrapposizione al mondo economico del bourgeois in cui in qualche modo lo sfruttamento viene dato per scontato, quasi si trattasse di un fatto naturale. Sarebbe quindi giunto il momento che “coloro che credono nella democrazia” – perdendo di vista che sino a quando ci sarà lo Stato la democrazia sarà possibile solo all’interno della classe dominante – mettano “un sistema economico ingiusto, inefficace e insostenibile al servizio della vita e sotto il controllo democratico dei cittadini” o “della cittadinanza”, secondo la versione spagnola.
A questo punto, viene il dubbio se i firmatari si siano dati il tempo necessario per riflettere su quanto sottoscrivevano, perché in caso contrario sarebbe davvero preoccupante ritenere che “un sistema economico ingiusto, inefficace e insostenibile”, ossia quello capitalista e neoliberista alla base dell’UE, possa essere posto “al servizio della vita e sotto il controllo democratico dei cittadini”. Nel sistema capitalista, e ancora di più nella sua versione neoliberista, i mezzi di produzione sono proprietà della ristretta classe dominante e non potranno mai essere posti sotto il controllo dei cittadini. Tanto più assurdo è ritenere che il sistema capitalista, per altro nella sua variante neoliberista – fissata da trattati dell’Ue cui è praticamente impossibile mettere mano, se non in una situazione rivoluzionaria – possa essere messo “al servizio della vita”. Anche su questo punto decisivo le tre traduzioni concordano, mentre il sito del Prc aggiunge nella sua traduzione: “un sistema oggi ingiusto, inefficace e insostenibile”. Dove è appunto sottolineato con il termine oggi, che abbiamo messo in neretto – assente nel testo spagnolo, portoghese e francese – che il sistema economico dell’UE è solo attualmente insostenibile ecc. D’altra parte, il sostenere che l’attuale modello economico una volta posto “al servizio della vita” debba essere messo sotto “il controllo dei cittadini” o “della cittadinanza” sembra indicare la necessità di andare nella direzione degli Stati uniti di Europa che, in mancanza di una rivoluzione socialista, di cui nel testo non c’è traccia, non potrebbero che mantenere l’attuale attitudine imperialistica e neocoloniale nei confronti dei paesi dell’ex terzo mondo.
Per sottolineare ancora una volta a chi intende rivolgersi questa dichiarazione, ovvero per ribadire a quale tradizione politica ci si richiami, verso la fine del documento si legge: “Quelli che vogliono la difesa della democrazia economica, (…) della democrazia politica, (…) della democrazia femminista, (…) della democrazia ecologista, (…) della democrazia internazionale e della pace, (…) coloro che condividono la difesa dei diritti umani (…) troveranno in questo movimento la loro casa”. A questo punto verrebbe da chiedersi se anche chi ha, invece, una visione marxista del mondo, chi si richiama alla tradizione socialista e comunista propria del movimento operaio e proletario possa egualmente trovare in tale movimento, fondato su tali presupposti ideologici, “la propria casa” o quantomeno sentirsi a casa. Verrebbe, quindi, da chiedersi a quale classe sociale e a quale tradizione ideologica e politica intenda rivolgersi questo movimento, che non a caso pone come prima, e per il momento unica, campagna comune la lotta all’evasione fiscale. Si tratta evidentemente di una questione sulla quale, almeno a parole, sono d’accordo tutti o quasi, ma di difficile realizzazione se non in un’ottica governista e politicista al quanto distante dai bisogni immediati dei lavoratori salariati, legati piuttosto alla lotta per il salario e per la riduzione dell’orario di lavoro in modo da riassorbire la disoccupazione.
A ulteriore riprova che il movimento abbia solo un piano A, e rinunci quindi alla stessa possibilità di un piano B, vi è la frase conclusiva della dichiarazione: “Mettiamoci all’opera per costruire un nuovo progetto di organizzazione per l’Europa. Un’organizzazione democratica, giusta ed equa che rispetti la sovranità dei popoli”. A questo punto non possiamo che tornare alla questione di partenza, ovvero se una tale dichiarazione e un tale movimento possa davvero apparire come alternativo, dinanzi alle masse popolari cui si fa appello, rispetto a DiEM25 che punta ad una riforma delle istituzioni dell'Unione europea per creare una “democrazia piena e compiuta, dotata di un Parlamento sovrano che rispetti l'auto-determinazione nazionale e condivida il potere decisionale con i parlamenti nazionali”.