Dopo che l’Unione sovietica di Gorbaciov abbandonò al suo tragico destino il governo guidato dai comunisti afghani filosovietici, questi ultimi furono in grado di mantenere il potere per altri tre anni prima di essere travolti dalle forze fondamentaliste. Queste ultime, sebbene sostenute direttamente da Pakistan, Arabia Saudita e Turchia e indirettamente da Stati Uniti e Repubblica popolare cinese, dovettero dunque impiegare tre lunghi anni per abbattere un governo totalmente isolato a livello internazionale, tanto che anche i suoi alleati interni finirono con il tradirlo. Al contrario, nonostante gli Stati Uniti avessero annunciato il completamento del loro ritiro l’undici settembre, già a metà agosto l’Afghanistan è finito sotto il controllo dei talebani, salvo piccolissime sacche di resistenza. Occorre inoltre ricordare che quando venti anni fa la più grande coalizione di tutti i tempi – capitanata dalla Nato – aggredì l’Afghanistan, i talebani controllavano circa i tre quarti del paese, ovvero la zona abitata in prevalenza dalla loro etnia d’origine, mentre il nord del paese, abitato da minoranze etniche era rimasto fieramente indipendente e rappresentava la principale resistenza interna al dominio talebano. Senza contare che nella loro rapidissima conquista i talebani hanno avuto il supporto del solo Pakistan, mentre il governo collaborazionista afghano aveva l’appoggio della più potente coalizione militare di tutti i tempi e dell’intero schieramento dei paesi imperialisti.
Perciò la fuga precipitosa da Kabul, occupata senza colpo ferire dai talebani – nonostante che fino a pochi giorni prima lo stesso presidente degli Stati Uniti assicurasse la tenuta del governo filo occidentale – ha rappresentato una débâcle dell’imperialismo, per alcuni aspetti più clamorosa del precipitoso ritiro dal sud del Vietnam. Così, persino il blindatissimo TG1 ha apertamente posto sullo stesso piano la fuga da Kabul con quella da Saigon, Angela Merkel ha parlato di una storica sconfitta della Nato e il presidente della Germania l'ha definita una clamorosa sconfitta dell’occidente. Certo, in tali prese di posizione del più potente paese imperialista europeo c’è anche l’interesse a scaricare le gravissime responsabilità della débâcle principalmente sugli Stati Uniti, da cui la Germania mira a divenire anche militarmente più indipendente, al fine di modificare i rapporti di forza nel latente conflitto inter-imperialista. La stessa dura condanna di mass media da sempre filo-imperialisti è presumibilmente condizionata dalla volontà di scaricare il peso della sconfitta sull’amministrazione Biden che purtroppo rappresenta, nell’immaginario comune, la sinistra statunitense. D’altra parte è innegabile che la rapidissima riconquista del paese quasi senza combattere da parte dei talebani, dopo venti anni che i paesi imperialisti si erano impegnati a rafforzarne, armarne e addestrarne l’esercito – che sarebbe dovuto rimanere fedele al governo collaborazionista, sostanzialmente da essi imposto – rappresenta una storica sconfitta per l’imperialismo occidentale e, in primo luogo, per gli Stati Uniti. Tanto che persino “Il manifesto” pone fra i sostenitori dei talebani – in funzione naturalmente antimperialista aggiungeremo noi – la Russia e la Repubblica popolare cinese.
In realtà, come è stato fatto notare, peraltro sulle stesse pagine de “Il manifesto”, difficilmente le grandi basi Nato costruite in Afghanistan saranno smantellate, almeno nel breve periodo. Inoltre, la vittoria dei fondamentalisti islamici sunniti rischia di fomentare la lotta separatista portata avanti dal radicalismo islamico tanto in Russia quanto in Cina, senza contare che costituisce una ulteriore minaccia contro lo sciita Iran. Tanto che si è arrivati a sostenere che, in realtà, quella dell’imperialismo e – in primo luogo degli Stati Uniti – sarebbe stata una ritirata sostanzialmente tattica, funzionale a favorire l’ascesa al potere di un governo che avrebbe creato non pochi problemi ai principali antagonisti della Nato, ossia a Russia, Repubblica popolare cinese e Iran. Peraltro compagni della nostra redazione e non solo hanno argutamente denunciato che quanto avvenuto in Afghanistan fa parte della strategia da tempo elaborata dall’imperialismo statunitense per creare il caos e mettere a terra quei paesi islamici che – dopo la fine della guerra fredda – erano sembrati costituire il principale antagonista internazionale da piegare.
In realtà tutte queste posizioni, sebbene apparentemente contraddittorie, costituiscono indubbiamente un aspetto importante della realtà effettuale che – come sappiamo dai tempi di Platone, o quantomeno di Hegel – è una totalità in se stessa contraddittoria. Solo chi pensa astrattamente non è in grado di cogliere la realtà nella sua complessità, nelle sue diverse sfaccettature. D’altra parte è evidente che ciò non significa che ogni aspetto del reale abbia la stessa importanza e lo stesso peso. È, in effetti, sempre indispensabile saper individuare gli aspetti che hanno un peso maggiore, differenziandoli da quelli che hanno una valenza tutto sommato secondaria.
Ora sembra evidente – nonostante che questa, in realtà, non sia una sconfitta veramente storica e tantomeno definitiva per l’imperialismo – che è proprio quest’ultimo, insieme al governo fantoccio afghano, a risultare il principale sconfitto. Più precisamente, oltre ai “quisling” locali, i principali sconfitti sono l’imperialismo americano e, in modo ancora più specifico, la sua attuale versione democratica capitanata da Biden, messo sotto accusa ormai anche da quei grandi giornali che lo avevano sostenuto contro Trump e che ora l’accusano di non aver tenuto conto di tutti i rapporti dell’intelligence, continuando ad assicurare la tenuta del governo collaborazionista. Certo, anche in questo caso, è probabile che l’affondo contro Biden sia funzionale a rafforzare i repubblicani, rendendo alle prossime elezioni l’attuale presidente un’“anatra zoppa”, costretta a non far alcun tipo di concessione alla temuta ala sinistra del partito, che si dichiara socialista. Ma anche questo, per quanto rilevante, resta un aspetto tutto sommato secondario. Anche perché l’errore principale imputabile a Biden è stata la mancata discontinuità con la politica, anche in questo caso spaventosa, portata avanti dal suo predecessore Trump, pronto nei fatti a ritirarsi lasciando campo libero ai talebani, pur di poter uscire dal pantano in cui gli Stati Uniti si trovavano in Afghanistan. Tanto più che (altro elemento contraddittorio, come hanno fatto notare diversi acuti analisti) vi è una sostanziale continuità nelle politiche degli ultimi governi statunitensi, dovuta al fatto che lo “Stato profondo”, che in realtà detta la linea di fondo, è interessato a considerare il nuovo nemico globale – in grado di riunire l’imperialismo occidentale, e di mantenere l’indispensabile (alla stessa sopravvivenza del sistema) apparato militare-industriale – la Cina e la Russia e non più il radicalismo islamico. Da qui la politica bipartisan di progressivo ritiro da Iraq, Afghanistan e Siria, per concentrare meglio le forze sui principali competitori sul piano internazionale. Tanto più che gli Stati Uniti, grazie alla devastante pratica del fracking, da importatori di petrolio sono divenuti degli esportatori.
D’altra parte, consapevole della propria sostanziale sconfitta, l’imperialismo europeo si vede costretto ora a cercare di negoziare anch’esso con i nuovi dominatori, i talebani, anche perché è letteralmente terrorizzato da una nuova spaventosa ondata di profughi dal paese, che riproduca quella catastrofica situazione creatasi nel 2015 con la fuga in massa dalla guerra in Siria, che aveva enormemente rafforzato le forze populiste-sovraniste e messo in discussione la stessa sopravvivenza dell’Unione europea. Questo è un altro aspetto decisivo finalmente emerso a seguito del trionfo dei talebani, ovvero che le reali problematiche create da ondate migratorie di massa sono dovute, in primissimo luogo, proprio alle politiche imperialiste volte a prendere il controllo o a far precipitare nel caos quei paesi islamici che in un modo o nell’altro non si allineavano al nuovo “ordine mondiale” creato dalla guerra fredda. Quindi sono proprio le forze sostenitrici dello scontro di civiltà con il mondo islamico ad aver creato le ingestibili crisi di profughi sulle quali poi, proprio tali forze hanno demagogicamente e cinicamente lucrato, per occultare il loro essere al servizio di un’oligarchia sempre più ristretta.
D’altra parte, sul piano internazionale, a festeggiare in modo più aperto la ingloriosa caduta del governo fantoccio di Ghani – denunciandone le ultime tragicomiche malefatte – è stata la Russia, l’unico paese in grado di tenere testa, grazie all’eredità sovietica, sul piano militare, allo strapotere dell’imperialismo dopo la fine della guerra fredda. Inoltre, insieme alla Russia, ad aprire subito trattative con la nuova leadership talebana sono stati, non a caso, Cina e Iran, tanto che a differenza dell’Italia – che ha immediatamente sgomberato la propria sede diplomatica – i tre principali competitori internazionali dell’imperialismo hanno mantenuto aperte le proprie ambasciate.
Certo, nessuno dei tre paesi si è ancora posto il problema di riconoscere il governo talebano – a dimostrazione che sono sostanzialmente fake news quelle che accusano Russia e Cina di essere state, insieme al Pakistan, i principali sponsor dei talebani. Del resto la Cina ha mantenuto fino all’ultimo aperti i rapporti diplomatici con entrambi i contendenti, anche perché la principale potenza economica mondiale ha bisogno, in primo luogo, di stabilità per consentirle di consolidare il proprio primato con la costruzione della via della seta. Anzi, uno dei fattori principali che ha convinto i governi statunitensi a trattare con in talebani, nonostante le vibranti proteste del governo Ghani, era il fatto che il governo afghano si dimostrava sempre più sensibile agli accordi economici con la Repubblica popolare.
Patetiche e palesemente fake news sono state le giustificazioni messe rapidamente in piedi dalla leadership degli Stati Uniti per cercare di giustificare questa davvero misera conclusione della guerra in Afghanistan. Buttando letteralmente alle ortiche la narrazione ufficiale utilizzata ripetutamente negli ultimi anni per giustificare rovesci di governi non allineati o aggressioni a paesi oggettivamente antimperialisti, i massimi dirigenti statunitensi hanno ripetuto all’unisono di non essere intervenuti in Afghanistan per esportare democrazia e diritti umani, ma piuttosto per sconfiggere la rete terrorista Al-Qaeda. Una scusa così patentemente falsa, ripetuta dai principali esponenti degli Stati Uniti, dimostra lo stato confusionale in cui si trova la principale potenza mondiale, dopo questa catastrofica figuraccia fatta sul piano globale. Peraltro tale magra figura rischia di avere effetti catastrofici, dal momento che il signoraggio del dollaro – che mantiene in vita il paese più indebitato a livello globale – si regge sul fatto che gli Stati Uniti sono divenuti, dopo la controrivoluzione in Urss, l’unica grande potenza militare sul piano internazionale (sebbene la crescente alleanza fra Russia, Cina, Iran e Venezuela la metta sempre più pericolosamente in discussione, rendendo decisiva la tenuta della Nato). Non si può certo ignorare che l’invasione dell’Afghanistan, oltre a rafforzare a medio termine il dominio dei talebani – ora di fatto esteso all’intero paese – non ha significativamente danneggiato la Rete terroristica, che ha trovato prontamente rifugio in Pakistan, con il suo leader massimo per anni comodamente alloggiato a due passi dalla grande base militare statunitense in questo storico alleato. Senza contare che Al-Qaeda, dopo l’occupazione dell’Afghanistan, ha davvero conosciuto una espansione a livello globale, non solo in Medio Oriente – anche in paesi dove non aveva avuto nessun ruolo in capitolo – ma in una parte sempre più ampia della stessa Africa, al di là della capacità di colpire con attentati all’interno di un po’ tutti i paesi imperialisti. A ciò occorre aggiungere che proprio da Al-Quaeda si è staccata la costola dell’Isis, presto individuato come il più temibile e sanguinario gruppo terroristico sul piano internazionale, che rischia di divenire – anche in Afghanistan – il principale competitore dei talebani.