Grazie al Jobs act ora i padroni possono svolgere senza paura di essere denunciati la loro attività prediletta e cioè controllare, istante per istante, la posizione e il rendimento del lavoratore. E’ possibile “per ragioni di sicurezza” entrare nei suoi strumenti di lavoro che siano essi tablet, pc, smartphone per verificarne la produttività e la fedeltà.
di Carmine Tomeo
“Chi ha la coscienza pulita non ha nulla da temere”. La frase somiglia tanto a quella di Hitler: “Chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere”. E invece è di Giorgio Squinzi, che in quel modo ha commentato il decreto attuativo del Jobs act sul controllo a distanza dei lavoratori. Ora, certamente, bisogna evitare di cadere nel cosiddetto reductio ad Hitlerum, cioè di adottare una polemica per screditare l’interlocutore paragonandolo a Hitler. Altrettanto certamente, però, bisogna sottolineare come quella frase ricorra sistematicamente, ogni volta che si mette mano a provvedimenti intesi a restringere alcune libertà e alcuni diritti fondamentali.
Nello schema dello specifico decreto attuativo sul controllo a distanza, si legge che non sono necessari accordi aziendali o autorizzazioni ministeriali “per l’assegnazione ai lavoratori degli strumenti utilizzati per rendere la prestazione lavorativa, pur se dagli stessi derivi anche la possibilità di un controllo a distanza del lavoratore”. L’obbligo rimane solo nel caso di “impianti e apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”. Si tratta, chiaramente, di un gioco di parole.
A parte il fatto che uno smartphone, un pc, un tablet, possono essere dotati senza troppi problemi di applicazioni tali da verificare movimenti, presenze, produttività di un lavoratore, e a parte il fatto che un pretesto mascherato da esigenze produttive per installare un impianto o apparecchiatura di controllo si può facilmente trovare, oggi le postazioni di lavoro sono già dotate di strumenti in grado di registrare una serie di dati tali da verificare le prestazioni di lavoro in maniera dettagliata. Potremmo dire, con una battuta, che attraverso i dati che si possono raccogliere sulle postazioni di lavoro, un’azienda potrebbe contare quante volte un lavoratore si gratta la testa in un turno di lavoro. E allora, se già questa cosa è possibile, qual è il problema? È presto detto: fino ad oggi quei dati non potevano essere utilizzati dal padrone senza un accordo sindacale, che ora viene meno. E così da oggi quei dati possono essere utilizzati tranquillamente contro i lavoratori.
Con questo tipo di provvedimento il padrone può facilmente pretendere “lavoratori modello”, ovviamente secondo i propri criteri di disciplina e produttività. Un lavoratore che lavora a testa bassa, senza reclamare con troppa insistenza i propri diritti, che non lascia la postazione nemmeno per andare in bagno, che non si fa sorprendere a parlare con un sindacalista, che “ha la coscienza pulita” rispetto ad ogni direttiva aziendale, “non ha nulla da temere”. Non parrà esagerata questa considerazione, se si pensa ad esempio ai sistemi di controllo già messi in atto in Amazon, dove i lavoratori sono controllati con uno scanner. Si tratta di uno strumento di lavoro per il quale, applicato in Italia e grazie al decreto attuativo del Jobs act, non ha bisogno di accordi sindacali o autorizzazioni, ma che è in grado di informare i capi della posizione esatta e della produttività di ogni lavoratore in qualsiasi momento. Ma qualche azienda potrebbe prendere esempio anche da Autogrill, che ha fornito ad alcuni suoi dipendenti microchip da tenere in tasca o attaccato alla cintura, in grado di rilevare la posizione di chi l’indossa secondo dopo secondo. La motivazione? Per la sicurezza dei lavoratori, dichiarano i vertici aziendali, anticipando di un paio d’anni il decreto attuativo del Jobs act approvato dal governo Renzi.
A guardare questi casi e gli altri decreti attuativi sul Jobs act, è perciò facile pensare che: “non ha nulla da temere” quel lavoratore precario che sgobba come un animale da soma per farsi rinnovare il contratto e che non fa ricorso se i contratti a termine superano il limite del 20%, anche perché, tanto, non scatterà mai la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, ma solo una sanzione amministrativa, che quindi non finirà in tasca al lavoratore quale risarcimento per un diritto negato, ma all'erario; “non ha nulla da temere” quel lavoratore con contratto a tutele crescenti, che lavora a testa bassa nella speranza di non essere licenziato entro tre anni dall’assunzione, prima dei quali non può godere pienamente dei suoi diritti (o di quel che ormai rimane); “non ha nulla da temere” quel lavoratore che non dice una parola anche se subisce un demansionamento; “non ha nulla da temere” quel lavoratore in staff leasing, purché non pretenda di conoscere le causali del contratto precario, visto che ormai, tra l’altro, non è più obbligatorio indicarle; “non ha nulla da temere” quel lavoratore che, pure se con contratto a tempo indeterminato, non si mette in testa di protestare contro le deroghe a contratti collettivi o alle leggi e che rispetta gli accordi sindacali al ribasso, validi ed esigibili secondo l’accordo del 10 gennaio 2014. “Telecamere e cappietto, lavoratore perfetto”, viene da dire.
Di fronte a provvedimenti così gravemente lesivi dei diritti dei lavoratori, i maggiori sindacati confederali non hanno fatto molto più che pronunciarsi timidamente contro il controllo a distanza, ponendo più che altro la questione sul piano della privacy. Mentre invece siamo di fronte al capolavoro del padronato, dopo aver inibito la democrazia nei luoghi di lavoro, la rappresentanza sindacale e la stessa capacità di mobilitazione di massa dei maggiori sindacati confederali. Un capolavoro orwelliano, con il quale il padronato pone le basi affinché (per dirla con le parole del romanzo 1984, di George Orwell) “Da parte dei proletari, in particolare, non vi è nulla da temere: abbandonati a se stessi, continueranno - generazione dopo generazione, secolo dopo secolo - a lavorare, generare e morire, privi non solo di qualsiasi impulso alla ribellione, ma anche della capacità di capire che il mondo potrebbe anche essere diverso da quello che è”.
Contro il Jobs act dovrebbe perciò aprirsi una vera stagione di mobilitazione. Di fronte a politiche che sempre più mostrano i propri presupposti di classe, bisognerebbe smetterla con snervanti tatticismi per costruzioni politiciste, porsi in una chiara scelta di campo nella lotta tra le classi e organizzarsi per agire la lotta.