Secondo l’eminente studioso britannico David Harvey, non si può escludere del tutto che il capitale [1] possa sopravvivere alle diciassette contraddizioni che egli ha dettagliatamente esaminato nel suo libro intitolato appunto Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, pubblicato nel 2014. In questa sede ovviamente non illustreremo tutte le contraddizioni indagate da Harvey, per cui rimandiamo il lettore al suo interessante libro; ci interessa sottolineare, invece, come il capitale sia stato finora in grado di superare gli ostacoli che il suo stesso sviluppo con l’obiettivo dell’accumulazione senza fine ha generato, e come potrebbe esser possibile che superi anche la crisi scatenata dalla pandemia e dall’attuale scontro tra gli Stati Uniti, con il loro strumento armato rappresentato dalla Nato, e la Russia. Crisi che si palesa, inoltre, nel contesto delle enormi difficoltà che il sistema capitalistico incontra per riprodursi, sia pure con inevitabili trasformazioni.
Ricordo, tuttavia, che per Harvey, le contraddizioni pericolose – non fatali – per il capitale sono costituite dall’accumulazione esponenziale senza fine (o la mera ricerca del profitto), la relazione del capitale con la natura, la generalizzata alienazione dell’uomo nella società capitalistica. Scrive sempre lo studioso britannico che il capitale potrebbe riuscire ancora una volta a farla franca con l’aiuto di una élite oligarchica che si preoccupasse di sterminare gran parte della popolazione superflua e per questo eliminabile, schiavizzando il resto dell’umanità e rinserrandosi in luoghi protetti e sorvegliati, per difendersi dalla rivolta della natura e degli esseri umani ridotti a uno stato subumano (Harvey, v. Contraddizione diciassettesima). Naturalmente questa élite, per mantenersi tale, avrebbe bisogno di una continua vigilanza poliziesca totalitaria, sia fisica che mentale (Ibidem, p. 218), cui ci hanno abituato le recenti misure repressive adottate per contrastare la non scomparsa pandemia. E a ciò dobbiamo aggiungere la propaganda di guerra, non solo unilaterale e distorsiva, ma anche in mancanza di argomenti poggiata su insulti e denigrazione volgare dell’avversario additato all’odio della maggioranza ritenuta omologata, ma in realtà piuttosto sfiduciata e scettica. Inoltre, tutto ciò accade mentre si parla di “democrazia liberale” e di libertà contrapposte all’autoritarismo russo, che mette “il bavaglio ai media proprio come si sta facendo dalle nostre civilissime parti.
Questa tesi non è nuova, era già presente nel libro di Susan George, Rapporto Lugano. La salvaguardia del capitalismo del XXI secolo (Trieste, 2000), in cui si parte dall’ipotesi fantasiosa di un rapporto stilato da eminenti scienziati, economisti, accademici, incaricati da misteriosi committenti, con lo scopo di “proporre strategie, misure concrete e svolte in grado di massimizzare la probabilità che il sistema capitalista globale di libero mercato rafforzi la sua supremazia” (p. 17). Utilizzando documenti elaborati da importanti organismi internazionali, la George delinea un quadro tragico della situazione mondiale, nella quale i perdenti, o la popolazione in eccesso e quindi necessariamente scartabile (usa e getta), non può sopravvivere e deve sacrificarsi per garantire ai pochi vincenti la continuazione di un sistema che concede loro straordinari vantaggi e privilegi. Ciò sarebbe il risultato della vittoria delle cosiddette leggi di mercato sul contratto sociale tra capitale e lavoro, stipulato alla fine della Seconda Guerra Mondiale; vittoria dalla quale sarebbe scaturita la società contemporanea così descritta: “Il sistema attuale è una macchina universale per devastare l’ambiente e per produrre perdenti dei quali nessuno sa cosa fare” (George 2000, p. 211).
Tutto questo ha avuto un inizio, che sempre secondo Harvey dobbiamo collocare alla fine degli anni ’70 del Novecento, quando per rilanciare l’accumulazione capitalistica e rafforzare il potere delle élite al comando, indebolite dalle conquiste dei lavoratori degli anni precedenti, fu necessario imprimere una svolta alla politica economica. Questa fu fondata sull’idea del tutto falsa che il benessere può essere raggiunto solo “liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio” (Breve storia del neoliberismo, Milano 2007, p. 4).
Questa svolta politico-economica è stata accompagnata da un rinnovato ruolo dello Stato, il quale “…deve garantire, per esempio, la qualità e l’integrità del denaro; deve predisporre le strutture e le funzioni militari, difensive, poliziesche e legali necessarie per garantire il diritto alla proprietà privata e assicurare, ove necessario con la forza, il corretto funzionamento dei mercati”. Al di là di alcuni interventi nei settori amministrativi, educativi, sanitari, lo Stato deve generalmente tenersi in disparte (Harvey 2007, p. 5).
Questi sono i principi basilari su cui si è fondata la svolta neoliberista degli ultimi decenni del Novecento, la quale ha dato impulso alla deregolamentazione, alla privatizzazione e al ritiro dello Stato da molti settori, la cui gestione poteva essere “tranquillamente” girata ai privati con gli svantaggi che tutti hanno potuto verificare. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che faceva da argine al capitalismo selvaggio poi impiantatosi, quasi tutti gli Stati, da quelli ex sovietici alle cosiddette socialdemocrazie, a quelli dotati di un sistema di welfare appena decente, hanno aderito alle ricette neoliberiste e spesso perché costretti.
Questi stravolgimenti, che hanno minato la sovranità degli Stati a vantaggio delle multinazionali, modificato le relazioni sociali, il mondo del lavoro, il modo di agire e di pensare, hanno comportato l’affermazione di quella che Harvey definisce l’etica del mercato, in base alla quale lo scambio di mercato diviene “un’etica in sé, capace di fungere da guida di tutte le azioni umane e di sostituire tutte le convinzioni etiche coltivate in precedenza”. Al centro di tutto sono stati posti i rapporti contrattuali assurti a paradigma organizzativo del vivere e la necessità ossessiva di intensificarli attraverso lo sviluppo di tecnologie (industriali, comunicative, informative, accumulative di dati etc.), il cui obiettivo precipuo è “la compressione spazio temporale". In virtù di quest’ultima si è instaurata la cosiddetta condizione postmoderna, che si basa secondo Jean François Lyotard sul “contratto limitato nel tempo” in sostituzione dell’ “istituzione permanente nel campo professionale, affettivo, sessuale, culturale” (Harvey 2007, p. 6). Condizione che, lo ricordiamo, ha mandato in visibilio molti intellettuali e accademici, anche di “sinistra”, convinti di essere approdati finalmente al mondo della piena libertà e della liberazione sessuale, benché fosse evidente a tutti che i rapporti di potere si stavano trasformando a danno della maggioranza dell’umanità, che veniva sempre più impoverita e deprivata della sua dignità.
Come si vede, si tratta di un quadro non poi così distante dalla realtà, i cui tratti sono stati anticipati da libri famosi come il perennemente citato libro di George Orwell, 1984, anticipato da un’opera forse meno conosciuta ma fortemente significativa. Sto parlando del libro di un autore sovietico, Evgenij Zamjatin, intitolato Noi, nel quale si illustra una situazione socio politica fondata su un distopico Stato Unico, che mantiene gli individui in un regime di totale asservimento [2]. Zamjatin aveva raggiunto nell’Unione Sovietica un certo successo, aveva lavorato in Gran Bretagna come ingegnere navale, e aveva satirizzato in alcuni scritti la società inglese, per poi abbandonare il suo Paese con il permesso di Stalin. Dato che nel 1924 l’Unione Sovietica, reduce dal Primo conflitto mondiale e dalla devastante guerra civile, non poteva essere dipinta come una società meccanizzata fondata sul calcolo “razionale”, al bel romanzo Noi (lo Stato Unico appunto) pubblicato nel 1924 all’estero in francese, inglese e ceco, fu attribuito addirittura “il carattere di previsione del prossimo futuro” – leggasi dominio di Stalin – (E. Lo Gatto, Prefazione a Noi, p. 24). Tuttavia, il prefatore non scarta la possibilità che si possa considerare il romanzo di Zamjatin “come un libello contro la meccanizzazione del mondo capitalistico e non soltanto come una critica della pianificazione (che del resto come tale ancora non esisteva) dell’Urss” (p. 16). Approfondendo l’analisi del libro, Lo Gatto stabilisce, tuttavia, un significativo collegamento tra questo e lo straordinario dialogo svoltosi a Siviglia, al tempo dei terribili auto da fe, tra il Grande Inquisitore quasi novantenne e un Cristo compassionevole, tornato sulla terra, che Fyodor Dostoevskij riporta nei Fratelli Karamazov. Il raccordo tra i due autori starebbe nell’individuazione del principio sui cui si costruisce l’intera vita umana: la felicità è possibile solo senza la libertà, principio fondante anche dello Stato Unico di Zamjatin.
Fatto imprigionare Cristo, il Grande Inquisitore lo va a visitare nel carcere e gli rivolge queste parole: “Non dicevi Tu allora spesso: «Voglio rendervi liberi?». Ebbene, adesso Tu li ha veduti, questi uomini «liberi», - aggiunge il vecchio con un pensoso sorriso… Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa libertà, ma adesso l’opera è compiuta e saldamente compiuta. Non credi che sia saldamente compiuta? Tu mi guardi con dolcezza e non mi degni neppure della Tua indignazione? Ma sappi che adesso, proprio oggi, questi uomini sono più che mai convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Questo siamo stati noi ad ottenerlo, ma è questo che Tu desideravi, è una simile libertà?”. Il Grande Inquisitore afferma anche che la Chiesa ha fatto tutto questo per rendere gli uomini felici, giacché i ribelli non possono mai godere della felicità.
Lo Stato Unico di Zamjatin, popolato da individui-numero privati della fantasia e dell’anima, rispettosi delle quattro regole eterne dell’aritmetica, riconosce ai suoi sudditi anche un altro diritto, premesso tuttavia, che il diritto ha la sua fonte nella forza: il diritto di essere puniti. Ed è il diritto al quale il protagonista non rinuncia.
Il richiamo a Dostoevskij aggiunge una straordinaria profondità allo scritto dell’autore sovietico che, probabilmente ispirandosi alla riduzione del lavoratore ad appendice della macchina nella produzione industriale – tema centrale della letteratura conservatrice europea –, giunge a riflessioni più generali sulla drammaticità della condizione umana. Del resto, Zamjatin in una pagina del libro parla degli antichi spagnoli che “sapevano con saggezza ardere sui roghi”.
L’uso degli scritti di Orwell, il cui vero nome era Eric Arthur Blair e che lavorò per i servizi segreti britannici, denunciando gli intellettuali conosciuti per le loro simpatie progressiste, ancora oggi non si è esaurito. Essi hanno costituito un tassello importante della dottrina del totalitarismo basata sull’assimilazione di tutte le forme politiche a prima vista diverse dalla cosiddetta democrazia occidentale, dimenticando che quest’ultima si è dimostrata del tutto congeniale al sistema capitalistico come, del resto, i regimi fascisti e nazisti e come il nuovo autoritarismo inaugurato dal neoliberalismo.
Quest’ultimo poggia su idee del tutto false, quali quelle che la regolamentazione e la pianificazione economiche e sociali generano sempre mancanza di libertà, la quale si può invece godere solo là dove sono pienamente vigenti la libertà di impresa e la proprietà privata, come si è visto, finalmente liberatesi di tutti i limiti loro posti dallo Stato sociale. Ma questa forma di libertà è disponibile solo per i più ricchi, mentre esclude coloro che per vivere debbono lavorare e possono rendere concreti i loro diritti (sanità, educazione, previdenza sociale) solo pagando e non sempre, data l’incredibile crescita delle disuguaglianze, riescono a farlo. Pertanto, finiscono col diventare individui senza diritti e addirittura un peso per la collettività.
Proprio per questa ragione un regime che garantisce la piena libertà a pochi finisce con l’implementare l’uso della forza e della violenza, trasformandosi in un sistema autoritario, che tuttavia senza vergogna continua a sbandierare l’utopia neoliberale, la quale sarebbe l’unica in grado di liberarci tutti (v. Harvey 2007, p. 45).
Concludendo ci chiediamo: cosa ha in mente Zamjatin, descrivendo lo Stato Unico: l’Unione Sovietica, la condizione umana o la democrazia liberale sempre incline a trasformarsi in autoritarismo per tenere a bada gli esclusi e i perdenti?
Note:
[1] Harvey distingue il capitalismo dal capitale. A suo parere il primo si incarna in ogni sistema sociale in cui predominano i processi di accumulazione e circolazione del capitale, sistema in cui sono presenti ulteriori contraddizioni (per es. quelle razziali) oltre a quelle specifiche legate alla natura stessa del capitale. Solo di queste ultime si occupa nel libro.
[2] Harvey cita opere più recenti di questa vasta letteratura distopica.