La crisi, questa sconosciuta - Parte V

Per alcuni decenni del secondo dopoguerra, la teoria e le politiche keynesiane avevano conquistato una certa egemonia in ambito accademico e politico. Tuttavia l'accumulazione di capitale e l'avanzata della classe lavoratrice degli anni 60 e 70 del secolo scorso avevano determinato una caduta del saggio del profitto. L'imperativo perciò divenne restaurare il dominio del capitale e ripristinarne la profittabilità.


La crisi, questa sconosciuta - Parte V Credits: @zak_says

Parte V. Escursione a tappe tra le lacune dell'economia politica. Neoliberisti : una questione di classe.

di Ascanio Bernardeschi

 

“Le idee della classe dominante sono in ogni epoca 
le idee dominanti”
(Karl Marx, L'ideologia tedesca)

 

Per alcuni decenni del secondo dopoguerra, la teoria e le politiche keynesiane avevano conquistato una certa egemonia in ambito accademico e politico. Tuttavia l'accumulazione di capitale e l'avanzata della classe lavoratrice degli anni 60 e 70 del secolo scorso avevano determinato una caduta del saggio del profitto. L'imperativo perciò divenne restaurare il dominio del capitale e ripristinarne la profittabilità.

La “triste scienza” ha dovuto quindi mettersi all'opera. Il vate più importante di tale rinnovamento è stato il premio Nobel Milton Friedman le cui politiche liberiste sono state applicate dagli anni ‘70 in poi in molti paesi del mondo, a cominciare dal Cile di Pinochet, per poi estendersi all'Inghilterra della Tatcher, agli USA di Reagan, e via via a gran parte del mondo.

È curioso il fatto che Friedman non ha sempre professato il liberismo e che, al contrario, nel 1948 proponeva politiche fiscali e monetarie anticicliche non del tutto dissimili a quelle teorizzate da Keynes. Ma allora le esigenze erano altre. La sua svolta conferma il ruolo apologetico dell'economia politica.

Il neoliberismo è un ritorno indietro, questa volta in chiave conservatrice, alle idee di Adam Smith sulla “mano invisibile” del mercato e sulla necessità che lo stato si astenga dall'intervenire pesantemente nell'economia.

In Friedman il liberismo si associa al monetarismo, che però non prevede il laissez faire, ma una regolazione dell'economia, attraverso le politiche monetarie, le privatizzazioni, col pretesto dell'apertura del mercato alla concorrenza, i tagli alla spesa pubblica per contenere il debito, i tagli ai salari e la riduzione delle imposte sui profitti per competere nei mercati esteri e per attrarre capitali dall'estero. In sostanza ogni paese dovrebbe sospingere indietro le conquiste di civiltà, in una corsa al ribasso, per aspirare a diventare il paese del bengodi per il capitale.

Le conseguenze di queste politiche sono state il progressivo riassorbimento delle conquiste dei lavoratori e dei diritti sociali, l'immiserimento di massa e l'accentuazione abnorme delle diseguaglianze economiche, sia all'interno delle singole nazioni che tra paesi ricchi e paesi poveri.

Nel caso dell'Italia, siamo giunti al punto che solo dieci famiglie detengono un patrimonio che è doppio di quello detenuto complessivamente dal 30% delle famiglie più povere, che sono 18 milioni. Mentre l'economia italiana arretrava del 12 per cento, quelle dieci famiglie hanno incrementato il loro patrimonio del 70 per cento. I 18 milioni più poveri invece si sono visti ridurre la loro ricchezza in termini reali di oltre il 20 per cento. I servizi sociali pubblici, che sono una componente essenziale del tenore di vita dei più poveri, sono stati falcidiati dai tagli. Le privatizzazioni a prezzi stracciati hanno aperto nuovi spazi per il capitale e i profitti. Le risorse “liberate” da questi tagli e dalle dismissioni delle proprietà pubbliche sono servite solo a risanare il sistema bancario.

È lampante che queste politiche invece di risanare il debito pubblico lo hanno fatto esplodere e non hanno promosso nessuna ripresa, anzi, hanno approfondito la recessione fino al punto che il tasso di disoccupazione sta preoccupando perfino i più sfegatati liberisti. L’unica reale funzione di queste politiche è stata quella a sostegno della lotta di classe dal versante borghese, la quale intanto ci voleva convincere che la lotta di classe non esiste più. Anche la costruzione dell'Europa dell'euro risponde alle esigenze delle classi abbienti. I tetti imposti al livello dei deficit e dei debiti statali, sono funzionali a imporre politiche di “austerità” e quindi massacri sociali. I “salvataggi” delle nazioni (come per esempio la Grecia) hanno in realtà salvato le banche creditrici a scapito della finanza pubblica che è stata chiamata ad alimentare il fondo salva stati. Il divieto alla Banca Centrale Europea di acquistare i titoli di Stato direttamente presso chi li ha emessi, ha posto le finanze delle nazioni in pasto alla speculazione e le ha ulteriormente obbligate a tagliare la spesa pubblica.

Naturalmente occorreva dare una veste scientifica a questo massacro sociale. Nella prossima puntata vedremo quindi gli aspetti analitici della “nuova” macroeconomia.

  

Per la prima parte:
http://lacittafutura.it/economia/la-crisi-questa-sconosciuta.html

Per la seconda parte: 
http://lacittafutura.it/economia/la-crisi-questa-sconosciuta-parte-ii.html

Per la terza parte:
http://lacittafutura.it/economia/la-crisi-questa-sconosciuta-parte-iii.html 

Per la quarta parte:

http://www.lacittafutura.it/economia/la-crisi-questa-sconosciuta-parte-iv.html

GLOSSARIO

Monetarismo.

Teoria economica il cui massimo esponente è Milton Friedman. Sostiene che l'unica causa dell'inflazione - la maggiore preoccupazione di questa scuola - sia un eccesso dell'emissione di banconote da parte delle banche centrali. Secondo questa teoria, occorre evitare che l'emissione di moneta (offerta) superi la domanda. Dovrebbe invece essere automaticamente quantificata, con l'obiettivo unico di regolare il livello di inflazione, attraverso parametri ben definiti, togliendo quindi margini di manovra alla Banca centrale e consentendo agli imprenditori e agli speculatori di conoscere in anticipo le scelte (se tali possano ancora essere considerate) di politica monetaria. Tale offerta dovrebbe arrestarsi ancor prima che sia raggiunta la piena occupazione, la quale è considerata in sé un male. Infatti i monetaristi ritengono che esista un livello naturale di disoccupazione da preservare onde evitare di produrre inflazione.

La spesa pubblica in disavanzo con finalità anticicliche è quindi considerata anch'essa un male in quanto tende a forzare in basso il tasso di disoccupazione, e a favorire così l'inflazione, e in quanto necessita di essere coperta o con l'emissione di banconote da parte della Banca centrale o con l'emissione di moneta di credito (titoli di stato) senza tenere conto delle rigide regole monetariste.

La preoccupazione prevalente verso l'inflazione e la tolleranza verso un tasso di disoccupazione naturale sono in realtà funzionali al mantenimento di un “esercito industriale di riserva” (Marx) e quindi a ridurre la forza contrattuale dei lavoratori e a ridurre così il costo della forza-lavoro e le condizioni di esistenza dei lavoratori.

Si svela così l'arcano del perché – nonostante alcuni ripensamenti teorici risalenti almeno a una decina di anni fa, tra cui quello dello stesso Friedman, e gli evidenti fallimenti – le politiche economiche dei maggiori paesi capitalisti, e sopratutto dell'Europa, abbiano perseguito stabilmente le ricette di questa scuola.

Più recentemente i monetaristi, di fronte a una disoccupazione ben al di sopra di quella che essi considerano “naturale” hanno ammesso la possibilità di aumentare le emissioni o di espandere il credito per contrastare la crisi, ma negano comunque la possibilità degli stati di spendere in disavanzo.

I parametri di Maastricht sul disavanzo e il debito rientrano a pieno titolo tra le politiche monetariste. Alcuni esperti hanno invece considerato che gli interventi annunciati e in parte attuati dalla Bce di Draghi per immettere liquidità nel sistema, rappresentino un superamento del monetarismo. In realtà, se pure costituiscano una violazione degli aspetti più insostenibili di questa ortodossia, proponendosi di rispettare comunque le regole di “stabilità” e negando la funzione anticiclica della spesa pubblica, si mantengono all'interno della logica generale del monetarismo. Si deve per esempio notare che lo stesso Draghi, annunciando l'avvio, del quantitative easing, cioè dell'acquisto massiccio di titoli nel mercato per immettervi liquidità, lo abbia motivato con l'esigenza di riportare il tasso di inflazione a valori adeguati, dopo che siamo caduti in deflazione. Il governo della moneta è quindi finalizzato sempre allo scopo dei monetaristi. In più si dichiara che debbono proseguire le politiche di rigore dei bilanci pubblici e deve essere avviata una stagione di “riforme”. Sappiamo bene quali riforme intendono, basta vedere quelle di Renzi.

Riferimenti:

Milton Friediman,Capitalism and freedom, Chicago, University of Chicago Press, 1962. 

Id., Essays in positive economics, Chicago, University of Chicago Press, 1966.

Id., The optimum quantity of money and other essays, London, MacMillan, 1969

Id., Monetarist economics, Oxford, B. Blackwell, 1991

La legislazione europea è rintracciabile nel sito http://eur-lex.europa.eu/. Il Trattato di Maastricht è consultabile attraverso la versione consolidata del trattato sull'Unione europea e del trattato sul funzionamento dell'Unione europea e protocolli aggiunti: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:12012M/TXT. In particolare si guardi il Protocollo n. 12 (sulla procedura per i disavanzi eccessivi).

 

Legge della caduta tendenziale del saggio del profitto.

Il mercato determina una tendenza al livellamento dei prezzi, cioè all'imposizione, per ogni merce prodotta di un valore medio di mercato, dato dal lavoro sociale necessario (a un livello medio di produttività) alla produzione di quella merce. Se un capitalista riesce a introdurre un'innovazione che accresce la produttività nella sua impresa e gli consente di produrre a costi inferiori di quello prevalente nel mercato, si assicurala possibilità di vendere realizzando un profitto superiore a quello medio. È proprio per questa ragione che vengono introdotte le innovazioni.

Ma si può produrre a costi inferiori al valore di mercato solo diminuendo la quantità di lavoro impiegata in quella produzione, cioè diminuendo nella propria impresa il valore di quel prodotto, portandolo al di sotto del valore di mercato. Così il capitalista può vendere al valore di mercato (o anche a un valore leggermente inferiore) e incrementare il suo margine di profitto.

Le cose vanno bene fintanto gli altri capitalisti non reagiscono introducendo anch'essi delle innovazioni che annullano il vantaggio competitivo iniziale, o addirittura mandano “fuori mercato” il primo innovatore. Nella incessante corsa della concorrenza, una volta incassati i vantaggi temporanei di chi è più veloce nell'introdurre l'innovazione, abbiamo come risultato che il valore delle merci ridotte diminuisce e che uno stesso numero di lavoratori mette in movimento una massa crescente di mezzi di produzione. In altri termini, con la generalizzazione dell'innovazione, in ogni merce sarà incamerata una minore quantità di lavoro mentre aumenterà il valore del capitale costante (C, macchine, materie prime ecc.) in proporzione a quello del capitale variabile (V, forza-lavoro).

Certamente, nell'ipotesi ragionevole che nel tempo le innovazioni interesseranno tutti i settori, tenderà a diminuire anche il valore dei singoli elementi unitari che costituiscono sia C e che V, in quanto è possibile produrre in meno ore di lavoro sia i beni di consumo dei lavoratori che i mezzi di produzione. I  questo modo diminuisce anche il costo di riproduzione della forza-lavoro, quindi il lavoro necessario. E pertanto aumenterà sia saggio del plusvalore che il plusvalore in termini assoluti. Tuttavia l'accresciuta produttività farà sì che nello stesso tempo di lavoro aumenti la massa dei mezzi di produzione messi in movimento dal singolo operaio. Pur tenendo conto della riduzione dei valori unitari, tale processo si risolve in un accrescimento della composizione di valore del capitale (C/V) e in una sostituzione di lavoratori con macchine.

Per il sistema economico nel suo complesso il saggio medio del profitto è dato dal rapporto tra il plusvalore realizzato e il capitale impiegato, cioè da Pv/(C+V). Se analizziamo questa espressione in termini di plusvalore, capitale costante e capitale variabile per unità di lavoro (basta dividere l'espressione generale per il numero totale dei lavoratori impiegati) vediamo che:

- il numeratore, Pv, pur ipotizzando che aumenti spettacolarmente il grado di sfruttamento e che quindi il valore della forza-lavoro tenda a zero, ha un limite nella durata dell'orario di lavoro (anche se il lavoratore campasse di sola aria e tutto il suo lavoro si traducesse in plusvalore, e anche se l'orario di lavoro si protraesse oltre ai limiti biologici, in una giornata di lavoro un lavoratore non può produrre più plusvalore di quello corrispondente a 24 ore lavorative);

- il denominatore invece, pur considerando la riduzione dei costi unitari dei mezzi di produzione, non ha un limite nel suo aumento; o meglio il limite è dato solo dall'arresto del processo di accumulazione, che non è solo accumulazione di mezzi di produzione, ma soprattutto è accumulazione di valore.

Pertanto la tendenza generale sarà alla diminuzione del saggio del profitto, pur con interruzioni, rimbalzi e fasi – anche prolungate nel tempo – in cui prevale la tendenza opposta.

Riferimento:

K. Marx, Il Capitale, Libro III, Sezione terza, Ed. Riuniti, Roma, 1965.

 

 

05/03/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: @zak_says

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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