La crisi, questa sconosciuta

Escursione a tappe tra le lacune dell’economia politica. Prima parte, i negazionisti: questa crisi mondiale del capitalismo non ci sarebbe dovuta essere.


La crisi, questa sconosciuta

Escursione a tappe tra le lacune dell’economia politica. Prima parte, i negazionisti: questa crisi mondiale del capitalismo non ci sarebbe dovuta essere.

 
“Le idee della classe dominante sono in ogni epoca
le idee dominanti” (Karl Marx, L'ideologia tedesca)
 

Parte I – I Negazionisti

 

Questa crisi mondiale del capitalismo proprio non ci doveva essere. Almeno secondo l'ortodossia degli economisti borghesi. Fin dai suoi inizi, la “triste scienza” è servita da supporto agli interessi della classe borghese. Quando la borghesia ha svolto un ruolo rivoluzionario, contro i rapporti feudali, anche l'economia politica ha dato buoni frutti. Con l'emergere del nuovo soggetto rivoluzionario proletario, si è piano piano convertita in apologia dello stato di cose esistente.

Ma anche per i primi, grandi economisti classici, il capitalismo è un sistema “naturale”, un dono della natura, e non un prodotto della storia che ha un'origine e, come tutte le altre forme sociali, avrà una fine. Secondo il “padre fondatore” dell'economia politica, Adam Smith, dobbiamo il nostro benessere all'egoismo degli operatori economici e alla mano invisibile del mercato, mentre lo stato, per non compromettere l'ottimizzazione dei risultati economici per l'intera società, dovrebbe limitarsi a svolgere alcune funzioni, certo importanti, quale l'istruzione, la difesa ecc., ma senza intralciare la perfetta macchina del mercato.

L'altro grande classico, David Ricardo, per altri aspetti dotato di notevole rigore, aderì alla cosiddetta Legge di Say, dal nome dell'economista Jean Baptiste Say che fu tra i primi a sostenerla. Secondo questa legge le crisi generali di sovrapproduzione sono semplicemente impossibili in quanto ogni offerta di prodotti crea la propria domanda. Possono esserci quindi solo sovrapproduzioni settoriali, non generali, e per i brevi periodi necessari al raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta.

 

Usando le stesse parole di Ricardo:

 

 

Nessuno produce se non allo scopo di consumare o vendere, e non vende se non con l'intenzione di acquistare altre merci che gli possono essere immediatamente utili o contribuire alla produzione futura. Producendo, quindi, egli diventa necessariamente il consumatore delle proprie merci o il compratore e consumatore di merci altrui” (David Ricardo, On the Principles of Political Economy and Taxation, traduzione mia).

 

 

Certamente anche a quei tempi non mancarono, non solo a “sinistra”, gli eretici più dubbiosi, a cominciare da quel prete reazionario di Malthus, più famoso per le sue teorie sulla popolazione, che, in soccorso dei decadenti ceti parassitari, dichiarò indispensabile il loro consumo improduttivo per sostenere la domanda. Ma l'egemonia schiacciante fu dei negazionisti.

Figuriamoci poi cosa poterono dire gli apologeti che, per confutare la pericolosa legge secondo cui il valore delle merci dipende dal lavoro impiegato per la loro produzione, si cacciarono in un groviglio inestricabile: il prezzo delle merci dipenderebbe dalla loro utilità “marginale”, dalla “produttività marginale del capitale” impiegato per la loro produzione, dalla loro scarsità, ecc. ecc. Il problema unico, per loro, è stato quello di trovare coperture ideologiche a difesa del modo di produzione capitalistico e degli interessi dei capitalisti.

Si discostò alquanto da questi apologeti – caso abbastanza eccezionale - Joseph Schumpeter, che – pur ritenendo che la fonte dei profitti fosse la genialità del capitalista innovatore e non il lavoro sfruttato – aveva ereditato da Marx una visione molto più dinamica e realista delle cose. Solo che per lui la crisi, con la sua capacità di “distruzione creativa” era benvenuta in quanto favoriva l'ingresso di innovazioni e di imprenditori più capaci.

Insomma la crisi o non esiste, o è buona cosa o è il prodotto di cause “esogene” (William Jevons tirò in ballo perfino le macchie solari!), o frutto di comportamenti di operatori irrazionali, o troppo egoisti (forse bisognerebbe esserlo nella giusta misura?) o colpevoli, o risultato di politiche sbagliate. Non è comunque un carattere fisiologico del capitalismo, ma uno spiacevole accidente.

Questo atteggiamento, con qualche inevitabile ammissione in più, si è protratto fino ai giorni d'oggi. Ecco perché l'ortodossia non aveva previsto questa crisi e non ha prodotto soluzioni efficaci per superarla, perdendo così ogni credibilità. Il monetarismo e in generale le teorie a supporto delle politiche liberiste si sono dimostrati utili solo a massacrare le classi lavoratrici, i paesi più poveri, a drenare ricchezze in favore delle classi possidenti, a incrementare precarietà, disoccupazione, disuguaglianze, privatizzazioni e privazioni dei servizi essenziali. Perciò rappresentano, in ambito teorico, i principali nemici dei lavoratori ed è quindi bene conoscerle. Ma per discuterne è utile esaminare prima i contributi di Marx e di Keynes. È quello che faremo nelle prossime parti.


Nota: Monetarismo.

Teoria economica il cui massimo esponente è Milton Friedman. Sostiene che l'unica causa dell'inflazione - la maggiore preoccupazione di questa scuola - sia un eccesso dell'emissione di banconote da parte delle banche centrali. Secondo questa teoria, occorre evitare che l'emissione di moneta (offerta) superi la domanda. L’emissione dovrebbe invece essere automaticamente quantificata, con l'obiettivo unico di regolare il livello di inflazione, attraverso parametri ben definiti, togliendo quindi margini di manovra alla Banca centrale e consentendo agli imprenditori e agli speculatori di conoscere in anticipo le scelte (se tali possano ancora essere considerate) di politica monetaria. Tale offerta dovrebbe arrestarsi ancor prima che sia raggiunta la piena occupazione, la quale è considerata in sé un male. Infatti i monetaristi ritengono che esista un livello naturale di disoccupazione da preservare onde evitare di produrre inflazione.

La spesa pubblica in disavanzo con finalità anticicliche è quindi f anch'essa un male in quanto tende a forzare in basso il tasso di disoccupazione, e a favorire così l'inflazione, e in quanto necessita di essere coperta o con l'emissione di banconote da parte della Banca centrale o con l'emissione di moneta di credito (titoli di stato) senza tenere conto delle rigide regole monetariste.

La preoccupazione prevalente verso l'inflazione e la tolleranza verso un tasso di disoccupazione naturale sono in realtà funzionali al mantenimento di un “esercito industriale di riserva” (Marx) e quindi a ridurre la forza contrattuale dei lavoratori e a ridurre così il costo della forza-lavoro e le condizioni di esistenza dei lavoratori.

Si svela così l'arcano del perché – nonostante alcuni ripensamenti teorici risalenti almeno a una decina di anni fa, tra cui quello dello stesso Friedman, e gli evidenti fallimenti – le politiche economiche dei maggiori paesi capitalisti, e sopratutto dell'Europa, abbiano perseguito stabilmente le ricette di questa scuola.

Più recentemente i monetaristi, di fronte a una disoccupazione ben al di sopra di quella che essi considerano “naturale” hanno ammesso la possibilità di aumentare le emissioni o di espandere il credito per contrastare la crisi, ma negano comunque la possibilità degli stati di spendere in disavanzo.

I parametri di Maastricht sul disavanzo e il debito rientrano a pieno titolo tra le politiche monetariste. Alcuni esperti hanno invece considerato che gli interventi annunciati e in parte attuati dalla Bce di Draghi per immettere liquidità nel sistema, rappresentino un superamento del monetarismo. In realtà, se pure costituiscano una violazione degli aspetti più insostenibili di questa ortodossia, proponendosi di rispettare comunque le regole di “stabilità” e negando la funzione anticiclica della spesa pubblica, si mantengono all'interno della logica generale del monetarismo. Si deve per esempio notare che lo stesso Draghi, annunciando l'avvio, del quantitative easing, cioè dell'acquisto massiccio di titoli nel mercato per immettervi liquidità, lo abbia motivato con l'esigenza di riportare il tasso di inflazione a valori adeguati, dopo che siamo caduti in deflazione. Il governo della moneta è quindi finalizzato sempre allo scopo dei monetaristi. In più si dichiara che debbono proseguire le politiche di rigore dei bilanci pubblici e deve essere avviata una stagione di “riforme”. Sappiamo bene quali riforme intendono, basta vedere quelle di Renzi.

 

 

Riferimenti:

 

 

Milton Friediman, Capitalism and freedom, Chicago, University of Chicago Press, 1962.

Id., Essays in positive economics, Chicago, University of Chicago Press, 1966.

Id., The optimum quantity of money and other essays, London, MacMillan, 1969

Id., Monetarist economics, Oxford, B. Blackwell, 1991

 

-La legislazione europea è consultabile all'indirizzo: http://eur-lex.europa.eu/.

 

 

-Il Trattato di Maastricht è consultabile attraverso la versione consolidata del trattato sull'Unione europea e del trattato sul funzionamento dell'Unione europea e protocolli aggiunti all'indirizzo: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:12012M/TXTIn particolare si guardi il Protocollo n. 12 (sulla procedura per i disavanzi eccessivi).

31/01/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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