In occasione dei cinquant’anni dello Statuto dei lavoratori sono usciti due significativi articoli su “Il manifesto” uno di Luciana Castellina del 20/5/2020 e l’altro di Sergio Bologna del 21/5/2020, ossia di due intellettuali e dirigenti politici delle lotte di quegli anni che produssero fra l’altro lo Statuto. Nell’articolo di Castellina, già al tempo componente dell’ala più destra del movimento rivoluzionario, vi è la tipica attitudine della ex rivoluzionaria ormai pentita, che tende a riconsiderare criticamente come estremiste le posizioni condivise da giovane. D’altra parte è evidente che nei tempi oscuri in cui siamo costretti a vivere, in cui tutto si è spostato verso destra, è naturale che chi costituiva allora l’ala destra del fronte proletario rivoluzionario, oggi sia divenuto esponente dell’ala sinistra della borghesia, ovvero della classe dirigente e della stessa Unione (imperialistica) europea. Sergio Bologna, che allora militava in una formazione più radicale, di stampo anarco-comunista, tendente all’estremismo “malattia infantile del comunismo”, oggi si è spostato su posizioni da intellettuale tradizionale radicale, che sostiene che il proletariato non costituirebbe più la classe potenzialmente rivoluzionaria.
Così, di conseguenza, Castellina – nell’articolo: “Ignorammo l’evento, eravamo proprio extraparlamentari” – autocritica il proprio passato, che oggi gli appare irrimediabilmente estremista, in quanto allora li aveva portati, altrettanto conseguentemente, a dare scarso rilievo allo Statuto dei lavoratori. Statuto che allora rappresentava per l’avanguardia del movimento dei lavoratori la carota, mentre il bastone era costituito dalla strategia della tensione, esplosa in modo eclatante a Piazza Fontana, che allora i rivoluzionari definivano “strage di Stato” sottintendendo, i comunisti, l’aggettivo “borghese”, dal momento che nel partito della rivoluzione tendevano al tempo a flirtare con gli anarchici. Erano, dunque, agli occhi delle avanguardie, i consueti strumenti con cui la classe dominante cercava di arrestare il movimento almeno potenzialmente rivoluzionario che era esploso con l’autunno caldo del 1969 e il rilancio del movimento consiliare, tanto che si parlò di un nuovo biennio-rosso, iniziato con la rivolta, l’anno precedente, della forza lavoro in formazione, ovvero degli studenti proletari o filo proletari.
Dinanzi all’impetuosa manifestazione nazionale a Roma della classe operaia, il settore potenzialmente più rivoluzionario delle classi subalterne, la borghesia aveva davvero temuto di perdere, con i propri privilegi, il potere, prima politico e, di conseguenza, economico. Non a caso nelle manifestazioni i settori più radicali del movimento scandivano “il potere dev’essere operaio” e “padroni, borghesi, ancora pochi mesi…”. Potere operaio si definiva il partito dell’insurrezione e Lotta continua gridava, nel suo inno, “Lotta di lunga durata, lotta di popolo armata”. Ecco dunque il bastone, necessario alla classe dominante per riaffermare il proprio potere, dimostrando – nel modo più palese – di avere il monopolio della violenza legalizzata, attraverso quelle che è stata definita la strategia della tensione. Dall’altra, la classe dirigente cercava di riaffermare la propria capacità di egemonia, seconda gamba altrettanto decisiva del potere nel mondo occidentale, con le riforme e, dunque, in primo luogo proprio con lo Statuto dei lavoratori.
Così se piazza Fontana fu la madre di tutte le stragi, il di poco successivo Statuto dei lavoratori fu la madre di tutte le riforme, al solito progettate con un intento controrivoluzionario. Non a caso principale artefice della scrittura dello Statuto fu Gino Giugni, poi deputato socialista ai tempi del craxismo e, in seguito, esponente del Pd. Anche se evidentemente a imporre tali riforme alla classe dirigente, per conto della classe dominante, era stata la lotta di classe condotta dal basso e lo sviluppo di una fase pre-rivoluzionaria, con un abbozzo di dualismo di potere. Come è noto le riforme sono qualcosa di troppo importante per lasciarle ai riformisti, i quali battendosi per quelle non ottengono mai nulla di significativo, sono piuttosto un sottoprodotto della lotta rivoluzionaria che, battendosi per il potere, costringe chi vorrebbe mantenerlo a fare crescenti concessioni pur di spaccare il movimento proto-rivoluzionario, separando la componente meno radicale, pronta ad accontentarsi del piatto di lenticchie delle riforme, isolando l’ala rivoluzionaria, le avanguardie.
Quindi, era normale che l’ala più moderata del movimento potenzialmente rivoluzionario, rappresentata da “Il manifesto”, tendesse a snobbare queste “concessioni” della classe dominante volte a spaccare il movimento rivoluzionario, separando le avanguardie dalle componenti meno dotate di coscienza di classe, del gruppo sociale potenzialmente rivoluzionario. Mentre, al giorno d’oggi, rammentano quelle loro posizioni, moderatamente rivoluzionarie, come un errore di gioventù, di cui fare ora pubblica ammenda, soprattutto per evitare che le nuove generazioni possano commettere l’“errore” di assumere posizioni altrettanto estremiste.
Più avanzata è la posizione di Sergio Bologna che, più che fare autocritica dinanzi alla classe dominante dei proprio “peccati rivoluzionari” di gioventù, sostiene: “nel 1970 quello Statuto fu una conquista democratica, anche se la prassi operaia era più avanti”, aggiungendo una sacrosanta critica ai settori concertativi della Cgil – che i marxisti radicali tendono a definire neo-corporativi – che parlano oggi della necessità di scrivere un nuovo Statuto dei lavoratori, facendogli notare che “bisogna cambiare prima i rapporti di forza tra capitale e forza lavoro”. In effetti, gli attuali “rappresentanti dei lavoratori”, invece di fare il loro mestiere, ovvero di “vendere cara la pelle della forza lavoro”, con le lotte sociali – che bene o male erano costretti a fare, sotto la spinta del movimento potenzialmente rivoluzionario, alla fine degli anni Sessanta – oggi si sentono ideologi della classe dominante, tanto da offrirsi di prendere il posto di Gino Giugni, senza aver contribuito prima a organizzare e dare una direzione consapevole a quelle lotte sociali che costrinsero allora la borghesia a fare quelle concessioni.
Oggi, in cui da anni la lotta di classe è condotta, in modo sostanzialmente unilaterale, dall’alto – mentre dal basso, si riesce, a malapena, nei momenti più favorevoli, a fare un po’ di resistenza – riscrivere un nuovo Statuto dei lavoratori sarebbe, nella migliore delle ipotesi, un mero dover essere o, peggio, una di quelle buone intenzioni di cui è lastricata la via dell’inferno. Nella peggiore delle ipotesi, se non fosse una semplice forma di propaganda, non potrebbe che essere una versione notevolmente edulcorata dell’originario Statuto, in quanto non potrebbe che rispecchiare dei rapporti di forza fra le classi sociali notevolmente mutati, a tutto vantaggio del padronato. In altri termini, rischierebbe di non essere tanto differente dalle sedicenti “riforme” di cui parla oggi l’ideologia dominante, per occultare il loro effettivo carattere di “contro-riforme”.
Come è sempre stato ed è necessario che sia, le leggi le fa sempre il blocco sociale che ha il potere, per perpetuare e sancire, imponendolo ai subalterni, il loro dominio. Per questo anche le leggi che oggi ci sembrano più avanzate, quando furono fatte, essendo naturalmente opera degli ideologi al servizio (più o meno consapevolmente) della classe dominante, avevano un valore necessariamente conservatore, se non addirittura reazionario. Allora si trattava di stabilire per legge dei limiti al conflitto fra capitale e forza lavoro, proprio perché il blocco sociale subalterno, egemonizzato dalla classe operaia era all’offensiva, tanto da rischiare di divenire un reale contro-potere ponendo la questione rivoluzionaria di non accontentarsi più delle “concessioni” strappate alla classe dominante, ma di voler prendere il suo posto.
Così, pur di difendere la proprietà privata sui mezzi di produzione e di riproduzione della forza lavoro, la classe dominante, attraverso i propri ideologi, era disponibile ad accettare alcune norme di democrazia formale all’interno dei luoghi di lavoro, anche perché necessarie a occultare il dispotismo di fatto, sancito dalla appropriazione privata dei prodotti della produzione sociale. Dispotismo che non solo era sempre meno tollerato dalla forza lavoro, ma era sempre più messo in discussione dal rinascere delle strutture consiliari – in russo sovietiche – che già all’interno della società imperialista prefiguravano le forme della democrazia proletaria futura.
Non a caso, al tempo, persino il P.C.I., da tempo definito “revisionista” da parte delle forze proto-rivoluzionarie – in quanto aveva da tempo rinunciato alla questione della presa del potere, accettando nei fatti la “democrazia” formale borghese – non votò a favore dello Statuto, ma si astenne. Anche perché, come si dice, “fatta la legge trovato l’inganno”, ovvero gli aspetti più avanzati dello Statuto non sono mai stati applicati nelle piccole imprese, maggioritarie in Italia.
Allo stesso modo, non è un caso che – per eliminare gli aspetti più avanzati dello Statuto – ci fu bisogno dei contemporanei epigoni della maggioranza del P.C.I., che tenessero sotto controllo i sindacati maggiormente rappresentativi, riducendo così le lotte per difendere l’articolo 18 a delle lotte di mera testimonianza, essendo condotte da aspiranti avanguardie, sostanzialmente incapaci di svolgere il loro ruolo, ovvero di dare una direzione consapevole agli spontanei movimenti di massa. Tanto che allora la “sedicente” opposizione “politica” all’attacco allo Statuto è stata rappresentata dagli attuali eredi del movimento dell’uomo qualunque che, non a caso, nelle successive elezioni divennero il primo partito. Primato subito perso dopo aver formato un governo con il partito di massa più reazionario del paese, da cui si sono fatti ben presto – conseguentemente visto il loro qualunquismo programmatico – egemonizzare.
Naturalmente, all’attuale livello del conflitto sociale, sarebbe un grande risultato riuscire a riconquistare l’originario Statuto dei lavoratori, il problema è che oggi come allora un tale obiettivo sarebbe praticabile solo da forze rivoluzionarie e non, certo, da forze riformiste, come la storia non si è stancata di dimostrare. Il problema è che se la storia è magistra vitae mentre gli uomini troppo spesso, soprattutto in questi ultimi anni, si sono dimostrati dei pessimi discenti. Anche perché continuare a pretendere di difendere delle riforme strappate in passato alle classi dominanti, con lotte almeno potenzialmente rivoluzionarie, con politiche di tipo riformista non può che contribuire, per quanto involontariamente, a portare avanti una ritirata “strategica” sempre più scomposta, in quanto la tattica rischia – ormai – di prendere il posto della strategia.