Le contraddizioni della transizione al socialismo

Non essendoci le condizioni oggettive e soggettive per la realizzazione della società socialista, seguendo la eccezionali intuizioni leniniste, in praticamente tutti i paesi in cui i comunisti sono giunti al potere, più che costruire una società socialista, si è mirato in primo luogo a raggiungere un passaggio intermedio, ossia la realizzazione di un capitalismo di Stato.


Le contraddizioni della transizione al socialismo

La società socialista non può che essere un superamento dialettico della società capitalista, il che implica conservarne gli aspetti ancora progressivi, cassandone gli elementi ormai conservatori o, addirittura, reazionari. Perciò il socialismo – come già avvertiva con notevole preoccupazione il Marx della Critica al programma di Gotha – non può in nessun modo essere confuso con la socializzazione della miseria, limitandosi a redistribuire nel modo più equo possibile le ricchezze presenti. Né può essere – e questo spiega la costante opposizione di Marx ed Engels all’utopismo, per quanto rivoluzionario, anarchico – una distruzione pura e semplice della precedente società capitalista. Proprio per questo non è possibile passare per decreto, una volta conquistato il potere, a una società comunista. Bisogna prima sviluppare in modo eccezionale i mezzi di produzione, dopo averli socializzati, sconfiggere fino in fondo i tentativi controrivoluzionari di borghesi e classe media, costruire l’uomo nuovo ossia l’uomo socialista e, quindi, comunista attraverso una poderosa opera di autoapprendimento sul piano teorico e pratico, di modo che le leggi coercitive anticapitaliste possano divenire eticità comune e condivisa, patrimonio comune della nuova società.

Occorre inoltre ricordare il necessario scarto che vi è sempre fra teoria e sua traduzione sul piano concreto storico del reale che, in quanto tale, non può che resistere, sulla base del principio di necessità, alla sua razionalizzazione. Tanto più che i primi significativi tentativi di costruire una società socialista sono avvenuti in paesi in cui non solo l'opportunità reale di costruire una società comunista, ma la stessa fase transitoria socialista sarebbe rimasta per molti anni una pura utopia.

Il primo poderoso assalto al cielo è avvenuto nell’ex impero dello zar, una realtà dove era ancora predominante una economia precapitalista, sotto molti aspetti decisamente feudale. Tanto che tale rivoluzione era stata giustificata dai suoi stessi fautori come semplice supporto esterno per favorire la rivoluzione in quei paesi occidentali in cui si era sviluppata una società capitalista sotto diversi aspetti matura e in cui vi era la possibilità reale di costruire una società socialista. Anche in questo caso il corso del mondo seguì una direzione per molti aspetti antitetica da quanto preventivato sul piano teorico. Il successo della rivoluzione russa spinse i comunisti occidentali a seguirne pedissequamente e in modo spesso avventuristico le orme, così, invece di realizzare una società socialista, si aprì la strada alla reazione prima fascista e poi nazional-socialista.

In tutti i paesi in cui, nel secondo dopoguerra, i comunisti hanno conquistato il potere, ciò è avvenuto grazie alla vittoria in una guerra di liberazione nazionale contro colonialismo e neocolonialismo imperialista. Perciò in tutti questi paesi del cosiddetto terzo mondo, le possibilità di costruire una società socialista erano destinate a restare per un tempo ancora più lungo utopistiche, trattandosi di società quasi interamente precapitaliste. Infine, per quanto riguarda i paesi in cui la direzione dei comunisti fu esportata dall’esterno, grazie alle vittorie dell’Armata rossa, anche nei rari casi come la Germania orientale e la Cecoslovacchia in cui vi era stato un certo sviluppo in senso capitalistico, le forze rivoluzionarie dovettero fare i conti con un materiale umano quasi del tutto inadatto, per lo scarso o mediocre livello della coscienza di classe. Senza contare che tutti questi paesi hanno vissuto in un perpetuo stato di assedio che ha reso di fatto impossibile la realizzazione della democrazia sovietica.

Così, sostanzialmente, seguendo la eccezionali intuizioni leniniste, in praticamente tutti i paesi in cui i comunisti erano giunti al potere, più che costruire una società socialista, si è mirato in primo luogo a raggiungere il passaggio intermedio, ossia la realizzazione di un capitalismo di Stato. In diversi casi, mancando sostanzialmente le condizioni oggettive e scarseggiando la maturità soggettiva, poco si è riusciti a realizzare per consentire il passaggio dal capitalismo di Stato a una società socialista. In taluni casi, si è preteso di compiere questa delicata transizione, alla maniera degli anarchici, ovvero pretendendo di poterla imporre per decreto. Così, come aveva già previsto Platone, la kallipolis, ossia la società razionale-ideale, si è trasformata in una timocrazia, ovvero nel governo dei guardiani, dotati, più che di razionalità e di giustizia, di forza e volontà di autoaffermazione.

Prevedendo i rischi di un tale esito, Lenin ha cercato in primo luogo, da materialista, di sviluppare le forze produttive, in particolare quelle nazionalizzate o socializzate, mirando a una crescita della produttività, che divenisse almeno analoga a quella dei più avanzati paesi a capitalismo maturo. A tale fine, tendendo a prevalere dopo la rivoluzione tendenze anarchiche o individualiste, Lenin considerò essenziale introdurre la militarizzazione della produzione, del lavoro. Solo così fu possibile, in special modo durante la fase del comunismo di guerra, ottenere un livello adeguato di produttività. Ma tale misura coercitiva da sola non poteva bastare, non poteva che attenuarsi con il passare del tempo e doveva finire con l’essere posta progressivamente da parte. Anche perché se la guerra civile, l’aggressione internazionale e lo stato d’assedio imposto dagli imperialisti la giustificavano agli occhi dei lavoratori, con il passare del tempo anche lo stato d’assedio finisce con l’essere naturalizzato e non è più sufficiente da solo a imporre misure coercitive.

Proprio perciò a esso si affiancò quasi subito il taylorismo, ovvero quella che era al momento la più efficace organizzazione del lavoro, la più razionale e scientifica. Anche in questo caso, come dinanzi alla militarizzazione del lavoro, molti gridarono al tradimento, a cominciare dalla cosiddetta Opposizione operaia, fino a tante anime belle occidentali. Come?, ci si domandava, la rivoluzione doveva servire a emancipare il proletariato e si manteneva quella militarizzazione del lavoro introdotta con la guerra imperialista. Come?, ci si chiedeva, la rivoluzione socialista doveva eliminare ogni forma di sfruttamento mentre, al contrario, si introduceva una modalità di organizzazione del lavoro volta proprio a massimizzare lo sfruttamento

D’altra parte la rivoluzione – rimasta al momento limitata a un solo paese, grande ma arretrato – era destinata a non poter uscire dallo stato d’emergenza che necessitava la militarizzazione del lavoro. Inoltre, l’esigenza di superare dialetticamente la società capitalista, per non ridursi alla socializzazione della miseria, richiedeva l’introduzione delle forme più avanzate di organizzazione del lavoro, in grado di massimizzare la produttività, che sola avrebbe permesso lo sviluppo delle forze produttive e consentito ai rivoluzionari di mantenere l’indispensabile egemonia sulle masse popolari e conquistare alla causa i tecnici provenienti da classi sociali non rivoluzionarie. La ripresa del taylorismo nel paese della rivoluzione non comportava una mera conservazione, ma implicava un suo superamento dialettico. Della forma allora più produttiva di organizzazione del lavoro si mantenevano gli aspetti razionali e ancora validi in una società sostanzialmente intenta a costruire un capitalismo di Stato, mentre si abbandonavano gli aspetti conservatori e reazionari. Tale organizzazione del lavoro non era più rivolta a sfruttare i subalterni, ma a consentire il successo della socializzazione dei principali mezzi di produzione. Senza contare che l’aumento della produttività non significò aumento dello sfruttamento, dei licenziamenti e dell’alienazione, ma al contrario gettò le basi per una riduzione dell’orario di lavoro, per la piena occupazione, per la disalienazione, grazie a un eccezionale sviluppo della cultura proletaria.

Peraltro, essendo finalizzata a produrre di più in meno tempo e con meno fatica, consentiva, al contrario di quanto avviene nei paesi capitalisti, di diminuire l’orario di lavoro cancellando, tendenzialmente disoccupazione e lavoro precario. Inoltre – al contrario del taylorismo classico, volto a imporre un completo dominio sul lavoratore ridotto a un gorilla ammaestrato – si doveva incentivare al massimo ogni scoperta creativa dei lavoratori, volta a ridurre la fatica e massimizzare la produzione. Tale incentivazione della creatività operaia raggiunse il suo massimo sviluppo con l’affermarsi dello stacanovismo, che consentì un eccezionale sviluppo delle forze produttive, sino a che fu messo completamente da parte dalla direzione di Kruscev che, come in diversi altri casi, insieme all’acqua sporca gettò via anche il bambino

Peraltro tali forme coercitive o volte a retribuire il lavoro in funzione della sua produttività non potevano che essere misure transitorie che sarebbero dovute venire progressivamente superate nel futuro passaggio dalla società socialista alla società comunista. Perciò era essenziale affiancarle ad altre modalità egualmente essenziali per massimizzare la produttività del lavoro, come i sabati comunisti, considerati essenziali da Lenin. In tal caso si trattava di stimolare, gratificare e mettere a frutto il grande entusiasmo presente nella forza lavoro più avanzata, la classe operaia, che maggiormente aveva ed avrebbe guadagnato dalla socializzazione dei grandi mezzi di produzione. Anche questa valorizzazione della spinta soggettiva a sacrificarsi spontaneamente per contribuire a velocizzare i tempi della costruzione della società socialista – per cui l’autosacrificio del singolo era premiato dall’eccezionale sviluppo del bene comune – andò progressivamente perduto con l’affermarsi della “destalinizzazione” nell’Europa orientale. L’introduzione di misure “liberali” nei sistemi in transizione al socialismo, se pose fine agli elementi coercitivi più odiosi, provocò una drastica diminuzione della produttività. Così, dopo anni in cui i paesi socialisti si sviluppavano molto più rapidamente dei paesi capitalisti, iniziò il periodo della stagnazione che avrebbe provocato la definitiva crisi del blocco sovietico.

Peraltro, già nella fase precedente staliniana, in cui fu abbandonata la Nuova politica economica di Lenin, e si decise di imporre per decreto il passaggio a una società socialista – in un paese dove la maggioranza dei lavoratori che vivevano nelle campagne non era affatto preparati, né convinti – se ha favorito un eccezionale sviluppo della produzione grazie all’introduzione della pianificazione, ha portato a perdere di vista la necessità di un superamento dialettico della precedente società.

In tal modo si è creato un mix, alla lunga insostenibile, di tendenza alla burocratizzazione – per cui il passaggio al socialismo si imponeva per decreto – e di utopismo non realistico, che portò a illudersi che si sarebbe potuti procedere a marce forzate verso una società socialista, combinando misure repressive dell’individualismo e forme di soggettivismo esasperato.

Certo, si dovrebbe aggiungere, con l’affermarsi della controrivoluzione in Urss e nei suoi satelliti e la conquista del potere da parte dell’ala più moderata del Partito comunista nella Repubblica popolare cinese, il panorama è notevolmente mutato. Si è sostanzialmente tornati alla Nep, alla ripresa di diversi aspetti del toyotismo oltre che del taylorismo, puntando di fatto alla realizzazione di un capitalismo di Stato, pur non abbandonando la pianificazione. D’altra parte l’invito agli individui ad arricchirsi, il concentrarsi quasi esclusivamente nel grande sviluppo dei mezzi di produzione, ha lasciato completamente indietro quel valorizzare la spontanea volontà soggettiva di costruire l’uomo nuovo e la società socialista, abbandonando coi sabati comunisti e lo stacanovismo la stessa drammaticità del conflitto di classe.

 

01/10/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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