A chi non piacerebbe mangiare la torta di mirtilli di nonna papera fatta con la farina del suo sacco e le uova del suo pollaio? Poco e buono... Ma caro ed impossibile per tutti!
di Pasquale Vecchiarelli
L’ideologia della decrescita felice porta in seno enormi contraddizioni eppure il fenomeno del mangiar lenti a KM zero sta riscoprendo nuova vita e molto successo soprattutto in una certa area radical chic, a parole progressista di sinistra, nei fatti, come vedremo, reazionaria. Essa fa proseliti anche tra i giovani trentenni invaghiti dal nuovo (vecchio) modello Renzi&Farinetti.
Vale dunque la pena approfondire e soffermarsi su alcuni aspetti fondamentali di questo fenomeno, dando un’occhiata sotto al velo.
Cosa s’intende per decrescita felice nel settore agroalimentare? Per capire bene le ragioni culturali e politiche alla base di questa proposta è necessario leggere il manifesto Slow Food, firmato da diversi intellettuali di spessore. I firmatari del manifesto concordano su un’idea forte: contrapporre ai tempi intensivi della grande industria ad elevata produttività, che ha generato ritmi veloci e insostenibili di vita e dunque di alimentazione sempre più “fast”, l’idea del “lento è buono”. Per viver bene ed essere allegri, si afferma nel manifesto, bisogna ridurre i ritmi di vita e per far questo bisogna contrastare, appunto, la produttività della grande industria, nel caso specifico quella agroalimentare, riscoprendo i ritmi lenti ed i piaceri di una volta. Nel testo si mette in guardia dal non confondere, come fanno “i più”, l’efficienza con la frenesia. Questo però è esattamente uno degli errori alla base di quasi tutte le ideologie basate sulla decrescita felice.
A tutta prima leggendo questa proposta, e poi tutte le attuali e più ardite evoluzioni, si rimane certamente affascinati dalla retorica dei profumi dell’orto ma in seconda battuta bastano poche riflessioni analitiche per svelarne le deficienze strutturali. In questo testo provo a dare la traccia di almeno due problemi notevoli che a mio avviso svuotano tale proposta di una prospettiva realmente progressista.
La questione della produttività. Il primo errore di paradigma che si commette è quello di confondere in un unico calderone la produttività sociale del lavoro, con l’intensità del lavoro e lo sfruttamento mediante ritmi intensivi. La produttività di un ciclo industriale dipende dal grado di tecnologia in esso contenuto, dall’abilità dei lavoratori, dall’organizzazione e dalla capacità dei mezzi. A parità di tensione (forza lavoro e caratteristiche del prodotto finale) un aumento di produttività è un fatto estremamente positivo per le masse lavoratrici: esso consente di liberare tempo al lavoratore che può impiegarlo liberamente per emanciparsi o semplicemente per oziare. Purtroppo questo non avviene nell’attuale modo di produzione capitalistico poichè in esso gli aumenti di produttività non finiscono per liberare tempo ai lavoratori ma per aumentare i profitti dei padroni. Ad aumenti di produttività ottenuti con nuove tecnologie non corrispondono riduzioni dell’orario di lavoro a parità di salario bensì l’orario di lavoro rimane lo stesso o addirittura aumenta. Questo genera la confusione di paradigma dalla quale gli opportunisti ne escono condannando gli aumenti di produttività come aumento di sfruttamento: il paradosso clamoroso sta proprio nel fatto che il mezzo più potente per ridurre il tempo di lavoro è proprio l’aumento di produttività.
Dunque l’aumento dei ritmi lavorativi è un fatto strutturale dell’attuale modo di produzione capitalistico. In altri termini per ridurre i ritmi di lavoro l’unica soluzione è l’uscita dal capitalismo.
Allo stesso modo non tutti gli sviluppi tecnologici sono da considerarsi sullo stesso piano: certamente sono da respingere tutte quelle operazioni di ingegneria chimica e genetica finanziate dalle lobby della chimica e dei grandi proprietari terrieri storicamente più interessati alla borsa alimentare che alla salute.
Poco e buono, ma caro ed impossibile per tutti! Il secondo problema evidente di questa proposta risiede nell’idea a dir poco fuorviante che il Km zero possa essere un lineamento strategico per la pianificazione agroalimentare dell’intero paese. Ovvero l’idea assurda, sentita dalle bocche impastate di vino biologico di questi piccolo-borghesi professori del pomodoro, che la filiera corta possa sostituire la catena produttiva industriale. A chi non piacerebbe mangiare la torta di mirtilli di nonna papera fatta con la farina del suo sacco e le uova del suo pollaio? Ma un conto è il micro e uno il macro. Per fare un esempio semplice prendiamo il consumo di grano duro in Italia, basterebbe fare due conti semplici per scoprire che senza importare nulla dall’estero si dovrebbe raddoppiare l’attuale produzione (circa 4 milioni di tonnellate) per soddisfare il fabbisogno interno (circa 7 milioni di tonnellate). E per raddoppiare la produzione, semmai ce ne fossero le condizioni in termini di rapporto tra terreno coltivabile e densità abitativa, come si fa senza aumentare la produttività? Come si fa senza variare la bilancia agroalimentare? Come si fa senza intaccare i rapporti di proprietà della terra e dei mezzi di produzione? Questo del grano è solo un esempio che può essere esteso alla quasi totalità degli altri prodotti della terra. Senza considerare che per alcune regioni del mondo poter importare prodotti provenienti da altri continenti è fondamentale per la sopravvivenza e una dieta equilibrata.
E’ chiaro che il km zero unito all’ideologia della deindustrializzazione felice dopo due passaggi matematici diventa una barzelletta per di più poco divertente.
Loro lo sanno. La cosa bella è che i fautori di queste teorie agro-reazionarie conoscono bene il carattere regressivo e contraddittorio della loro proposta. Molte di queste organizzazioni hanno la possibilità di organizzare numerose conferenze sul tema proprio perché i loro quadri, nazionali e locali, godono del tempo e dei soldi che derivano direttamente dal profitto accumulato grazie all’alta produttività dell’attuale sistema lavorativo cadendo in evidenti contradizioni. Una delle tante contraddizioni è proprio l’alleanza tra Eataly e Slow Food: i lavoratori di Eataly non godono certo di contratti lavorativi che permettono ritmi di vita lenti e felici eppure Slow Food non disdegna di stabilire accordi di “consulenza” con l’azienda di Farinetti.
Da cosa nasce l’interesse per questo settore? Anche la filiera corta può generare profitti, abbiamo dimostrato che la filiera corta è impossibile su larga scala ma resta in piedi come proposta su piccola, piccolissima scala. Un mercato di “alta qualità” a prezzi esorbitanti, purtroppo non accessibile alla grossa parte della popolazione, dove insieme ad una piccola fetta di aristocrazia proletaria ritroviamo i nostri cari suini borghesi (vedi l’articolo “Signori si Nasce”) che si rotolano tra vini speciali e salumi di prima scelta. Altri lo fanno a fini politici, cavalcare questo fenomeno di massa è utile a costruire un consenso popolare sempre spendibile per ragioni personali. I prodotti della nostra terra come tutti i prodotti specifici di ogni parte del mondo sono un patrimonio che solo i lavoratori ed i contadini conoscono a fondo e possono valorizzare e conservare anche con metodi nuovi ed efficienti che permettono un risparmio di duro lavoro ma questo è possibile solo dopo una pianificazione attenta della produzione agricola.