Il Primo maggio 2023 potrebbe essere ricordato come anniversario della ennesima sconfitta patita dal movimento sindacale o meglio dei lavoratori conflittuali. Mentre scriviamo, il governo sta per riunirsi (data simbolica quella del Primo maggio che venne messo fuori legge dal fascismo e contro il quale i giornali di destra da giorni tuonano per rimuoverlo dalle festività del calendario) e a seguire ci sarà l’incontro con Cgil, Cisl e Uil.
La manovra sul lavoro è sbagliata e soprattutto scritta sotto dettatura delle associazioni datoriali che porteranno a casa il taglio di quel cuneo fiscale che pesa per due terzi proprio sulle aziende. Ma questo decreto sul lavoro è anche prodotto dell’ideologia del family day e del principio che gli aiuti e gli sgravi fiscali debbano indirizzarsi soprattutto a lavoratori e lavoratrici con figli/e a carico.
Il provvedimento del governo varrà per cinque o sei mesi, e a nessuno è venuto in mente di quantificare i vantaggi reali per le imprese e quelli, assai miseri, che arriveranno nelle buste paga dei salariati.
L’idea di recuperare potere di acquisto con la riduzione sulle tasse del lavoro è il problema di fondo; a sostenerla sono tanto il governo quanto le parti datoriali e i sindacati rappresentativi. Si vogliono far pagare meno tasse in un paese nel quale di tasse i dominanti e i ceti più abbienti ne pagano assai poche tra aiuti e sgravi fiscali.
L’idea che il problema sia proprio rappresentato dall’eccessivo, si fa per dire, cuneo fiscale è il risultato della egemonia culturale e ideologica neoliberista. Il potere di acquisto perduto in Italia è assai maggiore di quello degli altri paesi Ue, i salari da 35 anni sono in costante perdita ma invece di rivendicare aumenti salariali dignitosi e meccanismi di adeguamento dei contratti al reale costo della vita si scelgono strade lastricate dalla precarietà e dalle mancate sovvenzioni al welfare, a sanità e istruzione pubblica.
I sindacati rappresentativi sono responsabili di questa situazione perchè accettare la logica della riduzione delle tasse sul lavoro è un mero favore alle imprese mentre invece gli aumenti contrattuali, i contratti stabili pagati dignitosamente rappresenterebbero una risposta costruttiva e un reale incremento del potere di acquisto con ripercussioni positive sulle future pensioni.
Un sindacato coerente con il suo ruolo chiederebbe da tempo il ripristino di aliquote progressive sui redditi e una patrimoniale per destinare risorse al welfare e potenziare i servizi pubblici.
I sindacati che oggi criticano, a parole, la Meloni, sono gli stessi ad avere previsto il lavoro domenicale obbligatorio nel commercio o quel sistema di deroghe ai contratti nazionali che ha accresciuto la produttività in cambio di aumento dei ritmi, della precarietà e premi aziendali defiscalizzati. Gli stessi artefici di sanità e previdenza integrativa hanno operato scelte fallimentari gettando discredito sul welfare e sui servizi pubblici fino ad accettare il precetto neoliberista di ridurre le tasse sul lavoro in cambio poi di precarietà e non di stabili e dignitosi contratti.
L’arrendevolezza politica dei sindacati è frutto anche della sottomissione ideologica agli avversari di classe da tempo ormai elevati al rango di interlocutori privilegiati. Pensare per esempio di mandare in soffitta il decreto dignità per riportare le causali, dopo il dodicesimo mese, dentro la contrattazione sindacale, è il frutto malato di un’idea errata, quella che dentro la contrattazione nazionale e di secondo livello si salvaguardino diritti e tutele individuali e collettive. Se ciò fosse vero non avremmo salari da fame e paghe orarie inferiori a un ipotetico salario minimo contro il quale, come avvenuto già con il decreto dignità, l’ignavia sindacale ha giocato un ruolo nefasto e regressivo.