Segue dalla prima parte
L’Autore fa notare che tutti i dati disponibili suggeriscono che, a dispetto dei luoghi comuni ideologici, la mobilità sociale nell’America del XX secolo e all’inizio del XXI (nazione che presenta la maggiore disparità dei redditi da lavoro), sia molto bassa ed inferiore a quella dell’Europa. Ciò viene messo in relazione con l’elevato costo degli studi universitari, proibitivo per le classi popolari e medie, ed in particolare di quelli più prestigiosi (ad Harvard, che non è nemmeno l’università più cara, le quote di iscrizione ammontavano a 54.000 dollari nel 2013). Certamente l’accesso esclusivo agli studi più qualificati e prestigiosi impedisce qualsiasi vera mobilità sociale, accelerando ed aggravando piuttosto il processo di riproduzione intergenerazionale (altro che opposizione tra generazioni o divisione della ricchezza sulla base dell’età, come pure viene affermato ideologicamente!). Ma c’è di più: gli economisti ad esempio, soprattutto i più quotati, provengono proprio dalle classi più privilegiate e svolgono un ruolo tecnico per i decisori politici, oltre a quello di insegnamento e divulgazione. La loro appartenenza di classe comporta pertanto anch’essa, indirettamente, un’azione di autorigenerazione delle stesse disuguaglianze. A tal proposito Piketty sostiene che teorie e metodologie nella scienza economica risentano profondamente di tali interessi e cita l’utilizzo diffuso di indicatori astratti di disuguaglianza, quali il Coefficiente di Gini o il Principio di Pareto o i rapporti interdecili, i quali si propongono di edulcorare le stesse disuguaglianze, presentandole come naturali, ovvie, eterne. Nel testo viene smentito anche il mito, riduttivo e infondato, dell’accumulazione come “ciclo di vita”, suggerito dall’economista italiano Modigliani, apologeta del liberismo economico, secondo cui il capitale sarebbe accumulato nel corso della vita lavorativa mediante il risparmio, per essere utilizzato interamente, dopo il pensionamento, per mantenere il tenore di vita, anziché essere destinato a trasmettersi con l’eredità.
Le grandi ricchezze generano ovviamente potere e capacità di lobbying e ciò è certamente una delle spiegazioni della tendenza alla riduzione della progressività delle imposte che a sua volta aumenta di fatto il reddito netto della classe più benestante (si pensi, passando all’attualità, alla drastica riduzione delle imposte alla imprese americane stabilita dal tycoon Trump, o, nel piccolo, alla assurda proposta di una flat tax, nella campagna elettorale italiana in corso, da parte del magnate Silvio Berlusconi). Un altro fattore di divergenza deriva dal fatto che i capitali maggiori rendono di più di quelli piccoli o minimi (immaginiamo i tassi di interesse irrisori, spese a parte, di un conto corrente bancario o postale), grazie alla maggiore economia di scala nei costi della gestione finanziaria come pure al migliore accesso di informazioni sui mercati finanziari, riservate e non. In più al crescere della dimensione dei capitali aumenta la capacità di evasione fiscale, legale ed illegale (si pensi ai cosiddetti paradisi fiscali, maanche alla costituzione di fondazioni private e di trust funds o allo spostamento delle sedi fiscali delle società o della residenza personale dove conveniente, ecc.). Tutto ciò comporta, in un circolo vizioso, una crescita esponenziale dei patrimoni più grandi.
Piketty sostiene, a ragione, contro Pareto, che non esiste un limite “naturale” al livello di disuguaglianza della distribuzione di redditi e ricchezze, non esistono fattori automatici di regolazione che lo stabilizzino, ma sono i fattori esogeni che giocano. D’altra parte non ritiene verosimile la teoria del futuro crollo automatico del capitalismo come conseguenza della marxiana caduta tendenziale del saggio di profitto. Tale andamento infatti può essere attenuato o persino temporaneamente bloccato o invertito da una serie di controtendenze tra cui lo sviluppo tecnologico o le politiche neoliberiste pro capitale.
La soluzione preferibile formulata da Piketty sarebbe, in sostanza, una imposta annuale individuale sul capitale fortemente progressiva, a tassi quasi confiscatori per le maggiori ricchezze ed estesa a livello mondiale. Per rendere ciò attuabile, sottolinea l’Autore, occorre però creare strumenti nuovi, fondati teoricamente su un sistema altamente trasparente di scambi automatici di informazioni bancarie, affidabili e globali, sulla distribuzione dei patrimoni, in mano al potere pubblico e che svolga interessi generali. Questo secondo l’Autore sarebbe l’unico modo, non certo semplice da attuarsi, che consentirebbe alla democrazia di riprendere il controllo del capitalismo finanziario globale, salvaguardando allo stesso tempo il dinamismo imprenditoriale. E sarebbe pertanto una soluzione più “pacifica” di quella, peraltro definita fallimentare, attuata dall’Unione Sovietica nel XX secolo. L’Autore suggerisce anche che la soluzione illustrata consentirebbe di rimborsare tutto o in parte l’astronomico debito pubblico, accumulato da molti Paesi del sud Europa tra cui l’Italia. In maniera condivisibile questi afferma che il debito pubblico costituisce una ricchezza privata che grava sulla povertà pubblica e va incontro agli interessi di chi dispone di mezzi finanziari per prestare soldi allo Stato, a cui sarebbe stato invece meglio far pagare le imposte.
Tuttavia non è chiaro come possa essere imposta una tale soluzione, che non è certo tecnica ma politica, la quale in pratica significherebbe la perdita del controllo del potere da parte del capitalista e la sua, pur graduale, espropriazione. Tant’è vero che oggi, in effetti, prevale un senso di impotenza da parte delle classi popolari e delle classi medie, e, all’opposto di quanto auspicato, persino a livello europeo gli Stati entrano in concorrenza, divisi dall’esigenza, penalizzante, di attrarre capitali, come lo stesso testo ci espone.
Assistiamo infatti ormai ad una gara continua per ridurre le imposte sui redditi delle imprese e per detassare i redditi finanziari, al punto che già oggi il prelievo fiscale sui vertici della gerarchia sociale di fatto ha già perso ogni progressività. Il modo di produzione capitalistico si è sviluppato e si regge, possiamo dire, non perché sia più efficiente di altri modi di produzione, ma perché esso fornisce ai capitalisti il più grande profitto e il più grande potere. Consentiranno mai i capitalisti di attuare la soluzione proposta da Thomas Piketty che, pur mantenendo il capitalismo, eliminerebbe i più grandi privilegi alla classe detentrice del potere, cioè a loro stessi?
Infine, il titolo del testo non può non richiamare la maggiore opera filosofica di Marx, ma naturalmente la distanza tra di esse, a parte qualche minore analogia (quali diversi richiami alla letteratura francese ottocentesca) e minimi riferimenti allo stesso Marx, rimane siderale: l’indagine di Piketty, pur attenta alle dinamiche del processo storico, si svolge da una prospettiva strettamente socio-economica e quantitativa ed è lontana da qualsiasi profondità valutativa filosofica. Chiarito ciò, il testo dell’autore francese può essere indubbiamente uno strumento molto utile come punto di partenza per una discussione politica, in considerazione dei drammatici dati oggettivi e del loro andamento generati dal sistema capitalistico ed opportunamente qui mostratici.
Per concludere, si potrebbe dire che le soluzioni individuate da Piketty, posto che risolverebbero il problema della ingiusta distribuzione della ricchezza nel sistema capitalistico e della connessa perdita della democrazia, siano l’ultima possibilità di dimostrare l’eventuale riformabilità del capitalismo. Ad oggi, a quasi cinque anni dalla pubblicazione dell’opera, che pure ha venduto nel mondo oltre un milione di copie, passi avanti anche minimi verso l’applicazione delle ricette qui proposte non risulta siano state fatti, e questo deve far riflettere.
L’autore è membro del Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni
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