Segue dalla prima parte.
Nel proseguire l’analisi delle aziende della Silicon Valley, a cui fanno capo i 4 padroni della rete: Facebook, Google, Amazon e Apple, l’attenzione e la curiosità vanno spontaneamente al network più gettonato che coinvolge quotidianamente milioni di frequentatori. Un sistema che può produrre dipendenze, annientamento della privacy e sdoppiamenti legati all’idea del tempo e dello spazio. Parliamo di Facebook, dei risvolti riguardanti la privacy, di come la piattaforma digitale produce profitto non solo per il suo creatore e tycoon, Marck Zuckerberg, ma anche per le aziende collegate che lo gestiscono. Si attiva e si alimenta così a un modello di social capitalism che non fa altro che supportare gli interessi economici di quelle imprese commerciali che sanno come sfruttare al meglio le potenzialità della piattaforma colosso a cui si avvinghiano come parassiti.
E ricorrono le domande, già menzionate nella prima parte di questo articolo, a cui dare risposte chiare e veritiere non è facile. Soprattutto non si conoscono tutte le retrovie che consentono di mantenere attivo un sistema di comunicazione planetario apparentemente basato sull’empatia, ma in realtà orientato sullo sfruttamento di quello che gli aziendalisti chiamano capitale umano.
“Come hanno fatto queste aziende a entrare nella nostra vita, nel nostro privato ed appropriarsene, sforando il muro della privacy e gestendo i nostri dati a loro uso e consumo? E perché nonostante i vari errori gestionali che avrebbero fatto fallire qualsiasi altra impresa sono sempre più in auge sui mercati mondiali? E a quali strategie ricorrono per sfruttare il capitale umano in rete?”
Fenomeno Facebook
Nel caso di Facebook, del suo successo per l’enorme espansione fra i frequentatori della rete, contano sicuramente le dimensioni, perché è oggi forse “l’entità di maggior successo mai creata nella storia dell’umanità”. Così viene citato il network nel saggio di Scott Galloway “The four- I padroni”. L’azienda nel giro di un ventennio ha messo in relazione oltre due miliardi di persone ed ha in gestione altre due piattaforme: WhatsApp e Instagram. Sondaggi sul tempo di utilizzo rilevano che il tempo di presenza su Facebook pro capite è di minimo 35 minuti al giorno, escluso il tempo dedicato alle altre due app, con le quali si arriverebbe ad un tempo di 1 ora al giorno. Ѐ sicuramente un tempo superiore a tutte le altre attività quotidiane di importanza secondaria. Ma siamo ottimisti, o forse riduttivi quando pensiamo ad un tempo che non supera un’ora. Infatti viene indicato il tempo minimo. Possiamo facilmente pensare a quanto ammonta, espresso in ore, un tempo massimo, se frequentiamo chi è in preda a dipendenza da internet.
Se pensiamo che il tempo trascorso in rete potrebbe essere regolamentato con una tariffa oraria, qualora Internet venisse privatizzata, allora probabilmente il tempo di presenza degli internauti diminuirebbe. Se venisse legalizzata la tariffa oraria di una rete Internet S.p.A. e il tempo di permanenza sul network dei 2 miliardi di utilizzatori restasse lo stesso, il valore di Facebook sarebbe fuori da ogni stima possibile, né sarebbe possibile calcolarla in cifre.
Intanto la stima di Facebook, prima dello scandalo “Cambridge Analytica”, che ha fatto collassare le quotazioni in Borsa, era di 420 miliardi di dollari. Una stima ragguardevole e non sopravvalutata. Potrebbe, infatti, se si verificasse la privatizzazione della rete, essere di gran lunga superiore, considerando che la cessione in una Ipo (initial Public offering) è non meno del 20%. E sul “pay to play” riferito all’accesso a Internet ne ha già parlato la Fcc (Commissione federale delle comunicazioni) degli Usa, pubblicando un memo informativo a riguardo.
Si sgretolerebbe così il principio fondamentale della Net Neutrality, con conseguenze devastanti per chi della rete non può farne a meno, soprattutto per motivi professionali, ma anche per chi ne fa un uso ludico e ricreativo, e per le piccole net aziende che dalla rete traggono sostentamento. Le spese che l’utente affronta per la semplice connessione internet sono bazzecole rispetto a quelle che si paventano con la privatizzazione della rete. Facebook, come altre piattaforme digitali (Twitter, Skype, whatsApp, ecc.) diventerebbero servizi a pagamento. Il dubbio è che piuttosto che rinunciare alla rete, molti iscritti, ormai sdoppiati fra il reale e il virtuale, andrebbero sul lastrico e molte aziende digitali fallirebbero. Sarebbe un attacco feroce anche per molti siti e blog di informazione. Ma tranquilli, la notizia è stata smentita dal presidente della Fcc, Thom Wheller, che garantisce l’open Internet. Ma fino a quando? La privatizzazione della rete è sempre in agguato considerando che fa gola ai 4 padroni della rete e a diverse altre multinazionali della comunicazione in rete che ne trarrebbero immensi profitti.
Facebook dipendenza
Tornando al nostro Facebook, l’oppio del ventunesimo secolo, e collegandolo al progetto “pay to play” che si estenderebbe in breve a tutti i paesi occidentali, quanti frequentatori oggi, soprattutto fra le nuove generazioni, native digitali, lo considerano un bene secondario? La domanda è aperta, ma le risposte sono quasi scontate. La maggioranza dei giovani e non solo, anche persone di età avanzata, considerano l’accesso a Facebook alla guisa di un bene primario, tanto da non potervi rinunciare. Avete mai notato l’espressione di chi si trova la pagina oscurata e non può accedervi? Inizia per il feisbukdipendente una fase luttuosa, da cui si libera solo quando termina l’esilio e può tornare a postare, a commentare, a taggare, a sfogliare voracemente le pagine dei suoi contatti, a visualizzare immagini, anche di persone sconosciute. Il ritorno, dopo l’esilio forzato, è un momento di grande euforia, paragonabile alla gioia di un bimbo che ritrova la mamma dopo averla persa in un centro commerciale o una vincita alla lotteria.
Perché Facebook e la rete hanno mangiato le sinapsi a molti di coloro a cui il sistema ha generato dipendenza e patologie? Qual è il loro potere sulla mente? Possiamo pensare al fatto che Facebook rappresenta l’origine del desiderio, proprio perché il desiderio nasce con l’immagine che più è veloce e fruibile più origina desideri. E Facebook, anche tramite la sua controllata Instagram, di immagini ci nutre generosamente. Il network più famoso del pianeta è un generatore di desideri. Ma la sua missione non finisce qui. Se lo paragoniamo ad un imbuto, Facebook è l’imbocco, superato il quale il desiderio si tramuta in intenzione e subito in volontà.
Chi vede un’immagine che lo soddisfa vuole tramutarla in realtà, così Facebook diventa uno sponsor pubblicitario per le grandi firme o le grandi aziende. Nell’imbuto entriamo alla ricerca dell’oggetto del desiderio, e così ci lanciamo in Google che ci dà le directory giuste per reperirlo e poi finiamo in Amazon. Il loop finisce qui. Abbiamo investito denaro e sono tutti contenti, specie i tycoon delle multinazionali. In fondo la loro prima merce siamo noi.
Facebook e l’informazione
Facebook fa notizia. La maggior parte dei feisbukiani vi si nutre di notizie in tempo reale. Tanto basta per ritenersi adeguatamente informati, senza la curiosità di approfondire la notizia e accertarsi se sia un fake o meno. Ma questo a chi manovra il sistema per renderlo sempre più una macchina mangiasoldi non interessa e non ne sente la responsabilità, per il semplice motivo che il network non vuole essere connotato come un’azienda dei media mainstream. Non gli conviene. Lo fosse avrebbe molte più responsabilità verso l’opinione pubblica, così come le devono avere tutte le media company del settore giornalistico, in cui entra in gioco l’etica giornalistica e la linea editoriale. Facebook, invece, adotta la stessa modalità delle altre aziende della tech economy, ovvero “Creare un brand progressista, promuoverne l’adozione da parte della leadership, abbracciare il multiculturalismo”, ma soprattutto perseguire avidamente il profitto a mo’ di rapace. E se quest’ultimo è l’intento principale perché dovrebbe porsi il problema che le notizie che passano come frecce sulle profili degli iscritti siano vere o false? E soprattutto perché continuiamo a informarci in questo modo effimero?
Facebook e le relazioni
Sono le relazioni a determinare il nostro stato di salute mentale. Non occorrono analisi elaborate per comprenderlo, ma occorre ricordarlo. Il livello di serenità di una persona si misura anche con il grado di profondità e di senso che diamo alle nostre relazioni. Più relazioni positive abbiamo in attivo nella nostra quotidianità, più possiamo sentirci appagati. L’interazione che abbiamo con gli altri ci mette in gioco e più incontri abbiamo più ci sentiamo attivi, partecipi e inclusi. Facebook che fa? Sfrutta questa nostra necessità e ci mette in relazione con il mondo. E non solo, ci aiuta nella nostra ricerca di relazioni positive proponendoci contatti con persone affini alle nostre caratteristiche. Tracce che noi stessi gli abbiamo rivelato svelando persino quante paia di calze conserviamo nel cassetto della biancheria.
Troppo facile per il mostriciattolo metterci sotto il naso i nostri affini. E le relazioni aumentano in maniera esponenziale. Mille, duemila contatti in un mese. Difficilmente riusciremo a farne a meno per tornare nel nostro piccolo mondo reale fatto di 2, 3 , 4 persone sempre le stesse, sempre uguali. La verità, che è evidente non amiamo perseguire, è che tutto questo è utile non a creare relazioni amicali o amorose e a sviluppare la socialità, che in realtà in rete è un’utopia perché virtuale, ma a drogarci di emozioni fittizie. L’opera del dottor Stranamore continua fino a che non entriamo in quel famoso imbuto, il servo demone del capitalismo.
E la storia continua…. (sul prossimo numero)
Fonti:
- S. Galloway, The four. I padroni, Hoepli, 2018
- V. Lops, Perché Facebook vale 40 volte Twitter, Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2017, https://goo.gl/brZm54