La incedibile sovranità del progetto comunista

Nella sua storia ormai più che ventennale il Partito della Rifondazione Comunista ha attraversato diversi momenti della lunga fase di crisi capitalistica e di ridefinizione dei rapporti sociali, politici ed economici. È quindi una problematica fondativa e di lungo periodo quella con cui oggi siamo nuovamente chiamati a confrontarci. Potremo uscirne in avanti soltanto se riusciremo a far crescere nel concreto la nostra iniziativa politica e di lotta radicata nelle emergenze sociali inconciliabili con le logiche di produzione capitalistica.


La incedibile sovranità del progetto comunista

 

Nella sua storia ormai più che ventennale il Partito della Rifondazione Comunista ha attraversato diversi momenti della lunga fase di crisi capitalistica e di ridefinizione dei rapporti sociali, politici ed economici. È quindi una problematica fondativa e di lungo periodo quella con cui oggi siamo nuovamente chiamati a confrontarci. Potremo uscirne in avanti soltanto se riusciremo a far crescere nel concreto la nostra iniziativa politica e di lotta radicata nelle emergenze sociali inconciliabili con le logiche di produzione capitalistica.

di Pietro Antonuccio

Nella sua storia ormai più che ventennale il Partito della Rifondazione Comunista ha attraversato diversi momenti della lunga fase di crisi capitalistica e di ridefinizione dei rapporti sociali, politici ed economici avviata negli anni ’80 ed in cui ancora oggi (e sempre più) siamo immersi. Nel 1991, la spinta fondamentale e originaria è stata indubbiamente quella della contrapposizione al progetto di definitiva omologazione del P.C.I. nell’ambito della democrazia capitalistica. Progetto promosso dalla segreteria di Achille Occhetto con la precisa volontà di aderire ad un governo riformista capace di mitigare (senza affatto negarne la legittimità) le politiche capitalistiche di gestione della società, in una logica di mera governabilità del sistema esistente.

A questa definitiva liquidazione della diversità comunista ha voluto reagire la fondazione del Partito della Rifondazione Comunista, riaffermando la necessità di un’alternativa complessiva ed anticapitalista: è stato questo, indubbiamente, il carattere originario del P.R.C. anche se, ovviamente, nel pieno delle contraddizioni politiche, è stato sentito e praticato con diversi accenti e con diverse sfumature in base alle diverse sensibilità e storie politiche confluite al suo interno.

Ma questo è rimasto il suo comune denominatore: quello di un partito che non accetta come definitivo e “normale” l’ambito della democrazia borghese e delle istituzioni di governo, che ha il suo baricentro politico nelle contraddizioni sociali più che nelle discussioni istituzionali, nella costruzione di un diverso blocco sociale più che in nuove forme di governo, in una alternativa di sistema più che nell’alternanza dei governi.
E tutto questo non per una vocazione al minoritarismo, ma al contrario per l’aspirazione e il progetto fortemente maggioritario di costruzione di sistemi di alleanze che portino ad una egemonia delle classi subalterne, ben oltre le affermazioni elettoralistiche. Anche ritenendo compatibili alleanze sul piano della politica istituzionale, soprattutto se funzionali a sostenere maggioranze capaci di “battere le destre” (rese ancora più pericolose ed aggressive dallo sdoganamento berlusconiano del M.S.I.), ma senza mai assumere questi passaggi come centrali e fondanti, bensì come articolazioni tattiche di una più ampia prospettiva.

Questa impostazione originaria e fondamentale del P.R.C. è stata continuamente messa a dura prova dal progressivo acuirsi della crisi capitalistica, dal permanente ricatto di “favorire le destre” in caso di mancato appoggio ai cartelli e ai governi di centro-sinistra, dalla sempre più aspra discussione tra le componenti interne più sensibili alle pressioni per l’integrazione nell’orizzonte del “socialismo europeo”, e quelle più determinate nel mantenerne e rilanciarne la caratterizzazione anticapitalista che non può risolversi in forme di organico appoggio alle politiche, per quanto più mitigate, provenienti dalle direzioni dei grandi gruppi imprenditoriali e finanziari.

La dialettica su questo essenziale asse discriminante per la stessa identità del PRC ha attraversato tutta la sua storia mettendone a rischio continuo la stessa sopravivenza come forza comunista tesa alla trasformazione della società e non soltanto alla gestione “riformistica” delle tensioni sociali mediante gli strumenti e le alleanze di governo istituzionale (nazionale e locale). 

Il confronto tra le due tendenze ha avuto, a cadenza decennale, i suoi culmini nel 1998 intorno al destino del governo Prodi fino a produrre la scissione da cui è nato il PdCI con volontà espressamente “governista” e nel 2008 con il congresso di Chianciano nel quale si è consumata la rottura della parte che darà vita a SEL intorno alla scelta strategica di una alleanza organica con il PD in funzione del superamento degli sbarramenti elettorali e della presenza nei governi locali (e con la benedizione non casuale, ma che simbolicamente “chiudeva il cerchio”, dello stesso Achille Occhetto).

In entrambi i casi è quindi precipitata fino alla scissione la distinzione essenziale tra la tendenza a mantenere la centralità del carattere anticapitalistico ed alternativo di sistema del PRC e quella a ritenere essenziale la presenza istituzionale con la partecipazione ad un sistema di alleanze contrapposto alle destre, pur nella evidenza della compromissione con le politiche padronali e del rischio concreto di essere risucchiati persino nel malaffare delle gestioni politiciste delle istituzioni.

Il bilancio da trarre oggi non può, quindi, che partire dalla constatazione che la sopravvivenza ancora attuale della originaria connotazione del PRC è un grande ed essenziale successo di resistenza politica in un contesto che ha sempre più accresciuto la pressione per la sua “normalizzazione”, un successo da difendere e incrementare in quanto ad oggi è un successo pagato al prezzo di grandi perdite e fino al rischio concreto della marginalità politica. 

Una marginalità cui non possiamo rassegnarci, nella consapevolezza che però non esistono nemmeno scorciatoie di tipo organizzativo. A fronte del sempre maggiore inasprirsi delle politiche padronali che tendono a scaricare sulle classi lavoratrici gli effetti della crisi, non è accettabile né rassegnarsi ad un ruolo di pura testimonianza delle nostre posizioni di principio, né diluire il PRC in contenitori diversi che limitandone l’agibilità con “cessioni di sovranità”, rinnovano la minaccia della sua normalizzazione all’interno di una governabilità basata sulle alternanze elettoralistiche.

È quindi una problematica fondativa e di lungo periodo quella con cui oggi siamo nuovamente chiamati a confrontarci. Potremo uscirne in avanti soltanto se riusciremo a far crescere nel concreto la nostra iniziativa politica e di lotta radicata nelle emergenze sociali inconciliabili con le logiche di produzione capitalistica.

Le formule e i contenitori dovranno essere solo una conseguenza di questo che rimane il lavoro essenziale e irrinunciabile dei comunisti. In sostanza una “variabile dipendente”, ferma restando la incedibile sovranità del progetto comunista. 

 

27/12/2014 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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